Devin Jones è stato lasciato dal suo primo amore
(insopportabile) e per ovviare all’ossessivo pensiero dell’abbandono decide di
trascorrere un’estate a lavorare in un parco di attrazioni nella Carolina del
Sud. Una volta entrato a Joyland verrà chiamato Jonesy e la sua specialità sarà
impersonare Howie, il cane che è la mascotte del luna-park, indossando un
costume che è una tortura. Oltre a una nutrita schiera di pittoreschi
personaggi, Joyland è abitato dal fantasma di Linda Gray, uccisa e abbandonata
della galleria degli orrori, ed è l’unico elemento fantastico della storia.
Stephen King ha una leggerezza tutta sua quando si avvicenda dal danse macabre
e si possono perdonare le ripetizioni, qualche caduta di tono, una cerca
meccanicità perché Joyland si sviluppa “proprio come una canzone” o meglio
attingendo a un immaginario speciale, che meriterebbe un saggio a parte. Big
Joe Turner e Johnny Otis suonano o hanno suonato nell’auditorium di Joyland,
Madame Fortuna o Rozz o Rozzie (i nomi variano con l’umore e le
interpretazioni) cita Good Vibrations dei Beach Boys, poi vengono richiamati
all’appello in un modo o nell’altro Jimi Hendrix, John Lennon, gli Hollies, i
Beatles e gli Stones. In una ghost story non potevano mancare (e si rivelano
fondamentali) i fantasmi più rilevanti della storia del rock’n’roll, la voce di
Jim Morrison nei Doors ed Elvis che all’epoca di Joyland (siamo nel 1973) non
ancora lo spettro più famoso d’America. A proposito di canzoni: la prima che
viene citata è Stay With Me dei Faces ed è la chiave per entrare nella
storia: per inciso, i Faces avevano un catalogo inarrivabile di pop song
suonato con tutta l’energia e la forza di una rock’n’roll band e i riferimenti
musicali rendono Joyland una specie di “series of dreams” dylaniana o una
circus song springsteeniana. Il tema è chiaro fin dall’inizio e il tono è ben
presto dettato dall’avvertenza che Jonesy riceve dal suo factotum, Fred Dean:
“Qui improvvisiamo di più. Siamo ancora legati allo spirito delle fiere di un
tempo. Forza, cerca di capire che cosa ne pensi. Anzi, meglio, che cosa provi”. E’ quello che chiede
Stephen King mentre si entra in Joyland: di sentire qualcosa, più che di
leggerlo. Per questo anche se comincia come una rock’n’roll fantasy e poi si
sviluppa con la luce di un b-movie, con un gran finale che è a sua volta un
cliché, va aggiunto che l’intenzione arriva intatta fino in fondo all’epilogo.
A saldo di tutte le ironie possibili, è come bere una birra fresca nel giorno
più caldo dell’estate ed è anche legittimo non chiedere di più. Ciò non toglie
che piccoli valori come amicizia, lealtà, sincerità, generosità che a Joyland hanno un senso e nel
resto del mondo sono stati dimenticati, per far spazio a una non inedita
brutalità, riempiano di nostalgia la storia di Stephen King rendendola una
favola moderna capace persino, en passant, di non dimenticare il sassofono di
Clarence Clemons nelle battute conclusive. Tempo di lettura: una notte con
temporale (obbligatorio), tuoni e fulmini compresi nel prezzo.
