In fuga dall’Europa,
dove ormai la seconda guerra mondiale sta cancellando ogni illusione
di civiltà, Henry Miller si siede al volante e macina diecimila
miglia, convincendosi che “l’unico modo di vedere l’America è
in macchina: così dicono tutti. Non è vero, naturalmente, ma suona
bene. Non avevo mai posseduto una macchina, non sapevo nemmeno
guidare”. L’idea del viaggio è risalire alla fonte, alle radici,
solo che tra la nostalgia della cultura europea e l’insoddisfazione
personale lo trasformano in un’odissea caustica. Il paragone tra
Parigi e Mobile è impietoso, gli unici quartieri che lo affascinano
sono quelli di Charleston e New Orleans dove l’influenza francese è
palpabile, per il resto la sua considerazione per l’America è
radicale, sprezzante, tranchant. In una lettera scrive: “Che paese
meraviglioso l’America. Ti fotte a ogni passo”, e poi ci vuole un
bel coraggio a definire Walt Disney “un maestro dell’incubo”,
ma non a caso l’America autentica è soltanto quella in cui la
presenza umana è insignificante, dove “c’è un enorme rettangolo
che abbraccia porzioni di quattro stati, Utah, Colorado, New Mexico e
Arizona, e è tutto incanto, stregoneria, illusionismo,
fantasmagoria. Forse il segreto del continente americano è racchiuso
in questo territorio selvaggio, impervio e parzialmente inesplorato”.
E’ solo deserto, lì, e rende plausibile l’ipotesi che gli strali
di Henry Miller fossero indirizzati verso l’umanità in generale
più all’America, nello specifico. Dirà la stessa Anaïs Nin:
“L’avventura di Henry è distruttiva, è una catastrofe, un
sacrificio. Perché in questo viaggio non c’è niente di
costruttivo, non fa altro che sputare in faccia all’America, come
un predicatore che pronuncia un sermone infinito”. Come tutte le
omelie, anche L’incubo ad aria condizionata contiene aspetti
caricaturali e profetici in uguale misura, entrambi non trascurabili,
soprattutto quando Henry Miller declama: “Non si fa un mondo nuovo
cercando solo di dimenticare il vecchio. Un mondo nuovo lo si fa con
uno spirito nuovo, con nuovi valori. Può darsi che il nostro mondo
sia cominciato così, ma oggi è una caricatura. Il nostro mondo è
un mondo di cose. E’ fatto di comodità e di lusso, oppure del
desiderio di entrambi. Ciò che temiamo di più, di fronte
all’incombente débâcle, è che saremo costretti a rinunciare ai
nostri aggeggi, alle nostre carabattole, a tutte le piccole comodità
che ci hanno dato tanta scomodità. Nella nostra condotta non c’è
niente di coraggioso, di cavalleresco, d’eroico o magnanimo. Non
siamo anime pacifiche; siamo timidi, affettati, schizzinosi e
gemebondi”. Non di meno, il giudizio e la sentenza per e con gli
americani vengono estesi verso l’intero genere umano: “Conosciamo
soltanto una piccola frazione della storia dell’uomo su questa
terra. E’ una lunga, monotona, dolorosa successione di catastrofici
mutamenti che implicano a volte la scomparsa di interi continenti.
Narriamo la storia come se l’uomo fosse una vittima innocente, un
inerme partecipante alle casuali e imprevedibili rivoluzioni della
natura. Forse lo era in passato. Ma ora non più. Oggi, qualunque
cosa accada a questa terra, è opera dell’uomo. L’uomo ha
dimostrato d’essere padrone d’ogni cosa: tranne che della propria
natura. Se ieri era figlio della natura, oggi è una creatura
responsabile. Ha raggiunto un punto di consapevolezza che non gli
consente più di mentire a se stesso. La distruzione è ora
deliberata, volontaria, autoprovocata. Siamo a un bivio: possiamo
andare avanti o ricadere. Abbiamo ancora la possibilità di
scegliere. Domani forse no”. Allora non poteva saperlo, Henry
Miller, ma il dubbio lo risolveva già nella curiosa appendice. La
fondazione Guggenheim gli aveva negato un contributo per L’incubo
ad aria condizionata e per chiarire la “tradizione” delle borse,
Henry Miller aveva pubblicato l’elenco del 1941 che, tra le altre
amenità, ne comprendeva una a favore di tale dottor Aristid V.
Grosse, farmacista, Bronxville, New York, per la “continuazione di
studi sui prodotti del bombardamento neutronico dell’uranio,
protattinio e torio”. Quel futuro l’avrebbe visto, dall’altra
parte dell’oceano, guardandolo da Big Sur, senza peraltro cambiare
opinione. Molti anni dopo, nel 1966, avrebbe detto, ancora:
“L’America è meglio tenerla così, sempre sullo sfondo, una
specie di cartolina postale a cui guardare nei momenti di debolezza.
Così, tu t’immagini che sia sempre là ad attenderti, immutata,
intatta, un grande spazio aperto patriottico con vacche, pecore e
uomini dal cuore buono, pronti a fottersi tutto quello che vedono,
uomo donna o bestia. Non esiste l’America. E’ un nome che si dà
a un’idea astratta”. Coerente, fino alla fine.
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