Ieri. Molto tempo fa. E’ il 1984 e nell’incipit
di Vineland
il fatidico anno di George Orwell coincide con lo zenith dell’epopea di Ronald
Reagan. Lungo le frequenze della contea di Thomas Pynchon si sentono ancora i
Doors, Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, piccole distorsioni che screpolano
il grande freddo, ricordando che sono esistite, ed esisteranno, splendide e
caleidoscopiche “forme di dissenso dalla realtà ufficiale”. Le capriole
esistenziali di Zoyd Wheeler e dell’ambigua e voluttuosa Frenesi (nonché della
figlia Prairie), di Brock Vond e di Hector Zuñiga (“il tipo di desperado il cui
assassino ideale è lui stesso: da sé poteva scegliere infatti il metodo, il
tempo e il luogo migliori, e avrebbe sempre avuto motivi migliori di quelli di
chiunque altro”) accendono una galassia scoppiettante di frammenti tenuti
insieme da impercettibili filamenti d’argento. La mappa invisibile che Vineland lascia intravedere
nelle caotiche coordinate di Thomas Pynchon è il ritratto di quell’underground,
quel lavorìo oscuro e sotterraneo che determina molto, se non tutto, della vita
e della storia perché “il personale cambiava, la Repressione andava avanti, si
allargava, si faceva più profonda e meno visibile, quali che fossero i nomi al
potere, le mosse politiche venivano decise altrove e determinavano gli
spostamenti della coppia Flash-Frenesi, cui venivano ora affidate nuove
missioni, di volta in volta sempre meno gratificanti, sempre più lontane dai
luoghi di potere ove ferve la vita costosamente piacevole, incarichi sempre più
meschini, sempre meno arditi, sicché essi venivano utilizzati, adesso, per
trappole, ricatti e montature sempre più squallide, per imbrogli e raggiri e
stangate di sempre minor ampiezza e tornaconto, contro obiettivi meschini,
personaggi estremamente meno potenti di coloro che ordivano le trame, sì da
lasciar supporre che fossero in gioco altri motivi, inconfessabili, assai meno
luminosi di quello del supremo interesse del paese”. Vineland moltiplica e nello
stesso tempo supera il piacere morboso della congiura, la gustosa catena di
montaggio di ogni complotto che si rispetti e svela, in modo apocalittico e
rudimentale nello stesso tempo, la dimensione dell’epoca e delle sue svolte,
perché come dice Hector Zuñiga “non si tratta di un gioco, a Washington,
stavolta, chàle èse, non si tratta di manovre a breve termine, questa è una
vera e propria rivoluzione”. Lo scopo, e la pirotecnica scrittura di Thomas
Pynchon non lascia scampo nell’individuarlo, è mettere tutti davanti a una
cinepresa o a una pistola, se è necessario, tanto “tra non molto, riusciranno
di nuovo a convincerci che tutti dobbiamo morire davvero. E ci inculeranno di
nuovo”. Il caos delle parole che fluttuano irresponsabili tra le pagine fa
parte dell’ossessione di Thomas Pynchon ed è, in fondo, relativo. Vineland si legge come si osserva
un quadro di Jackson Pollock: non è necessario comprenderlo, basta vedere
quello che rappresenta, ovvero “il mondo dissipato, il mondo in frantumi”.
Oggi.
sabato 30 marzo 2013
giovedì 28 marzo 2013
William Langewiesche
La notte del 31 ottobre 1999 il volo EgyptAir
990 da New York per Il Cairo scomparve nei cieli dell’Atlantico. Nessun
allarme, nessun segnale di soccorso, nessun avviso, solo un traccia che nel
giro di pochi minuti sparisce dagli schermi dei radar americani. Le torri di
controllo, civili e militari, non ottengono risposta e così gli altri velivoli
che transitano nell’area e che provano a contattarlo. Almeno fino a quando
l’equipaggio di un rimorchiatore della marina mercantile non nota i primi
rottami affiorare sulla superficie dell’oceano insieme al terrificante puzzo di
cherosene che rende irrespirabile l’aria e conferma che il Boeing 767 con 217
persone a bordo è precipitato. Una prima analisi dei tracciati e delle
comunicazioni non offre alcuna spiegazione logica. Una volta recuperato il
registratore dei dati di volo alias la cosiddetta scatola nera agli
investigatori, americani ed egiziani, si presenta una situazione enigmatica.
Non c’è evidenza di un dirottamento, di un attentato esplosivo o di una collisione.