domenica 25 agosto 2013
giovedì 22 agosto 2013
Chris Fuhrman
E’ l’estate del 1973 a Savannah, Georgia e Chris
Fuhrman scrive di “un gruppo di adolescenti anarchici che combattevano
l’ipocrisia, l’ingiustizia e le eterne stronzate” con un tatto particolare,
persino una gentilezza, usando tutte le premure possibili per trattare la
materia delicata e friabile di ricordi destinati a dissolversi. E’ il motivo
principale per cui tutta la parte principale, e ben oltre la metà di Vite
pericolose di bravi ragazzi scorre innocua, pratica ed essenziale. Anche un
po’ sciatta, a dire la verità: Chris Fuhrman avvicenda piccoli episodi in
miniature senza scossoni rilevanti, lasciandoli apparire in una modalità
tiepida e lineare. Tra le tante deviazioni dalla rigida istruzione cattolica,
la banda dei bravi ragazzi coltiva con grande passione l’arte dei fumetti e ne
realizza uno colorito e blasfemo che viene intercettato dall’autorità
scolastica, poco incline all’interpretazione creativa dei sacri profili. Il
giudizio e l’eventuale punizione gravano come una spada di Damocle su di loro
e, mentre si dedicano ad altrettanti guai perché “il problema della vita è che
quando non sei nei casini è noiosa”, hanno un’illuminazione eversiva. Durante
una gita scolastica, notano le vistose caratteristiche di un puma in cattività
e progettano un piano per sequestrarlo e liberarlo nella scuola in modo da
creare un caso più grande da far dimenticare quello del fumetto. Il rammendo è
peggio dello strappo sia perché l’impresa è ad alto rischio, sia perché
l’effetto è tutt’altro che prevedibile, eppure nessuno tra Francis, Rusty, Tim,
Joey e Wade se ne cura dato che “le cose che vivono nella mente sono vere come
tutte le altre”. Il principale promotore di questa attitudine è proprio Tim, lo
spirito più fervido e genialoide del gruppo, a sua volta alter ego del
protagonista, Francis, che lo dipinge così: “Ogni giorno Tim Sullivan
incendiava il mondo, e dopo vivevi nei luoghi che avevano resistito
all’incendio, quelli abbastanza forti da costituire dei punti di partenza. Era
bellissimo. Scoprivi che potevi anche pensare”. A maggior ragione visto che le Vite
pericolose di bravi ragazzi sono immerse e circoscritte dagli elementi fantastici della
religione cattolica e dalla concreta realtà delle tensioni razziali che
serpeggiano sullo sfondo. I chierichetti saltano la scuola, provano l’ebbrezza
del primo bacio e bevono ascoltando Elton John oppure spaccano tutto (come
capita a Tim: “Oh. Niente. Mi annoiavo. Ho preso l’ascia e ho abbattuto un palo
della luce. Ci è voluto un attimo”) e si azzuffano e la vita nella scuola così
come in città trascorre in modo più o meno ordinato e il tono di Chris Fuhrman
sembra rispecchiarlo senza troppe ambizioni. Il finale è una frustata che
riporta in modo brusco alla realtà: un risveglio durissimo che proietta alla
velocità della luce le Vite pericolose di bravi ragazzi nell’età adulta, dove
oltre alla noia, dovranno rendere conto al dolore. Lo si legge nella firma di
Chris Fuhrman: è il suo primo e unico romanzo, visto che se ne è andato a poco
più di trent’anni, finendo le ultime, fragilissime pagine.
venerdì 16 agosto 2013
Mark Twain
Il presupposto di questa irriverente
corrispondenza è nel più puro spirito di Mark Twain: provocatorio, ironico e
geniale. Chi scrive e spedisce le Lettere dalla terra è nientepocomenodiche
l’arcangelo Satana in persona, appena cacciato dai lidi divini e non ancora
destinato alla sua principesca posizione negli inferi. Quest’ambiguità, la
terra come una sorta di limbo dove le differenze tra bene e male sono sospese
in attesa di giudizio, dovrebbe già suggerire più di una cautela
nell’accostarsi alle iperboli di Mark Twain, spesso sprezzanti ed eretiche. Non
è un mistero che le Lettere dalla terra abbiano trovato una forma pubblica solo
a mezzo secolo dalla sua scomparsa perché “chi vi dimora, nella tomba, ha un
privilegio che non è esercitato da nessun’altra persona vivente: la libertà di
parola” e se per l’ultimo sberleffo getta nella mischia dèi o demoni, è solo
per sottolineare che “l’uomo è
senza dubbio lo stupido più interessante che ci sia. E anche il più eccentrico”
ed è capace di rovinarsi benissimo da solo. Cercare a tutti i costi nelle Lettere
dalla terra
un appiglio per un confronto teologico o scientifico vuol dire perdere gran
parte della bizzarra spontaneità con cui Mark Twain prova a districarsi tra
“coraggio, viltà, ferocia, gentilezza, onestà, giustizia, astuzia, slealtà,
magnanimità, crudeltà, cattiveria, malignità, lussuria, pietà, misericordia,
purezza, egoismo, dolcezza, onore, amore, odio, meschinità, nobiltà, lealtà,
falsità, sincerità, disonestà”, ovvero vizi e virtù dell’essere umano. Al di là
della mefistofelica natura del suo provvisorio alter ego, la ricognizione
terrestre frutta un epistolario incerto, contraddittorio ed enigmatico sulla
vita di uomini e donne e sul loro rapporto con le religioni e le divinità.
