giovedì 27 marzo 2025

Smith Henderson

Pete Snow si occupa di “bambini che avevano patito ogni sorta di inferno”, lottando ogni giorno con “la loro durezza intatta. Il distacco, la saggezza che alcuni avevano acquisito”. Si prodiga tra Tenmile, Missoula e Hamilton, piccoli crocevia geografici in una vasta area del Montana dominata da un’aridità sociale che si riflette nel clima atmosferico (gelido) e nell’uso smodato e costante di additivi chimici, con l’alcol come carburante continuo. Le situazioni che Pete deve affrontare, quelle di Cecil, di Beth o Mary, tendono a ripetersi, come se i minori, non meno dei parenti, fossero esiliati in patria. Siamo tra il 1980 e 1981 e l’elezione di Reagan pone già dei seri dubbi (non meno di oggi) sui servizi sociali e, dal quel punto di vista, Redenzione riesce a mettere in risalto l’incapacità delle istituzioni e i loro fallimenti verso le persone. A farne le spese è l’idea stessa di famiglia che viene disintegrata, compresa quella degli Snow che annovera la scomparsa di Rachel (diventata poi Rose), figlia di Pete, e il disagio del fratello Luke, collezionista di precedenti penali in libertà vigilata. I “diversi tipi di desolazione” comprendono anche i Pearl, disseminati sulle montagne, tra un’idea estrema di apocalisse imminente, paranoie assortite e istinti naturali. Inseguendoli, Pete, che non è esente dall’atmosfera complessiva di fallimento e sconfitta, si immerge in una wilderness feroce e ammaliante, introdotta da Smith Henderson con l’epigrafe di Thoreau. Il contrasto rispetto alle movenze in città apre ampie parentesi narrative, che vanno da Seattle a Austin. Seguendo i viaggi americani di Pete in “luoghi che non erano neanche villaggi, solo piccoli avamposti di accanito individualismo”, ed è ancora un eufemismo, Redenzione procede a balzi come se Smith Henderson, alla pari dei suoi protagonisti, si fosse inoltrato in un sentiero senza aver un senso della direzione, per non dire della meta. Il disorientamento, a tratti straziante, è palese e collima in gran parte con Pete Snow che tra tutti i personaggi è il più combattivo, perché attraversato dai dubbi e dalle tensioni, con “il cuore attorcigliato come un asciugamano bagnato”. Non ci sarà alcun riscatto, piuttosto una lunga teoria di abusi, tradimenti, fughe, abbandoni, risse, malesseri e promesse non mantenute. Smith Henderson scava con convinzione e assiduità e se non altro ha il coraggio di affondare nei resti di una civiltà: bambini scomparsi, prostitute, devianze di ogni genere. Un catalogo aspro e livido che non lascia via di scampo e di cui è necessario tenere conto: “C’erano anche persone con segreti. Un ladro. Un omosessuale. Gente che maltrattava i figli in case che sulla mappa mentale di Pete risaltavano come lampeggiatori, perché lui sapeva. Custodiva i loro segreti”. Ci sono storie che cozzano una contro l’altra, anche se il terreno derelitto su cui avvengono è lo stesso per tutti. A tratti pare di leggere non un romanzo, ma la costruzione di un romanzo, dove Smith Henderson spesso spiega, più che raccontare la dissoluzione nell’alcol di un’America disperata, nel tentativo di rendere plausibile il ritratto di una decadenza continua, senza speranza, a tratti brutale. In alcuni momenti, Redenzione sembra assemblato con parti di sceneggiature (che poi è il lavoro che fa Smith Henderson) e rimane in qualche modo incompiuto, per quanto eccessivo, e anche inconcludente, come gran parte dei suoi personaggi. Nessuno è perfetto, a maggior ragione trattandosi di un esordio, che resta, con tutti i suoi limiti, un romanzo doloroso e tumultuoso, in cui inoltrarsi con le dovute cautele.