Le registrazioni dicono che il primo pilota aggiunto (visto la lunghezza del
volo, la EgyptAir imbarca sembre due team) è rimasto solo nella cabina e ha
sviluppato una serie di manovre in antitesi con l’idea stessa del volo e, per
un lasso non irrilevante di tempo, persino con i comandi del comandante
rientrato al suo posto. Non solo, mentre il Boeing 767 precipitava alla
velocità del suono, se ne restava calmo e lucido a mormorare, in arabo, una
frase monca e criptica. Tutta la storia è avvolta in un’aura misteriosa che
ancora oggi offre terreno fertile per dozzine di interpretazioni fantasiose,
che vanno dall’allineamento dei pianeti agli immancabili alieni. William
Langewiesche, che è stato a sua volta pilota, per cercare di comprendere Lo
schianto dell’EgyptAir 990 parte da una constatazione che può sembrare ovvia e banale,
ovvero che “in sostanza gli aeroplani sono apparecchi piuttosto semplici,
nient’altro che oggetti con le ali studiati in modo da reggersi in aria:
progettati per volare, ed è proprio ciò che fanno”. Sono gli esseri umani la
parte più complicata e infatti la sua ricostruzione, fatta con una chiarezza
disarmante anche quando si tratta di spiegare particolari tecnici non proprio
elementari, tocca in modo sensibile l’aspetto dei rapporti tra investigatori
americani ed egiziani e le rispettive autorità nazionali. Un serrato confronto
tra culture, esigenze (politiche ed economiche), procedure molto diverse eppure
condannate a convivere nel nome di una solida e strategica alleanza. Il disastro
aereo diventa per William Langewiesche l’occasione convogliare l’attenzione
“sulle difficoltà che noi, gli Stati Uniti, con la nostra peculiare forma di
governo, incontriamo nel nostro muoverci per il mondo, sul modo con cui
affrontiamo la possibilità che altri paesi abbiano agende politiche del tutto
diverse dalla nostra, o che cerchino di manipolarci”. Notevole anche la verve
per il racconto che va di pari passo con l’accuratezza dell’analisi, molto
razionale, molto precisa.
mercoledì 20 marzo 2013
Tom Waits
Anche con le forme dell’intervista, la voce di Tom Waits
resta unica e impareggiabile. Del resto, dopo un po’ anche i coraggiosi che
incontrano Il fantasma del sabato sera rimangono ipnotizzati dalla sua vena surreale e
istrionica e finiscono per parlare come lui. Quella di Tom Waits è stata “un’avventura
improvvisata” a partire dai romanticissimi esordi californiani, quando si era
presentato come l’ultimo profugo della Beat Generation. Nelle prime interviste
che Il fantasma del sabato sera colleziona spulciando tra fogli e fanzine dell’underground,
la sua dedizione per Jack Kerouac, Alleng Ginsberg, Lenny Bruce e Charles
Bukowski è più esplicita che in altre occasioni. Poi, lasciandosi alle spalle
un’intera, lunghissima stagione vissuta con indomito spirito bohémien Tom Waits
si è avviato a diventare uno dei più importanti artisti americani del ventesimo
secolo, di sicuro il più singolare, coerente e coraggioso: “Me ne accorgo solo
adesso. Mi accorgo che ho uno stile di vita, ma non so se lo si possa collegare
agli stili di vita che c’erano prima di me o vanno di moda adesso o forse
arriveranno domani. Io vivo così e basta”. Le interviste, collocate in ordine
cronologico a ridosso delle uscite discografiche, dicono molto della sua
biografia, anche se, da Swordfishtrombones in poi, è diventato sempre più elusivo ed
enigmatico. “Sono solo una voce che qualcuno ha messo in giro” diventa il
mantra con cui Il fantasma del sabato sera incrocia le gesta di Tom Waits che si rivela, una
volta di più, uno storyteller convinto e reo confesso, visto che, senza
lasciare molti margini all’interpretazione, dice: “Non apprezzo particolarmente
la verità. Preferisco una storia ben inventata alla realtà dei fatti”. Scavando
tra una battuta e l’altra, un aneddoto e un aforisma si scopre che Il
fantasma del sabato
è molto meno evanescente di quanto voglia apparire e che la sua eccentricità
sia funzionale a qualcosa che somiglia a un empirico spirito di sopravvivenza
perché “la verità non esiste. Le persone che sanno veramente come sono andate
le cose non parlano. E le persone che non ne hanno assolutamente idea, invece, è
impossibile farle stare zitte. E’ lo stesso con i pettegolezzi sulla tua vita e
sulla vita della tua famiglia e dei tuoi amici. Siamo immersi nella stessa
ipocrisia”. La constatazione non è fine a se stessa perché sia come songwriter
che come attore Tom Waits ha creato una moltitudine di outsider e ha seguito un’infinità
di tracce di “rain dogs” per non avere un’idea abbastanza precisa della terra
che ha attraversato e del viaggio che ha compiuto: “C’è una solitudine comune
che si estende da costa a costa. E’ come una crisi di identità collettiva che
si allarga a macchia d’olio. E’ la notte americana, calda, scura e narcotica.