Alcune constatazioni sono lapalissiane, anche se la verve di Mark Twain, le
rende sempre brillanti. Ecco una particolarissima recensione del paradiso,
agognata meta di tutti le fedi da cui l’uomo ha escluso “il più grande di tutti
i suoi piaceri, l’estasi che occupa il primo e più importante posto nel cuore
di ogni individuo della sua, e della nostra razza: il sesso!”, e non si
comprendono fino in fondo le dimensioni di questa lacuna. Salvo ricordare, come
fanno spesso le Lettere dalla terra, che si tratta di piccoli argomenti umani ed “è
raro che da un semplice fatto l’uomo riesca ad arrivare a conclusioni corrette.
Non può farci niente; è così che funziona quel caos che lui chiama mente”. Può
essere anche che le Lettere dalla terra siano solo un divertissment, un’ultima
mina vagante di uno scrittore acuto e caustico, ma quando Mark Twain scrive che
“l’essere umano è una macchina. Una macchina automatica. E’ fatta di migliaia
di meccanismi complessi e delicati, che svolgono le loro funzioni
armoniosamente e secondo le leggi deputate al loro governo e sulle quali l’uomo
non ha autorità, dominio o controllo” spedisce un messaggio semplice, lineare,
preciso. Siamo qualcosa di speciale, e lo dice con un tale leggerezza da
renderlo verosimile.
mercoledì 14 agosto 2013
A. M. Homes
Compare anche Bob Dylan, più scontroso che mai,
in una scena di Questo libro ti salverà la vita. E’ solo l’ombra di un
mattino, davanti all’oceano eppure è una presenza tanto evanescente quanto
regale in una moltitudine di anime e una lunga teoria di eventi picareschi,
surreali e del tutto casuali. Almeno in apparenza perché sono connessi tra loro
da un’invisibile e sotterranea logica di intrecci che ricalcano l’impossibile
architettura di Los Angeles dove “tutto è a breve termine” e il “il punto è
sempre la provvisorietà”. Succedono un sacco di cose in Questo libro ti
salverà la vita. e nonostante tutto è come se non
succedesse nulla perché il palcoscenico è una città multiforme, un’epidemia di
luci che nascondono altrettante solitudini. E’ quella Los Angeles che A. M.
Homes descrive così: “Sopra e sotto, una catena di case si arrampica sulla
parete del canyon: una catena sociale, una catena economica, una catena
alimentare. Lo scopo è stare sulla vetta, essere il re della collina, vincere.
Ognuno guarda chi viene dopo dall’alto in basso, pensando di essere in qualche
modo meglio piazzato, ma c’è sempre qualcun altro che spinge da sotto o che, a
sua volta, guarda dall’alto in basso da sopra. Non c’è modo di vincere”. Il
lavoro che fa Richard Novak, il protagonista di Questo libro ti salverà la
vita,
una specie di uomo senza qualità con una mansion on the hill ricca e vuota, ne
è la migliore espressione: “Cavalca l’onda del mercato, gioca al rialzo,
scommette al ribasso. Pensa alle cose che sa, la fonte delle sue informazioni,
questo mondo di possibilità, futuri, racconti, storie”. Il resto del suo tempo
lo dedica a raccogliere i frammenti di una vita, la sua, che si annoda a quella
di un’accolita disordinata di incontri. Ci vuole un pensiero fuzzy o nella più semplice
delle ipotesi una percezione quasi onirica per addentrarsi nella trama di Questo
libro ti salverà la vita, ed è normale perché i romanzi di A. M. Homes procedono in
modo molto simile, per accumulazione, per stratificazione, un concatenarsi di
storie che si incastrano una nell’altra. Sempre in bilico tra una tensione
sarcastica, se non proprio cinica, e un’apertura di credito che somiglia da
vicino a una visione compassionevole della letteratura. Questo libro ti
salverà la vita in particolare suggella quella che è
diventata la cifra stilistica di A. M. Homes che inseguendo le strambe
evoluzioni di Richard Novak prima afferma lapidaria che “gli americani provano
la vita spirituale di altri come se non ne avessero una loro”, una sentenza che
apre le porte a una serie infinita di riflessioni e poi concede che “anche se
fra loro c’è una distanza enorme e probabilmente incolmabile, c’è anche un
senso di unione, la consapevolezza di essere gli uni per gli altri, per quel
tanto che possono sopportare e, anche se forse non è la pienezza che si
auspicherebbe, anche se forse non è abbastanza, è già qualcosa”, ed è forse per
quello che si finisce per affezionarsi ai suoi stralunati personaggi.