mercoledì 26 marzo 2025

Joan Didion

The White Album, e ogni riferimento ai Beatles non è casuale, raccoglie testimonianze di Joan Didion in un arco temporale che va dal 1968 al 1978, ultima tappa di un tour de force senza limiti. Sono anni esotici, erotici e caotici in cui Joan Didion non si identifica finché arriva precisare che “quel che mi sono costruita è privato, ma non è esattamente pace”. La sua individualità, la sua formazione sono troppo definite per apparentarsi con un’ideologia e in quella condizione è come se per tutti quei tempi che stavano cambiando avesse avuto la pelle scoperta. Una straordinaria sensibilità capace di coniugare le esperienze personali (e famigliari) con le cronache inquiete, ancora di più, l’atmosfera di un decennio turbolento e non proprio così sereno e felice. Joan Didion rimane partecipe e lucida, scrive con un’attenzione profonda, che si tratti di un articolo sullo stoccaggio di sarin e gas nervino o del resoconto di una session dei Doors per Waiting for the Sun. È incisiva in ogni frase e nella forma del saggio breve, che è lo standard della collezione di The White Album, trova una particolare ispirazione nel giostrarsi con le contraddizioni e gli exploit dei protagonisti dell’epoca, dagli adepti di Charles Manson a politici, predicatori, ribelli e rock’n’roll star in ordine sparso. Si ritrovano tutti sotto la lente di Joan Didion che ha un modo scrupoloso di osservare ogni singolo dettaglio, pur mantenendo una specifica distanza emotiva dall’euforia e dall’effervescenza dell’epoca, sottolineata con una frase lapidaria: “L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968”. Al giro di boa dei Sixties, dedica gli splendidi ritratti di Doris Lessing e Georgia O’Keeffe, da inserire nel contesto di un’analisi molto acuta sul femminismo che merita di essere letta e riletta spesso. La sfera pubblica e quella più intima e riservata si susseguono e si completano senza sosta: la descrizione dell’emicrania (un fatto molto personale) è un’apoteosi di stile e classe così come uno dei momenti più lirici è il resoconto della trasferta alle Hawaii. Siamo già nel 1970 e gli “arrivi dal Vietnam” (1078 morti nelle prime dodici settimane dell’anno) toccano anche le pendici dei vulcani a cui Joan Didion dedica pagine toccanti. I reportage di viaggio comprendono angoli del mondo remoti, come Bogotà ed El Dorado, un mito fatto di polvere d’oro, e distrazioni casalinghe con le orchidee e i bagnini di Malibu, gli incendi a Los Angeles, le leggende colombiane e le astruse routine di Hollydwood, dalle idiosincrasie della critica cinematografica alle clausole contrattuali che determinano il futuro di un film ancora prima di una singola ripresa. Lei annota e commenta tutto, senza differenze o confini, ma trovando una collocazione per ogni immagine, fino a riconoscere “l’America con tutte le sue intemperie ed eccentricità e specificità tanto variabili da inebriare”. Una riscoperta che trova un supplemento di riflessione nell’ampia digressione sui nuovi quartieri residenziali e sullo  sviluppo dei centri commerciali, primo sviluppo architettonico di tutta un’altra era. Joan Didion, per non smentirsi, la percepisce come un’opportunità esclusiva, con tutta l’ironia compresa nel prezzo: “La mia vita vera consisteva nel starmene seduta in quell’ufficio a descrivere come si viveva a Giacarta, a Caneel Bay e nei grandi châteaux sulla Loira, ma la mia vita immaginaria consisteva nell’allestire un centro commerciale regionale di classe A con tre grandi magazzini generalisti come locatari principali”. L’iperbole ha senso e Joan Didion ammette che è proprio in quel momento che comincia “a vedere tutto il paese come una proiezione in aria, una specie di ologramma, un’astratta griglia di immagine, opinione, impulso elettronico”. Arrivata ormai al 1978, volge lo sguardo a quello che è ormai diventato un passato ancora da decifrare: “Noi altri, per la maggior parte viviamo in modo meno teatrale, ma rimaniamo i superstiti di un’epoca insolita e introversa. Se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto”. Le resta un ultimo brindisi (bourbon, direttamente dal servizio in camera) e poi tanti saluti a Lucy In The Sky With Diamonds, a Mr. Tambourine Man, e addio anche al re lucertola.