Spero solo di riuscire ad afferrare questa sensazione prima di conquistare
definitivamente un posto al sole, uno di questi giorni”. Una storia ben
raccontata, insomma, abbasta sfuggente e volubile, da risultare, trattandosi di
Tom Waits, fedele all’originale.
martedì 19 marzo 2013
William Faulkner
Nelle tre storie raccolte in Una rosa per Emily c’è sempre una finestra socchiusa da cui si intravede la storia, come se William Faulkner volesse farci entrare nei racconti da un passaggio segreto, riservato e particolare. Succede, prima di tutto, proprio in Una rosa per Emily, dove nel profilo di un’ombra si cela una donna che “passò da una generazione all’altra, amabile, ineluttabile, impervia, tranquilla e perversa”. La capacità di concentrare tutta l’evoluzione di un personaggio e della sua esistenza in una dozzina di parole, metà delle quali aggettivi, è eloquente dello stile di William Faulkner che è altrettanto abile nel tenere nascosta e sospesa la trama del racconto fino alle ultime battute. A scoprire cosa si cela nel mistero è il sindaco Sartoris e la sorprendente conclusione di Una rosa per Emily che è a sua volta un nuovo inizio perché la sua apparizione inaugura (il romanzo omonimo uscirà subito dopo) un parte fondamentale dell’universo faulkneriano, quello ambientato nella contea di Yoknapatawpha. Se la presenza di Sartoris suggerisce una connessione, una continuità con i romanzi e la narrativa (in generale) di William Faulkner, anche i racconti di Una rosa per Emily hanno un taglio da classico e sono intrecciati tra loro dal gusto supremo per il dettagli. E’ ancora una finestra a incorniciare la dolorosa vita di Miss Zilphia Gant: una figlia devota alla madre in modo assoluto e insindacabile Anche qui, i personaggi vivono costretti in circostanze claustrofobiche che sono gabbie mentali e linguistiche, prima ancora che ante e porte sbarrate. Sono “le cieche macchinazioni del fato” o “il clamore di una disperazione lontana” a definire quella “specie di felicità negativa”, un ossimoro che appare nell’ultimo racconto, Adolescenza, e che spiega molto della narrativa di Faulkner e che lega una con l’altra le vite e le storie di Una rosa per Emily. La ribelle Juliet, protagonista di Adolescenza, “si sentiva come chi ha appena tirato i dadi e deve aspettare un’eternità prima che si fermino”. Indesiderata e odiata (ricambiata) dalla nuova moglie del padre, Juliet si è rifugiata dalla nonna nel pieno dell’Adolescenza, appunto, un’età di metamorfosi e di mutazioni, “l’età ingrata”, come la definisce William Faulkner. Il paesaggio rurale e selvaggio, l’evolversi delle stagioni che determinano un ritmo, la natura stessa del racconto, le coordinate dei luoghi e delle circostanze, lasciano intuire, in un confronto impari, l’ineluttabile precarietà degli esseri umani: “Ora che il vento era calato, gli alberi erano fermi, incorporei e immobili come riflessi; aspettavano, pagani e indifferenti alle chiacchiere sull’immortalità l’inverno e la morte”. Anche nello spazio aperto “e vuoto e sconfinato” Juliet è circondata e la scoperta di un’amicizia sarà un’effimera e penosa parentesi nella “silenziosa routine delle faccende e nei sogni solitari del crepuscolo”. Sinuosi e snodati come serpenti a sonagli, i tre racconti di Una rosa per Emily mordono sempre nel finale, e lasciano il segno.