sabato 10 agosto 2013
Dana Spiotta
Le Versioni di me di Dana Spiotta
intrecciano tre onde sinuosidali: una storia famigliare tenuta insieme da
filamenti invisibili che corrono per la maggior parte attraverso legami
digitali; il culto della personalità di Nik Worth; il flusso di coscienza e il
rapporto con le distorsioni (televisive) della realtà di Denise. Una miscela
dal potenziale esplosivo, in gran parte inespresso. Non c’è dubbio che Dana
Spiotta abbia le capacità di inquadrare i personaggi e le loro complesse
psicologie: la scrittura compulsiva di Versioni di me ha un gran ritmo e una
sua intensità ed è un tratto che non si perde nel corso del romanzo. E’ la
storia in sé, la trama, qualche particolare e altrettanti luoghi comuni a
sovrapporsi in modo poco armonico, a volte persino cacofonico. Forse è voluto
nel confronto con gli eventi storici, per redenre quella sensazione di
impotenza e di strazio perché come dice Denise “nessuno ti consola per quel che
hai visto al telegiornale”. Rimane molto vaga nel resto compresa l’alternanza
di voci e di persone, come se le vicende e i legami della famiglia di Nik Worth
siano ancora tutti da scrivere e le convergenze parallele finiscano in un
deserto emotivo ben rappresentato dalla voce di Denise: “Io provo pena per
tutti quegli adulti compromessi, iniettati di sangue e colpevoli e che poi
raccontano la storia ai loro amici, senza esser davvero onesti sul ruolo che ha
avuto ciascuno di loro nello sviluppo della vicenda. Sono solo alla fine del
primo giorno dell’anno e sono già esaurita e sconfitta”. Fin qui può essere,
anche se Versioni di me arranca. La curva più evanescente rimane proprio quella di
Nik Worth. “Il seminario dei luoghi comuni” in versione rock’n’roll parte dal
cliché del musicista ritirato e incompreso (come tutti), ricalcato su Bucky
Wunderlick di Don DeLillo in Great Jones Street a sua volta ricavato
dall’enigma irrisolto della personalità di Bob Dylan (con una punta di Leonard
Coen). Molto pruriginoso e solleticante, ma ha sempre qualcosa che scivola via
in superficie ed è impalpabile come è sfuggente Nik Worth: è tutto fake,
miraggio, abbaglio e se fin qui c’è una concorrenza con la realtà dello stardom
system e dei fallimenti dell’industria discografica, l’insistenza di Dana
Spiotta sulla nota falsa è sospetta e incide in qualche modo sulla natura
stessa di Versioni di me. Nik Worth può anche essere una parodia, e ci sta. Bisogna
però dire che la padronanza di certi linguaggi, la capacità di cogliere
l’atmosfera, l’umore, lo spirito del tempo dipendono anche da piccoli segnali
ineluttabili. Per dire: le rock’n’roll band di Nik Worth, i Fakes
(un’ossessione) e i Demonics arrivano tra il 1979 e il 1980 a Los Angeles ed è
la Los Angeles
degli X, e gli X non ci sono. Sarà un caso, ma se, parafrasando Dana Spiotta,
non vogliamo considerare il rock’n’roll, “una piccola, esile esperienza che ti
costa molto più di quanto non dovrebbe”, non è un dettaglio da poco. E’ come
atterrare a Londra nel 1977 e non trovare i Sex Pistols e/o i Clash e persino
Nik Worth sa benissimo cosa vuol dire.
giovedì 8 agosto 2013
William T. Vollmann
Anche a un passo dall’apocalisse, William T.
