giovedì 29 novembre 2012
Elizabeth Bishop
martedì 27 novembre 2012
Kent Harrington
Il Guatemala non è soltanto lo sfondo su cui si
proietta l’ombra sfuggente del giaguaro rosso. E’ un paese condannato dalla
storia, attraversato da scosse telluriche così come da ondate di violenza
inaudita, un luogo dove la povertà alimenta un’infinita precarietà e dove la
vita, che ha millenni di tradizioni alle spalle, sembra frutto di un destino
del tutto occasionale. Per descrivere il Guatemala che c’è in Il giaguaro
rosso,
così come quello della realtà valgono le parole, riferite a chissà quale angolo
del mondo, ma adattissime allo scopo, che scriveva Graham Greene: “Qui nessuno
avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva
rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le
ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente
a mascherare”. La citazione non è casuale perché il protagonista, Russell Cruz
Price, sembra Il nostro agente all’Avana trapiantato in Guatemala. Nel suo
passato, dove si scontato i riflessi autobiografici di Kent Harrington, c’è
l’essenza che lo porterà a cercare Il giaguaro rosso. Russell Cruz Price
discende da una stirpe di proprietari delle piantagioni di caffè (la prima
risorsa nazionale), ha studiato nelle accademie militari americane ed è un
giornalista del Financial Times. Crede convinto negli effetti moltiplicatori e
autoindulgenti del capitalismo ed è sicuro che non c’è alternativa al libero
mercato, anche in Guatemala. E’ per questo che accetta di condividere la caccia
al giaguaro rosso che gli propone Gustav Mahler, un archeologo tedesco di
illustre discendenza, convinto di aver trovato la pista giusta per arrivare a
una delle leggende delle leggende precolombiane. Il giaguaro rosso è un feticcio di giada
che pesa svariati quintali, dal valore inestimabile e l’idea di Russell Cruz
Price è venderlo per conquistare la femme fatale di cui si è innamorato,
Beatrice. Lei è sposata con Carlos Selva, generale dell’esercito e sanguinario
responsabile dei servizi d’informazione, ma non è l’unico ostacolo (femminile)
a cui deve far fronte Russell Cruz Price perché “quando tutto sembra
tranquillo, allora è il momento in cui ti può succedere qualcosa”. C’è il
ricordo della madre, Isabella, c’è Olga, che l’ha visto bambino, e c’è
Katherine, la volontaria idealista che si innamora dell’uomo sbagliato (lui).
Kent Harrington con i colpi di scena non ci va leggero, anche a discapito di
qualche elemento di coerenza e di alcuni dettagli (archeologici, strategici,
militari): nella prima parte Il giaguaro rosso è denso e affascinante,
mentre nella seconda, dove gli eventi precipitano uno dopo l’altro, diventa
rutilante e avvincente. Detto questo, Kent Harrington sparge la suspense a
piene mani, dalle improbabili love story alle folli missioni geopolitiche (con
l’onnipresente invadenza degli interessi americani), soltanto per ricostruire
il clima irrespirabile del Guatemala, un posto nel mondo in cui “solo i
bastardi possono resistere, ragazzo, perché a loro non gliene frega niente del
paradiso”.
giovedì 22 novembre 2012
Cormac McCarthy
“Rottami. Qualche osso. Le parole dei morti.
Com’è possibile costruire un mondo da tutto questo?” è la domanda che arriva
quando il viaggio Oltre il confine sta ormai sfumando. Billy e Boyd Parham lo
stanno attraversando per riportare una lupa tra le rocce messicane. Il padre
dei due fratelli la vorrebbe vedere morta, come il bestiame che ha
cacciato: cambiando il destino
dell’animale, Billy e Boyd oltre a sfidare l’aspro paesaggio della frontiera,
s’inerpicano lungo crinali inesplorati della vita cita perché, come scrive
Cormac McCarthy “Le conseguenze di un atto sono spesso molto diverse da quanto
si potrebbe immaginare. Devi essere certo che le intenzioni che hai nel cuore
siano abbastanza ampie da far posto anche agli sviluppi negativi, alle
delusioni. Capisci? Non tutto vale così tanto”. Il centro della Border
Trilogy
è il romanzo più lirico, per non dire poetico, di Cormac McCarthy. La
connessione tra l’elemento naturale, le meravigliose descrizioni delle rocce,
del vento, del deserto e degli animali, e poi la minuziosa attenzione alle
intangibili forme del mondo umano, quel mondo “fatto solo di respiro” rendono
il percorso dei fratelli Parham qualcosa in più di un’iniziazione, di una
scoperta, di un’avventura verso l’incognito. Tra gli aridi sentieri di Oltre
il confine
spunta una rara, intensa sensibilità nel comprendere che “non vi sono viaggi
isolati perché non vi sono viandanti isolati. Tutti gli uomini sono uno e non
vi è un’altra storia da raccontare”. Questa è la vera linea attraversata, la
meta che lo stesso Cormac McCarthy intravede Oltre il confine: “Se la gente
conoscesse la storia della propria vita, quanti sceglierebbero di viverla? La
gente si preoccupa del futuro. Ma non c’è futuro. Ogni giorno è fatto dei
giorni che l’hanno preceduto. Anche il mondo deve essere sorpreso per come ogni
giorno si mettono le cose”. E’ la forza del racconto che definisce il tempo,
l’esistenza stessa che è “tutto è racconto” ed è la risposta con cui Cormac
McCarthy definisce l’esigenza, primaria e irrinunciabile della narrazione:
“Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue
non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso
contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori,
eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto.
Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. E’ questa in fondo la
lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché,
vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto
il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a
meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare
in piedi e che può cadere. E qui fili che ci sono ignoti fanno naturalmente
parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non
nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi possiamo mai aver finito di
raccontare. Non c’è mai fine al raccontare”. Straordinario.
martedì 20 novembre 2012
Tom Franklin
Un colpo di pistola e una ragazza scomparsa
danno il via alle danze degli avvoltoi e spalancano una finestra nella vita di
Chabot, Mississippi. E’ un’area rurale e povera dove la vita a piedi nudi e ai
margini del bosco e delle paludi, ha reso le crepe del razzismo più sfumate, ma
non per questo meno ambigue. Larry Ott, ricoverato per un proiettile passato
vicino al cuore, è stato amico di 32 alias Silas Jones, “l’unico rappresentante
delle forze dell’ordine di Chabot, Mississippi, circa circa cinquecento abitanti”.
Larry Ott, bianco, è stato coinvolto nella scomparsa di un’altra ragazza, Cindy
Walker, avvenuta anni prima e da allora vive circondato dal sospetto ed
emarginato, gestendo l’officina del padre, ormai senza clienti, accudendo la
madre e le sue galline. Dopo che qualcuno gli ha sparato, 32, nero, vaga per la
contea guidato da un rimasuglio di coscienza, da un’intuizione o dalla
concidenza tra il ferimento di Larry Ott e la scomparsa Tina Rutheford, figlia
del padrone dell’unica fabbrica della contea. Non è un detective, la sua
mansione principale dovrebbe essere dirigere il traffico e i luoghi in cui
passa sono sempre gli stessi: una tavola calda, una casa di riposo,
un’officina, le strade consumate dalle abitudini, un pollaio e del resto a
Chabot non sembra esserci molto altro a parte quel passato che non passa mai,
come direbbe William Faulkner. 32 viaggia per triangolazioni da un luogo
all’altro in cerca di risposte, ma il municipio ha un budget ridotto persino
per gli sceriffi, figurarsi se può permettersi di divorare risorse che non ha
per indagare ancora su indizi del passato. Solo che il processo su cui
volteggia L’avvoltoio non concede scampo: “Il tempo ammassa anni nuovi su quelli
vecchi, senza però che quelli vecchi scompaiano, come gli anelli centrali di un
albero, i primi e i più stretti, i più nascosti, racchiusi nell’oscurità e
protetti dalle intemperie. Ma poi giunge l’urlo di una sega e l’albero cade e i
cerchi sono inondati dai raggi del sole e la linfa scintilla e il ceppo viene
esposto al mondo intero”. E’ proprio quello che succede nel corso del romanzo
di Tom Franklin, già notato con le short stories di Alabama Blues: la suspense (bisognerà
scoprire chi ha fatto sparire Cindy Walker e poi Tina Rutheford e perché hanno
sparato a Larry Ott) su cui è imperniato tutto L’avvoltoio è strumentale e
destinata ad accogliere il lettore in un segmento di spazio e di tempo, dove
tutto funziona al rallentatore e si svela passo per passo, pagina dopo pagina.
Sono il contesto, l’insieme e il mood generale che Tom Franklin sa rendere come
un grande narratore: dai menù della tavola calda ai serpenti mocassini, dai
ripetuti omaggi a Stephen King ai film del drive-in, dal kudzu (un rampicante
selvatico si avvolge agli alberi e alle rovine) alle impronte nel fango, ogni
dettaglio concorre a definire l’atmosfera in cui promesse e tradimenti, verità
e pregiudizi definiscono il destino dei protagonisti, neri o bianchi che essi
siano, lasciando al tempo il compito dell’unica giustizia possibile. Molto più
di un semplice thriller.