lunedì 24 marzo 2025

Tom Wolfe

L’arrivo degli architetti, dei pittori e degli psicologi europei in fuga dal nazismo trova terreno fertile negli Stati Uniti. L’influenza della Bauhaus e in particolare di Walter Gropius, poi di Le Corbusier, dettano un nuovo rapporto tra l’architettura e l’ideologia, un cambio radicale che, giusto per cominciare, Tom Wolfe registra così: “Finora l’architetto americano era uno il cui compito consisteva nel prestar coerenza alle romantiche fantasie dei capitalisti e rifinirle nei dettagli. In Europa, invece, vedevi congreghe di architetti lavorare con la piena autonomia dei sommi artisti”. Una netta differenza di cui Tom Wolfe a modo suo evidenzia le idiosincrasie tra diverse scuole di pensiero e d’arte, visto che si era arrivati alla paradossale situazione per cui “per l’architetto ambizioso, avere una teoria era ormai indispensabile come avere il telefono”. Giusto per rendere l’idea, riportava un commento di Frank Lloyd Wright, l’unico a puntare su un’architettura dichiaratamente americana versus Le Corbusier: “Ora che ha finito un’opera, ci scriverà su quattro libri”. Questo serve a sottolineare anche che ogni “convento” ha la sua scuola e i suoi diktat a partire dall’aperto contrasto tra l’approccio individuale, ovvero “il genio solitario la cui opera può dirsi soltanto sui generis” e il lavoro di squadra. Con la sua attitudine (“Quella parola, pop, era ormai diventata una delle maledizioni della mia vita”) Tom Wolfe scontra con l’urgenza dell’architettura e puntualizza sulle “teorie a livello di quel-che-la-gente-vuole”, il concetto di “borghese” e i risultati, visivi e sociali, di strutture concettuali che, non a caso, nella versione residenziale e abitativi venivano chiamati project, come se non avessero mai superato la dimensione speculativa. Per dire, i tetti spioventi vengono negati, insieme ad altri fronzoli, perché non adeguati alle nuove culture architettoniche, basate sull’essenzialità dei parallelepipedi, ben illustrata da Tom Wolfe: “Nei momenti di massima serietà, nessuno riusciva a disegnare altro che scatoloni. Fatto sta che, ormai, gli studenti di architettura, da ogni parte d’America, si trovavano all’interno di quella scatola, la stessa scatola entro la quale si erano chiusi gli architetti di convento, in Europa, vent’anni addietro”. Costruzioni geometriche, dalle linee rigide, sorgevano dal nulla, con forme destinate a una dimostrazione d’intenti piuttosto che a una sostanziale utilità. Tom Wolfe sfodera il suo tagliente umorismo e non concede l’onore delle armi ai Maledetti architetti: “Dunque, abitavi in un edificio che sembrava una fabbrica, e l’avevi pagato fior di dollari. E con ciò? Ogni edificio moderno di qualità sembrava una fabbrica. Doveva sembrare una fabbrica per essere moderno. Era l’aspetto del giorno”. È ancora più drastico quando racconta una “città modello” sviluppata a New Haven su strutture modulari che “consisteva in grappoli di elementi prefabbricati” e ricorda che “il guaio era che quegli elementi non combaciavano bene. Dalle fessure entrava il vento, entrava la pioggia. Le porte a volte si aprivano, a volte. Quando si aprivano, le persone rispettabili ne approfittavano per andarsene”. C’è del vero in quello che articola Tom Wolfe osservando degenerazioni plastiche senza alcun contatto né con la realtà né con l’immaginazione e contemplando anche i rari outsider che si sono ribellati ai principi dominanti, sempre con un pensiero, e una smorfia, alle deformazioni delle congreghe culturali, e non solo quelle dei Maledetti architetti.