Vollmann sa essere pungente, ironico, amaro e nello stesso tempo preciso,
dettagliato, nitido. All’indomani del terremoto e dello tsunami che hanno
sconvolto la costa orientale del Giappone, i reattori danneggiati della
centrale nucleare di Fukushima cominciavano a emettere radiottività in misure
significative. Con l’intenzione di affrontare “una storia di cose che quasi non
riusciamo a credere, tantomento a comprendere”, William T. Vollmann non esita
ad affrontare il viaggio verso la Zona proibita, munito solo di un
minuscolo dosimetro (lo strumento per misurare la radioattività, e come se lo
procura è già una storia a sé a partire dallo scoppietante incipit), di alcune
rudimentali protezioni e di un paio di pesanti handicap. Il primo è la lingua,
a cui supplisce con l’inevitabile interprete e una concreta dose di umiltà. Il
secondo è che, essendo americano, si porta dietro il rimorso storico di aver
inaugurato, proprio in Giappone, l’era (e la paura) atomica. Nel “picaresco
vagabondare di un dosimetro”, come lo chiama William T. Vollmann, si intuisce
subito che la condivisione delle responsabilità è limitata, se non proprio
impossibile perché “la sbalorditiva capacità delle autorità giapponesi di non
dire assolutamente nulla è pari solo all’assurdo grado di fiducia che
l’opinione pubblica ripone in esse; mentre la cinica diffidenza dell’elettorato
americano fa il paio con la compiaciuta e, talvolta, spudorata disonestà delle
corrispettive autorità”. Questa è la prima distinzione, la più urgente, che
delinea la Zona proibita, poi il breve ed essenziale saggio spiega con frasi dai
contorni chirurgici che le certezze atomiche si reggono sulla casualità e
sull’indeterminatezza dei tempi di smaltimento dei residui. Le centrali sono
costruite al massimo grado possibile di sicurezza, ma poi c’è sempre la
possibilità di un evento di “classe nove”, come lo chiamano le autorità
giapponesi, ed è l’imprevedibile che genera mostruosità come Three Mile Island,
Chernobyl e, appunto, Fukushima. D’altra parte, come fa notare William T.
Vollmann, “le scorie nucleari radioattive devono essere immagazzinate e
custodite per periodi che eccedono in maniera esorbitante la cornice di
riferimento di qualunque civiltà”. A quel punto il viaggio verso la Zona
proibita
si ferma: il dosimetro comincia a mandare segnali d’allarme, al silenzio delle
macerie non si può aggiungere altro e la conclusione di William T. Vollmann è
lapidaria: “Se l’interesse presente ci chiede di consumare quantità sempre crescenti
di energia, qualunque modo pericoloso per produrre energia può essere accettato
come necessario. Sul piano pratico, un cittadino giapponese (o americano) non
ha il potere di impedire la costruzione di centrali nucleari. Leggendo questa
storia, però, provate a pensare a quante altre volte vorreste assistere al
disastro del reattore di Fukushima. Se doveste voler venire dalla mia parte,
considerate di collocarvi sopravento”. Molto acuto.
mercoledì 7 agosto 2013
Max Gordon
Lenny Bruce, Woody Guthrie, Charlie Parker,
Miles Davis, Woody Allen, Charlie Mingus e Sonny Rollins: “io conosco tutti, a
cominciare dai poeti” diceva Max Gordon, deus ex machina del Village Vanguard,
meta ambita e temuta della vita notturna di New York, che viene raccontata a
partire dagli inizi pionieristici, senza un dollaro, senza una licenza e con
tanto coraggio da rasentare l’incoscienza. Come quella che Max Gordon usò, una
volta trascinato davanti a un giudice perché qualcuno aveva ritenuto osceni i
versi elevati nei primissimi tempi al Vanguard: “Vostro onore, quello che
abbiamo presentato non era intrattenimento. Era recitazione, declamazione,
salmodia di poesie tra poeti”. E’ vero, non è stato (solo) entertainment: il
Vanguard è stato un luogo fondamentale per la cultura americana nella seconda
metà del ventesimo secolo e poco importa che fosse uno scantinato in fondo a
una ripida rampa di scale e lo dice anche Nat Hentoff: “Il Vanguard di Max
(Gordon) è un locale particolare che ha resistito così a lungo grazie, appunto,
alla passione. Quella del pubblico, quella degli artisti, e quella dell’uomo
sempre attento che guardava verso la scala per dare il benvenuto, nel suo modo
così poco espansivo, a ciascuno dei nuovi viaggiatori della sera accogliendoli
alla luce dell’improvvisazione”. Il memoir di Max Gordon ha lo stesso appeal:
lo stile è generoso, immediato, senza fronzoli e senza velleità, semplice ed
efficace nel ricostruire l’atmosfera irripetibile di una realtà che “a poco a
poco acquista una vita propria. Tu l’hai avviato, ci hai messo le tue idee, le
speranze, i sogni. E’ la tua creatura, ma ora è cresciuta e vive per conto suo,
ed è meglio che tu te ne renda conto”. Dalle figure emblematiche delle strade
del Village, il principe bohémien Joe Gould su tutti, agli anni furiosi e
bollenti dei grandi jazzisti, Max Gordon ha un ritratto singolare per tutti,
dallo sguattero a Dinah Washington, e se i toni sono sbrigativi ed efficaci, in
linea con il personaggio, non mancano mai di ruvide affettuosità. Persino nelle
didascalie del reportage fotografico che fa da spartiacque nella storia del
Vanguard perché così Max Gordon descrive uno scatto di Bill Evans: “La prima
volta che Bill Evans si esibì al Vanguard, venticinque anni fa, suonava il
pianoforte durante gli intervalli fra i set del Modern Jazz Quartet. Mentre
suonavano i quattro gli spettatori, che erano venuti per sentire loro, stavano
zitti e attenti. Quando subentò Bill (Evans), si diffuse per tutta la sala un
chiacchiericcio insistente. Chi diavolo era Bill Evans? Nessuno l’aveva mai
sentito nominare. Era uno che faceva da tappabuchi durante le pause dei grandi
del Quartet. Oggi anche Bill (Evans) è un grande. Suona al Vanguard quattro,
cinque volte l’anno. E quando suona lui, nessuno chiacchiera più; il Vanguard
sembra una chiesa”. Se non vi bastano i ricordi di Max Gordon, provate con The
Complete Village Vanguard Recordings, 1961 straordinaria, unica celebrazione di Bill
Evans (con Scott LaFaro e Paul Motian).