giovedì 14 marzo 2013
Richard Ford
Canada significa la frontiera, il confine, una linea che,
una volta superata, non concede un’altra chance. Il varco prevede una sola
direzione perché in Canada “fare
le cose per i giusti motivi” è la legge non scritta che regola il giorno e la
notte. Dell Parsons, quindici anni, una vocazione per la logica e per gli
schemi che si legge nelle sue passioni per gli scacchi e per le api, arriva in Canada dopo aver visto la sua famiglia disgregarsi: Bev,
suo padre e Neeva, la madre sono finiti in carcere per una goffa rapina a mano
armata e la gemella, Berner, è fuggita. “Le cose accadono quando le persone non
stanno al loro posto, e il mondo va avanti e indietro in base a questo
principio” scrive Richard Ford e a Great Falls, Montana, un luogo sperduto il
cui nome permette con una certa facilità di sentirsi “in mezzo” al nulla, Dell
Parsons si ritrova nella parte sbagliata della vita, come in “un miracolo alla
rovescia”. Senza alcun motivo apparente, il suo piccolo e traballante ordine
infantile è scomparso. Si accorge che quello dei genitori, e per estensione
degli adulti, “sembrava lo stesso mondo perché lo condividevano, e perché
c’eravamo anche noi. Ma non era lo stesso” e al momento del brusco risveglio è
già nella prateria del Saskatchewan dove “per
capire dov’eri dovevi guardare il cammino del sole; questo, e ciò che tu
personalmente sapevi del luogo: una strada, una staccionata, la direzione
regolare da cui veniva il vento. Si aveva l’impressione, quando le colline
scomparvero dietro di noi, che non fosse più possibile trovare un punto
centrale rispetto al quale altri punti potessero fare riferimento. Lì una
persona poteva smarrirsi facilmente o anche impazzire, perché era sempre
in mezzo, ovunque si trovasse”. Il
paesaggio, che nei romanzi di Richard Ford è fondamentale, in Canada è quasi una pellicola su cui vengono impresse la
solitudine e la forza di Dell Parsons e i contorni sfocati di persone che
“fuggivano dal passato, che non si voltavano indietro se potevano farne a meno,
e la cui vita era sempre in qualche modo qualcosa di imminente”. Quel senso di
immobilità e quella luce gelida nei quadri di Edward Hopper: più limpido, senza
per questo essere meno appassionato, (sempre) molto dettagliato e preciso, è
come se Richard Ford avesse voluto ripulire una storia che si è sporcata per un
caso fortuito, per un capriccio del destino. Ai personaggi di Canada, a partire proprio da Dell, concede un sacco di
porte aperte (l’epilogo le riassume quasi tutte), preludio a qualcosa che
somiglia alla maturità e alla compassione, ma non per questo la possibilità di
tornare indietro e invertire la direzione perché i fatti “non sono quelli che
inventi”. Dall’angoscia di una visita in carcere al timore in una baracca
maleodorante e piena di spifferi, Canada ha un luogo per ogni stato d’animo e i passaggi, obbligatori e a senso
unico, non sono solo tasselli importanti di un (bellissimo) romanzo, ma anche
“qualcosa, insieme, di astratto e finito”. Qualcosa che somiglia alla vita.
mercoledì 13 marzo 2013
Mark Twain
Quello che bisogna sapere è già nelle prime due
righe dell’incipit: “Non si tratta di un fiume qualunque. Al contrario, tutto
ciò che lo riguarda è straordinario”. Il Mississippi è l’America: è movimento,
unisce e separa, alimenta e distrugge e il suo bacino, insieme a quello del
Missouri, non solo è “la seconda valle del mondo, per grandezza”. Incarna “the
face of the nation”, il volto di una nazione che è sempre indefinibile, a
maggior ragione trattandosi di un’entità volubile come l’America. Mark Twain non
poteva resistere alla tentazione di ricominciare qualcosa rimasto in sospeso,
quando aveva percorso il Mississippi come aiuto pilota e decise di assecondare
“il desiderio di rivedere il fiume, i piroscafi e quanti dei ragazzi fossero
rimasti ancora; pertanto decisi di andarci. Arruolai un poeta che mi facesse
compagnia e uno stenografo perché prendesse delle note e mi misi in viaggio
verso ovest intorno alla metà di aprile”. L’esperienza giovanile e il viaggio
di Vita sul Mississippi sono divise dalla guerra di secessione, tema ricorrente
perché come gli fa notare uno gli interlocutori: “Si sarà ovviamente reso conto
che parliamo quasi sempre della guerra. Non è perché non ci sia nient’altro di
cui parlare ma perché non c’è nient’altro che ci interessi tanto. E c’è
un’altra ragione: durante la guerra, ciascuno di noi pare aver testato
personalmente tutte le diverse varietà dell’esperienza umana; di conseguenza,
non si può menzionare una faccenda pur remota senza rammentare ad un
ascoltatore qualche cosa che sia accaduta nel corso della guerra”. Ricollegarsi
al Mississippi, ai sedimenti naturali, geologici e storici, all’orgoglio di
vivere nel
fiume più che sul
fiume, è in qualche un modo per tornare all’inizio, alle forme primordiali di
un’idea, di uno spirito, persino allo stupore per un territorio e un paesaggio
che “è una meraviglia. Una meraviglia e uno spettacolo delicato e ricco. E
quando il sole è alto in cielo e distribuisce una vampata rosa qui e una
polvere d’oro là e una cortina di foschia color porpora dove ottiene l’effetto
migliore, si può stare certi di aver assistito a qualcosa che resterà nella
memoria”. La Vita sul Mississippi è quasi un’elegia, nella suo armonioso
svolgersi di dettagli quotidiani, a una visione americana, distrutta per sempre
dalla guerra civile, come se il fiume con il suo snodarsi attraverso la nazione
fosse un riparo e insieme un punto fermo insieme alla certezza che il primo
pioniere della civiltà, l’avanguardia della civiltà, non è il piroscafo, non è
la ferrovia, non è il giornale, non è il missionario, bensì il whisky! Proprio
così. Date un’occhiata alla storia e vedrete”. Siamo già nel finale e Mark
Twain non resiste alla sua vena caustica, tanto che diventano chiarissime le
parole con cui lo ritraeva Jorge Luis Borges: “Nel caso particolare di Mark
Twain, un fatto è indiscutibile. Mark Twain è immaginabile soltanto in America.