mercoledì 19 marzo 2025

Henry Miller

Con Il tempo degli assassini, Henry Miller  è lucidissimo e incisivo anche nell’inseguimento di una figura sfuggente, selvatica e inafferrabile come Rimbaud. All’inizio, come scriveva Arthur Hoyle, “nell’esistenza e nella missione artistica di Rimbaud Miller vedeva più di un’analogia con se stesso, ed è per questo che il suo studio su Rimbaud è utile, non tanto per quello che ci dice sul poeta, bensì per quello che rivela di Miller, della sua percezione di se stesso nei panni di artista e uomo”. La ricerca di “analogie, affinità, corrispondenze e ripercussioni” nutre il suo confronto diretto con Rimbaud, più per le parti biografiche che per quelle letterarie. Un sovrapporsi costante, continuo, a partire da “una sottesa natura primitiva” si evolve molto rapidamente: Henry Miller è convinto che “era suo destino essere il poeta che elettrizza la nostra età, il simbolo delle forze dirompenti che ora stanno rendendosi manifeste”. Detto questo, Rimbaud rimane comunque un oggetto non bene identificato: “La sua vita, nonostante tutti i fatti a nostra disposizione, rimane un mistero quando e come il suo genio”. Accettati i limiti, Il tempo degli assassini progredisce poi provando ad accostare Rimbaud, “poeta e uomo d’azione”, a D. H. Lawrence, tra vite e tempi diversi che Henry Miller riesce a sottolineare, persino con una certa disinvoltura, ed evidenziando l’aspetto “traditore e sacrilego” ne tracciare un parallelo anche con Van Gogh fino ad arrivare a Dostoevskij. L’apologia di Rimbaud curva quando Henry Miller spiega che “aveva identificato il proprio destino con quello dell’epoca più cruciale che l’uomo abbia mai conosciuto” e comincia a delineare con maggiore chiarezza una figura incredibile. Senza dubbio è “l’incarnazione del ribelle”, e su questo non c’è eccezione che tenga, ma è anche un’identità complessa, perché “è come se congiungesse in un solo personaggio Shakespeare e Bonaparte”. Rimbaud è “sempre troppo”, con lui “la meta è sempre oltre”, ma è soprattutto profetico quando dice che “un mondo completamente nuovo, mondo terribile e ripugnante, ci sta ormai addosso. Un giorno ci sveglieremo per affacciarci su uno spettacolo che supererà ogni potere di comprenderlo”. Con Il tempo degli assassini, Miller riesce a distinguere le peripezie e le avventure di Rimbaud dalla sua essenza poetica, sapendo che “uomini così sono profondamente collegati con lo spirito dei tempi, con quei problemi sottesi che assillano l’epoca e le danno il carattere e il tono”. Su questo non c’è dubbio, anche se Rimbaud dichiarava: “Dobbiamo assolutamente essere moderni”, definendo una cesura netta con il passato. Miller l’aveva capito benissimo e ribadisce, infatti: “Uomini così affondano le radici proprio in quel futuro che ci disturba tanto profondamente. Hanno due ritmi, due facce, due interpretazioni. Sono una cosa sola con la trasformazione, col flusso. Sapiente in un nuovo modo, il loro linguaggio a noi pare arcano, se non pazzo o contraddittorio”. La differenza è tutta nello stile, in Rimbaud una limpida emanazione della personalità, come ha notato Miller: “Ogni scrittore crea qualche passaggio allucinante, qualche frase che non si dimentica, ma in Rimbaud questi tratti sono innumerevoli, gremiscono tutte le pagine, come gemme che si spargono da uno scrigno scassinato”. Rimbaud di sicuro “si sarebbe riservato qualche risorsa per i giorni di pioggia”, ma Miller sostiene, ancora: “Avevo allora, e ho tuttora, il senso che per il nostro tempo egli abbia detto tutto. Era come se avesse piantato una tenda sul vuoto”. Henry Miller prova ad assorbire Rimbaud, e si pensi soltanto a Democrazia, ricollocando il suo pensiero al suo e nostro tempo. Lo si sente quando dice: “Abbiamo riposto la nostra fede nella bomba, sarà la bomba a rispondere alle nostre preghiere”. Quell’incubo permane, ed è sempre peggio, “ma continuiamo a praticare il convenzionale galateo dei vermi” ed è così che “i mentecatti stanno parlando di riparazioni, di inchieste, di paghe, di schieramenti e di coalizioni, di libero scambio, di stabilità e di ricostruzione economica. Nessuno crede in cuor suo che la condizione del mondo possa essere raddrizzata. Tutti si aspettano il grande evento, il solo che ci preoccupi giorno e notte: la prossima guerra”. In quanto a Rimbaud, Henry Miller conclude: “Interpretatene l’opera come vi pare, spiegatene la vita come volete, per ora non c’è niente che lo faccia scomparire. Il futuro è tutto suo, anche se non ci fosse più futuro”. Era il 1955, a Big Sur, davanti all’oceano, in cima al mondo, Il tempo degli assassini vale anche per domani.