venerdì 2 agosto 2013
Jim Harrison
L’esordio di Jim Harrison è la celebrazione
eccessiva di tutto ciò che sarà poi la sua carriera. Il trionfo di una
scrittura annodata alla vita, generosa ed entusiasta, romantica e passionale.
“Amo la sostanza della storia” dice Swanson, il protagonista di Lupo, e sarà vero da qui
(siamo nel 1971) in poi, perché il romanzo non ha una sua trama vera e propria,
almeno nel senso tradizionale, ed è tutto concentrato sulla figura di Swanson,
alter ego la cui identità collima in gran parte con quella dello stesso Jim
Harrison. E’ volitivo, ingordo, curioso, eccessivo. Basta leggere il suo
complicato rimedio per il raffreddore (che va bene anche senza raffreddore) per
rendersi conto della natura del personaggio e del suo autore che già si segnala
per una presa di posizione decisa e concreta: “Ma al diavolo droghe e alcol. Il
mio cervello si espande da sé e vede già abbastanza fantasmi. Da anni ormai ho
scoperto che la terra ne è infestata. Animali di forme non animalesche
imperversano in grovigli indefinibili. Li chiamano governi. Ferite che non
guariscono mai, inferte ovunque e nascoste dal tessuto cicatriziale della
nostra presenza viva. Questione fondamentale: non voglio vivere sulla terra ma
voglio vivere”. Da Boston a San Francisco il lungo guado americano di Swanson è
un rifiuto monolitico di una provvisorietà e di un’angoscia che sono molto cool
e a cui Jim Harrison risponde in modo viscerale, forse ingenuo, di sicuro
sincero: “Ho perso la fede, pensai, nel cercare di capire le cose, le varie voci che ogni
giorno, nella mia scatola cranica, parlavano di alternative, contromanovre,
divisioni, istruzioni, indicazioni. Tutte le voluttà interiori di linguaggio e
stile. E vivo la vita di un animale e trasfiguro le mie infanzie, al plurale
perché non faccio che ripetere senza mai passare oltre, un circolo vizioso
piuttosto che una spirale”. Tutti temi e argomenti che appariranno con
frequenza regolare in seguito, magari in chiave meno autobiografica, comprese
le tracce che Jim Harrison dissemina rimescolando le sue letture (Steinbeck,
Keats, Rimbaud, Dostoevskij, Thoreau, Miller: roba forte) e le sue influenze
popolari, riconoscendo tra l’altro l’immaginifica forza della Thunder Road di Robert Mitchum,
qualche anno prima di Bruce Springsteen e di Born To Run. La coincidenza non è
casuale perché Swanson alias Jim Harrison scriveva: “Dopo, ma nemmeno tanto dopo, uno avverte orribilmente la
mancanza di questo senso della vita. Del tutto assente quando non siamo che
ghiandole collegate a un piccolo cervello animalesco. Amare come se fossimo
creature immaginarie, pure, geometriche, diamanti da osservare attraverso molte
limpide sfaccettature, ma pur sempre umane; la gola si stringe, le ghiandole
lacrimali hanno il sopravvento, il mondo è di nuovo tangibile e fresco, e noi ci
ricaschiamo ancora e ancora, inseguendo ostinatamente un sogno bello ma
insensato”. Tra le righe (ma nemmeno tanto, nel finale) sembra il prologo di Un
buon giorno per morire. La strada è lì che aspetta.
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