Per la famiglia Burroughs
l’omicidio è qualcosa che sta tra l’incidente e l’ineluttabile
necessità di rimuovere un ostacolo, fosse anche il ramo di un albero
genealogico che gronda sangue. Gareth, il padre della discendenza
protagonista in Bull Mountain, Clayton e Halford (nonché di Buckley,
ormai fantasma) ha visto uccidere Rye alias Riley, il fratello di suo
padre Cooper durante una battuta di caccia. L’hanno sepolto nel
bosco, sulle colline impervie della Virginia, senza esitare: il
dominio del clan dei Burroughs non riguarda soltanto il prosperare
dei traffici illegali, che nel corso degli anni sono passati dal
contrabbando di whiskey, alla marijuana e alle metanfetamine (sempre
con il corollario di uno sproposito di armi e munizioni), ma anche e
soprattutto il controllo del territorio. Tradotto nel loro
ridottissimo linguaggio, significa rendersi invisibili su un versante
inaccessibile delle montagne, che è come abitare la faccia nascosta
della luna. Lì, i Burroughs, immersi in una fittissima nebbia
alcolica, conducono un’esistenza determinata dalla violenza
costante, persistente, ossessiva e a senso unico, nell’intenzione
di determinare i destini comuni. Le regole vengono dettate dal
primordiale principio della forza bruta applicata senza avvertimento,
con una crescente potenza di fuoco e non c’è distinzione
possibile: gli affari sono la famiglia, e la famiglia è Bull
Mountain. La variabile nella stirpe dei Burroughs è Clayton, il più
giovane essendo nato nel 1972, che viene eletto sceriffo, un
paradosso che rende bene l’idea del clima di Bull Mountain, perché
nessuno è così temerario da candidarsi contro un Burroughs e
d’altra parte lo votano tutti. Lui scende a valle e si sposa,
mentre il fratello, Halford, di dieci anni più vecchio, rimane a
presidiare le fortezze e i commerci nei boschi. Il tentativo di
Clayton di lasciarsi alle spalle le radici di Bull Mountain, dato che
“per quanto ostile, quel posto era casa sua”, viene messo a
rischio dalla missione di Simon Holly, un agente federale che si
presenta nell’ufficio dello sceriffo con un’ambigua offerta per i
Burroughs, ma i cui veri obiettivi rimangono oscuri e inconfessabili.
Qualche sospetto matura scrutando nell’altro lato di Bull Mountain,
quello femminile. Il terreno dei Burroughs è maschile, macho e
maschilista all’estremo e fa sì che le uniche tre donne che
intersecano la saga costituiscano anche altrettanti elementi di
svolta nella storia di Bull Mountain. La prima (Annette Henson
Burroughs, ovvero la moglie di Gareth e madre di Halford, Clayton e
Buckely) fugge senza voltarsi e sparisce per sempre, ma il vuoto che
lascia è un buco nero. Un’altra ragazza prova a crescere un figlio
in condizioni disumane, ovvero mentre non riesce nemmeno a badare a
se stessa. L’ultima, la moglie di Clayton, dubita, vigila e attende
mentre un nodo scorsoio scorre lungo i crinali fino al centro della
contea, e viceversa, lasciando ben poca speranza sul terreno perché,
come dice James Ellroy, Bull Mountain “ha tutto: whiskey, droga e
caos”. La scrittura di Brian Panowich punta all’essenziale, è
ruspante e avvincente, non cerca né il colpo di scena, né la
suspense: è chiaro in ogni singolo passaggio di Bull Mountain che la
famiglia Burroughs è la nemesi di se stessa. Piuttosto, i ritmi
sincopati e i toni coloriti, che ricordano l’abilità di James
Crumley, spingono a sovrapporsi e a mescolarsi alcuni miti e cliché
tutti americani, che Brian Panowich maneggia con perizia. Dalla
wilderness che, oltre a offrire una casa garantisce una sorta di una
sorta di indipendenza inviolabile e incontrollabile, alla proprietà
e al disinvolto uso delle armi, dalla cruda e spartana realtà “white
trash” alla cultura dei fuorilegge e per estensione dell’outsider,
Bull Mountain è un concentrato esplosivo che non lascia scampo.
Colonna sonora, obbligatoria: Lynyrd Skynyrd, a tutto volume.
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