martedì 18 marzo 2025

Larry McMurtry

Luna comanche ci riporta all’inizio della saga di Gus e Call, quando i ranger sono l’unica unità a presidiare “la frontiera, dove ordine e legge erano parole sconosciute e regnava il caos”, un confine che viene spostato di volta in volta lungo i territori indiani, verso il Messico, dentro le praterie, creando per ogni passaggio un nemico nuovo e diverso. L’America è nata così, compresa la guerra civile, che si stende come un’ombra cupa su Luna comanche. Larry McMurtry è lirico ed entusiasmante nel descrivere i destini umani e quelli degli stati, che finiscono nel sangue e nella polvere. Per Gus e Call è un momento crepuscolare di sacrifici immani e, più di tutto, distinto da una solitudine stringente. Le missioni sono spesso dei fallimenti, tanto è vero che Gus dice: “Quando mi assegnano un lavoro impossibile, la mia soluzione è trovare un bordello e restarci finché sono senza un soldo”. Non è molto diverso per l’amico di sempre, Call, che delinea il quadro della situazione con poche, essenziali parole: “Non abbiamo un metro di terra. Non sono nostri nemmeno i cavalli. Tutto quello che abbiamo sono le pistole e i vestiti. E le selle. Almeno quelle sono nostre”. Anche dalla parte comanche, l’aria che tira è quella della fine di un’epoca: le ultime, sanguinose scorrerie di Buffalo Hump, i furti di cavalli di Kicking Wolf, la ribellione di Blue Duck conducono sullo stesso territorio, tra il Texas e il Messico. Racconti e leggende si tramandano attraverso un ambiente aspro, durissimo e affascinante (il deserto, le montagne, i canyon, il llano, i fiumi e la prateria) dove il tempo sembra non passare mai. La capacità di intessere i luoghi, gli animali, la vegetazione con gli esseri umani porta Larry McMurtry a dipanare una trama che va ben oltre le bellicose contingenze di tutti: banditi, guerrieri, soldati, ribelli, furfanti, giovani e vecchi che siano. L’avvicendarsi dei personaggi che si muovono in gruppo attorno a Gus e Call, ma che poi emergono in prima fila uno dopo l’altro, rivelandosi protagonisti nello stesso modo, rende Luna comanche una volitiva scorribanda che svela la debolezza intrinseca del potere e delle sue espressioni più violente (la guerra, gli stupri, le torture, i rapimenti) così come le sconfitte dei ranger, sia sul campo, sia una volta tornati a casa, ad Austin. Figure ingombranti, e fuori posto, come il colonnello (poi generale) Inish Scull e la moglie Inez, si scontrano con entità misteriose come Ahumado, un predone messicano che esercita le crudeltà più assurde per regnare incontrastato in un angolo sperduto del border. Con una generosità unica, comprensiva di ogni dettaglio e, tra le righe, persino di un sottile senso dell’umorismo, Larry McMurtry non risparmia nulla e ipnotizza il lettore nel raccontare le gesta di Gus e Call, nell’epicentro di un mondo ormai travolto dagli eventi: la colonizzazione del West, l’estinzione dei bisonti, la guerra in ogni declinazione e in tutte le direzioni, si scontrano con credenze e sogni, menù con “zuppa di gufo” e antilocapra arrosto, storie d’amore e di follia, tracce di fughe e inseguimenti, sullo sfondo di una pianura “così vasta da dare l’impressione di vedere l’orlo dell’infinito, eppure in tutto quello spazio non c’era nulla”. Un posto sperso nel nulla come Lonesome Dove appare come un miraggio e c’è un motivo da ricordare: Luna comanche è l’ultimo episodio dell’epopea di Larry McMurtry, ma è il secondo capitolo nell’ordine della narrazione, giusto tra Il cammino del morto e Lonesome Dove. Sarà il futuro per Gus e Call, ma una reliquia del passato nel corso della conquista e della creazione di una nazione. Una rappresentazione epica di un tempo drammatico, un romanzo grandioso.