Mark Bowden
La ricostruzione della cattura di Osama bin
Laden è pratica, funzionale, schematica, come se Mark Bowden stesse facendo
tutto il possibile per spianare le pieghe di un evento storico complesso e
pieno di segreti. Tutte le coordinate vengono rese intellegibili anche a costo
di ripetere e di ripetersi, usufruendo di uno stile a tratti elementare nella
sua schematicità, fatto di frasi brevi, sintetiche, scandite in modo preciso. La
cattura
diventa così un interessante esperimento in cui un evento storico viene
collocato in un contesto non lontano dalla fiction: pur inanellando tutta una
serie di problematiche che vanno dalle personalità di Barack Obama e George
Bush, dalle funzioni dei consiglieri di stato alle catene di comando
dell’esercito degli Stati Uniti, il racconto di Mark Bowden è avvincente e
scorrevole. La cattura comincia, come è inevitabile, nei giorni successivi all’11
settembre 2001 e termina dieci anni dopo quando Osama bin Laden, nome in codice
Geronimo, viene dichiarato “enemy killed in action”, definizione ufficiale con
cui si conclude una lunga caccia all’uomo, vivo o morto (come poi finirà).
Prendendolo per quello che è, la sintesi e la semplificazione di una sequenza
di momenti storici molto complessa, La cattura riesce senza alcun
dubbio a mantenersi in equilibrio sul fragile filo sospeso tra
l’intrattenimento e l’approfondimento, operazione abbastanza consueta ai nostri
giorni. A differenza di tanti mestieranti che finiscono per confondere in modo
irrimediabile i due aspetti, Mark Bowden lo fa con quel tanto di stile e di
accuratezza, almeno per quanto riguarda la scrittura, da risultare adeguato e
convincente. Quello che non convince sono alcuni passaggi fondamentali su cui
si basa La cattura:
Mark Bowden sorvola spesso su molte questioni, lasciandole in sospeso,
irrisolte e nascoste negli angoli bui di misteri e segreti di stato. Sulla
natura stessa di Al Qaeda, rifornita (se non proprio organizzata) dagli aiuti
americani per combattere l’invasione sovietica dell’Afghanistan, spende poche parole.
Sull’operato dell’amministrazione Bush, prima e dopo l’11 settembre 2001
vengono tralasciati molti punti oscuri e d’accordo che “Bush era nato in una
famiglia abituata all’esercizio del potere e, all’epoca degli attentati, era
del tutto pronto a giocare in questo ruolo”, ma a promuoverlo sul piano
dell’intelligenza ormai è rimasto soltanto lui. Ci sono molti aspetti non
chiariti su tutta l’operazione e parecchi punti critici che Mark Bowden appena
sfiora. Quello che non dice sembra bilanciare molte rivelazioni, a partire dal
fatto che la missione era cominciata con un altro incidente ovvero un
elicottero in avaria che è andato a schiantarsi nel compound di Osama bin
Laden. Lo spettro di Black Hawk Down e di altri fallimenti, come l’operazione Desert
One (il tentativo di liberare gli ostaggi trattenuti in Iran di cui ha scritto
in Teheran 1979)
sono ancora vivissimi nell’immaginario americano e ricordarli rendono onesta La
cattura
e, en passant, anche i suoi evidenti limiti.