Non sappiamo, non lo potremo mai sapere, quello che l’America gli ha tolto”.
Quello che gli ha dato, è tutto nella Vita sul Mississippi.
domenica 3 marzo 2013
Charles Bukowski
Quando uscì Factotum uno dei suoi fans più accaniti e convinti, Tom
Waits, colse al volo l’occasione per descrivere Charles Bukowski così:
“E’ probabilmente uno degli scrittori più vivaci e importanti di fiction,
poesia e prosa contemporanea. Per me sta in prima posizione; mi fa sentire a
posto”. Questa complicità diventa una componente naturale, quasi obbligatoria
quando si legge Bukowski alias Chinaski in Factotum perché il suo è un sacrosanto
sberleffo alla cosiddetta civiltà borghese e benpensante: passa da un lavoro
all’altro come un’irriverente falena impazzita che schizza da una luce
all’altra ed è evidente che dei lavori in sé non gliene può importare di meno.
I suoi interessi sono radunati e circoscritti in un trittico inespugnabile:
bere, scopare, scrivere, e non necessariamente in questo ordine. L’identità di
Henry Chinaski è tale che non può essere scalfita nemmeno in modo superficiale
dai disordinati tentativi di trovarsi un lavoro qualsiasi: li prende e li tiene
quanto basta per raccogliere qualche spicciolo e poi dedicarsi agli scopi di
cui sopra. Finito il gruzzolo, si ricomincia daccapo Un metodo piuttosto
primitivo che Chinaski ammette in modo candido: “Mi comportavo così per istinto
più che altro. Cominciavo sempre un lavoro con la sensazione che l’avrei
lasciato presto o sarei stato licenziato, e questo mi conferiva un modo di fare
rilassato che veniva scambiato per intelligenza o consapevolezza di avere
qualche asso nella manica”. Nel suo curriculum (si fa per dire) i lavori
migliori sono quelli “umili”, la normalità è formata da una lunga teoria di
quelli “infimi”, a cui va spesso aggiunta una nota alterata e pittoresca. E’
una costante, in Factotum, che serve a Bukowski per svelare l’anima del suo pensiero. La
vera necessità non è il lavoro e, parole sue, “ecco di cosa aveva bisogno un
uomo: speranza. Era l’assenza di speranza a scoraggiare un uomo. Ricordai i
giorni di New Orleans, quando mangiavo solo due tavolette di cioccolata da
cinque cents al giorno per aver tempo di scrivere. Ma purtroppo morir di fame
non faceva diventare veri artisti. Anzi. L’anima dell’uomo ha radici nello
stomaco. Chiunque scrive molto meglio dopo una bistecca di manzo e una pinta di
whiskey che non dopo una tavoletta di cioccolata da cinque cents”. Nella scrittura,
Chinaski prova a ripristinare il rubinetto rotto del suo destino e cerca di
rileggere la sua disordinata vita non tanto come un’esperienza bohemienne,
piuttosto come l’espressione dell’estrema coerenza di uno stile. Unico
nell’inventarsi anche una vendetta in fondo alla deprimente trafila dei
rifiuti: i racconti che manda alle riviste gli tornano indietro tutti, senza
tanti complimenti, fino a quando non gliene viene accettato uno. Lo scrittore
qualsiasi avrebbe festeggiato brindando. A Chinaski, che vive con il bicchiere
in mano, basta il tripudio del titolo: La mia anima strafogata di birra è
più triste di tutti gli alberi di Natale morti nel mondo. “Spettacolare”, parola di Tom
Waits, uno di cui ci si può fidare.
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