giovedì 6 marzo 2025

Greil Marcus

Cercare di mettere ordine nell’empireo di Bob Dylan è un’impresa complessa e ci vuole, come minimo, una parvenza di lucidità. Greil Marcus si è impegnato per qualche decennio e non è stata una lotta semplice perché prima di tutto “Bob Dylan ha costruito una carriera disseminando indizi che nessuno raccoglie” e nel frattempo ha “messo una testa sul corpo della musica pop”, ovvero insieme agli Stones e ai Beatles ha partecipato alla “creazione di un immaginario comune accessibile a tutti noi”. Le iperboli di Greil Marcus arrivano a pioggia, e senza preavviso, e da Dylan partono per considerazioni più complessive: “Mi manca la sensazione che ci sia ben più nella musica, o nell’artista, o in me stesso, di quanto immaginassi, quella che nasce quando una canzone compare alla radio o sul piatto e io non riesco a prevedere quale sarà il suo effetto su di me. Mi manca la sensazione dei musicisti che si tuffano in una performance senza sapere bene che via stanno percorrendo, per non parlare di quando ne usciranno, ma con la convinzione innocente e nervosa che il viaggio si trasformerà in sorpresa, a prescindere dal costo dell’incertezza”. Gli Scritti 1968-2010 raccolti differiscono: l’ascolto di Self Portrait, canzone per canzone, è epico,  il saggio su High Water (For Charley Patton) e l’11 settembre sottolinea una volta di più il carattere profetico della musica di Dylan, la celebrazione di Blind Willie McTell è puntuale e doverosa, così come il capitolo su Promised Land di Chuck Berry e quello dedicato all’Anthology of American Folk Music dove Greil Marcus spiega che “queste canzoni sono ovvie e misteriose come il tempo atmosferico; è impossibile non capirle, ma allo stesso tempo non si riesce a coglierne il nocciolo”. Non c’è soltanto Dylan: come una forza magnetica attira Martin Scorsese, la Band, Ray Charles, Van Morrison, Elvis Costello ed Elvis Presley, Don DeLillo (Great Jones Street è il romanzo più dylaniano di sempre) e Animal House. A volte Dylan è soltanto una scusa per andare in cerca di qualcosa di più vasto che risponde ancora a “un’America più grande e misteriosa” e seguendo “il testo segreto di un paese nascosto” in un arco temporale che comprende parecchie generazioni troviamo Jack Kerouac, le road songs di Bob Seger e Bruce Springsteen, il successo dei Wallflowers e, ancora prima, dei Counting Crows. È una ragnatela che comprende recensioni, note, excursus più dettagliati, promemoria, commenti (la posizione rispetto a We Are The World è lungimirante, alla fine): c’è una certa severità nelle analisi (più che competenti) di Greil Marcus nel tentativo di comprendere “la capacità di turbare, liberarsi delle convenzioni che tutti rispettano nella vita, quel che ci si aspetta di sentire, dire, sentirsi dire, imparare, amare o odiare, a definire la voce di Bob Dylan, in senso stretto e lato”. Qualche limite è da mettere in conto: a volte è eccessivo nelle digressioni, qui e là affiorano un sentore di accademia e qualche rebus (“Una delle funzioni del rock’n’roll è il sovvertimento degli schemi culturali e, per estensione, di quelli del rock’n’roll”), però associare i cameo di Alfred Hitchcock all’armonica di Dylan è un esercizio temerario, e divertente. Scritture e successive riscritture, tendono comunque a ricordare che “nel corso della sua carriera, Dylan ha impiegato le allegorie bibliche come una seconda lingua: i temi dell’esilio spirituale e del ritorno a casa, la salvezza personale e nazionale sono stati al centro del suo lavoro”. La costante che collega tanti frammenti diversi e distanti è “un tentativo di rimanere all’interno del dialogo che l’opera di Dylan ha sempre cercato di creare intorno a sé” e, in un modo o nell’altro, il songwriting torna in continuazione al centro dello scenario, dove è giusto che stia: “Ogni fraseggio era una sorpresa: non si poteva prevedere il suono che avrebbe avuto. La canzone stessa, la sua struttura, era a malapena un indizio. I limiti c’erano per essere aggirati”. La somma finale è “la sensazione che l’artista stia lavorando al massimo, che noi stiamo facendo straordinari, che i limiti siano stati sconfitti”. Ecco, è proprio vero che con Dylan “sentiamo ciò che è andato perduto e sentiamo ciò che pochi altri sono riusciti a toccare”: gli Scritti 1968-2010 (una vita, in effetti) di Greil Marcus suggeriscono che si tratti di “una casa che dobbiamo costruirci da soli”, e ci vuole tutto il tempo necessario.