lunedì 12 novembre 2012
Maya Angelou
L’infanzia vissuta nel cuore
dell’America povera, bianca e nera, osservata da una dimensione particolare:
attraverso gli occhi di Marguerite alias Maya e del fratello Bailey prende
forma tutto un singolare universo che ha il suo centro di gravità nell’emporio
della nonna, chiamata Momma e dello zio Willie. “Se crescere è dolore per una
bambina nera del Sud, rendersi conto di essere fuori posto è la ruggine sul
rasoio puntato alla gola. E’ un insulto superfluo” scrive Maya Angelou e la
metafora rende chiare, senza difetto di sorta, le coordinate in cui si sviluppa
Il canto del silenzio. I riferimenti
geografici, le implicazioni della storia nei risvolti sudisti, l’evocazione di
un blues mai sopito nei secoli sono i sapori amari e pungenti che dissemina
Maya Angelou: Marguerite è costretta a crescere presto in fretta dall’habitat e dagli eventi,
compreso uno strupro a otto anni e una gravidanza a sedici anni, e nonostante
tutto nella sua voce mantiene salde le posizioni della spontaneità e persino di
una palpabile vena ironica. Maya Angelou, con una prosa ricca e invitante,
riesce a mantenere una grande equibrio tra la memoria e la consapevolezza del
presente, tra l’urgenza di sottolineare la forza dei suoi piccoli personaggi e
la necessità di circoscrivere (perché spiegarlo è davvero difficile) le
distanze tra loro e il resto del mondo: “Che cosa distingue un paese del Sud da
un altro, piuttosto che da una cittadina, un villaggio o una metropoli del
Nord? La risposta sta nell’esperienza condivisa dalla maggioranza inconsapevole
(il paese) e la minoranza consapevole (tu)”. L’onda latente e/o manifesta del
razzismo è una costante, spesso sotterranea, subdola e invisibile che Maya
Angelou è straordinaria nel rendere evidente: “Stamps, Arkansas, era
Frustalo-Per-Bene, Georgia; Mettigli-Una-Corda-Al-Collo, Alabama;
Negro-Sparisci-Prima-Del-Tramonto, Mississippi; o qualsiasi altro nome
altrettanto descrittivo. La gente di Stamps diceva che nel nostro paese i
bianchi avevano così tanti pregiudizi che un nero non poteva neanche comperare
un gelato alla crema. Eccetto il quattro di luglio. Gli altri giorni si
dovevano accontentare del cioccolato”. E’ nell’elaborazione del ricordo, nello
sforzo della memoria, nella rigenerazione di un tempo lontano che Il
canto del silenzio trae la sua forza, senza
concedere nulla alla nostalgia o al rimpianto. Ha qualcosa di speciale, e di
indefinibile tanto che persino James Baldwin ha fatto fatica a trovare una
descrizione coerente: “Il canto del silenzio libera il lettore perché Maya Angelou affronta la
sua vita con toccante stupore e luminosa dignità. Non ho parole per
quest’opera, ma una cosa è certa: è dai tempi della mia infanzia, quando la
gente nei libri era più reale delal gente che si vedeva ogni giorno, che non mi
commuovevo tanto”. E Marguerite ci fa partecipe anche di quel “genio” che
sarebbe stato al suo servizio per sempre: “i libri”, quelle piccole pietre con
cui cerchiamo di mettere insieme un guado in mezzo alla vita.
giovedì 8 novembre 2012
John Steinbeck
Capita che un torpedone
scalcinato s’inchiodi nel bel mezzo del paesaggio californiano con a bordo
tutti i suoi passeggeri. La compagnia forma un quadro picaresco e colorito,
molto rappresentativo di un’umanità variegata. C’è di tutto, sulla corriera
stravagante di John Steinbeck e il casuale
incidente, tutto sommato una solida metafora dell’imprevedibilità e della
casualità vita, sembra scardinare le esistenze, le convenienze e le convenzioni
bloccate on the road, con una sorta di sottile euforia generale, che spesso si
traduce in una marcata sensualità. Non c’è dubbio che il John Steinbeck da
riscoprire in La corriera stravagante non è certo quello biblico di Furore o Uomini e topi, il cantore della famiglia di Tom Joad, dei derelitti e dei disperati,
dei perdenti e dei fuggitivi, degli outsider di un’America lontana e polverosa.
Da un certo punto di vista La corriera stravagante è più vicino all’epica di Pian della
Tortilla o, almeno, alle stesse visioni.
Perché, in fondo, l’incidente, in senso lato, che ferma La corriera
stravagante è anche l’occasione perché i
viaggiatori scoprano e diano un nuovo senso alla propria vita, vedendo “davanti
alla corriera, la strada cantava la sua canzone”, un inedito orizzonte di
libertà. A partire dal buon autista, che nelle prime pagine del romanzo si
confessa così: “Certe volte sono proprio stufo di guidare quell’accidente di
corriera avanti e indietro, avanti e indietro. Certe volte mi viene la voglia
di piantare tutto e prendere la strada delle colline. Ho letto di un tale, un
capitano di vaporetto a New York, che un bel giorno, senza tante storie, se ne
andò per mare e nessuno ne ha saputo più nulla. O è affogato, o ha trovato da
sistemarsi in qualche isola. Io lo capisco, un tipo così”. Prendere e partire è
un tema che, come è noto, sarà ripreso in continuazione e all’infinito nella
narrativa e anche nel rock’n’roll, a partire da Chuck Berry fino ad oggi, con o
senza le valenze sociali che John Steinbeck gli ha sempre attribuito. Eppure
c’è qualcosa, nel paesaggio attraversato dalla corriera stravagante, che comincia a sgretolarsi sulla superficie della
strada, e non solo in senso metaforico: “Una scarpata franava, una buca si
apriva, una fessura si formava, che un po’ di ghiaccio nell’inverno allargava:
ed ecco che il cemento, incapace di resistere all’azione delle gome, cedeva”.
Anche La corriera stravagante,
nel suo eccentrico viaggio, non perde di vista la concreta, solida visione di
John Steinbeck: anche nel baillame dell’allegra comitiva persa nel deserto
affiora quella capacità di evidenziare da distanza ravvicinata le piccole e
grandi variazioni cromatiche dell’animo umano. Per questo per La
corriera stravagante con ogni probabilità
valgono ancora le parole con cui nel 1954 John Steinbeck dedicava La
valle dell’Eden ad un amico italiano: “Ci
sono dolore ed eccitazione, sentimenti buoni o cattivi e pensieri cattivi e
pensieri buoni, il piacere di disegnare e un po’ di disperazione e
l’indescrivibile gioia della creazione”.
mercoledì 7 novembre 2012
Ry Cooder
Quella di Ry Cooder è una Los Angeles dove i
musicisti prendono il tram e le femme fatale arrivano in Cadillac ed è
punteggiata da una miriade di piccoli locali dove succede tutto perché sono
proprio i poli magnetici che attirano un’umanità variopinta e disorientata. La
vida es sueño
diceva Pedro Calderón de La Barca, la cui filosofia Ry Cooder nasconde dietro
una canzone tradizionale ed è proprio con il suono, la musica, i silenzi a
raccontare quell’incanto che “è racchiuso nella magia dello straordinario”,
quella specie di sogno a occhi aperti con cui ricostruisce racconto dopo
racconto l’idea di una città popolata da milioni di luci e altrettanti
fantasmi. E’ l’effetto che fanno
le Los Angeles Stories di Ry Cooder: arriva John Lee Hooker, si ascolta Glenn
Miller, si corre su strade incise nel deserto e tutto contribuisce a formare il
mood di una città e della sua ragnatela di vite e di morti. La sfumatura noir
che amalgama le Los Angeles Stories dipende dal fatto che “una pistola cambia le
cose” ed è soltanto uno degli strati che sovrappone con gusto artigianale,
minuzioso e misurato Ry Cooder: nella scrittura ha trasmesso le medesime
modalità della sua musica, puntando sull’atmosfera, sul dettaglio
impressionistico, persino sulla nostalgia dove è il caso. Non è difficile
immaginare che le radici di queste Los Angeles Stories vadano cercata in Chávez
Ravine,
disco particolarissimo e geniale che Ry Cooder ha dedicato a un singolo
quartiere della città, quasi una particolare porzione con cui confrontarsi. Nella
filigrana delle Los Angeles Stories si intravedono, come sottili strati che si sono
sedimentati con il tempo, e che Ry Cooder ha ricomposto sotto una malinconica
luce, i resti di quelle storie e di quelle tradizioni. Una parte della città
che è scomparsa per far posto alle speculazioni del cemento e all’asfalto, come
nel resto del’area di Los Angeles. “Nel mio quartiere, o vai forte o te ne vai
a casa” dice uno dei personaggi delle Los Angeles Stories e Ry Cooder, anche qui
assecondando un gusto minimale e appassionato, sembra temere certe
accellerazioni verso un futuro che è sempre più un’incognita. Non bisogna
essere urbanisti o sociologi per rendersi conto che con le macerie se va tutta
un’identità, viene uccisa tutta una storia, una cultura, una vita. Se serve
l’opinione di un illustre cittadino, quella di Ray Bradbury dovrebbe bastare:
“La verità è che Los Angeles non esiste. Con un po’ di fortuna, non esisterà
mai. Dovremmo pregare che queste ottanta città in cerca di un unico centro non
lo trovino mai. Il tessuto connettivo che un tempo fondeva la composita Los
Angeles, i grandi treni rossi della Pacific Electric, è sprofondato nella
polvere delle autostrade. E le autostrade? Sono affollate di gente che si
avventura nella pericolosa vita metropolitana, sedotta dalle sue lusinghe. Sono
piene di immigranti a bordo di carrette a benzina che ogni giorno devono
trovarsi un qualsiasi posto dove andare, e il più delle volte non vanno da
nessuna parte”.
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