In Barbablù, Kurt Vonnegut tocca un tasto delicato, quello dell’arte moderna, e lo fa con la consueta e sperimentata ironia, ma anche con cognizione di causa nel descrivere le traiettorie dall’ispirazione artistica al mercato, con tutte le deviazioni e le intersezioni possibili e immaginabili in mezzo. Barbablù, metafora ideale per mettere a fuoco le idiosincrasie verso il mondo femminile del bizzarro protagonista, si snoda a modo suo, un po’ attingendo al passato, un po’ volgendosi al presente. Non ha proprio uno schema preciso, se non il libero fluttuare dell’autobiografia di Rabo Karakebian che non perde tempo in convenevoli e si dichiara ben presto così: “Il problema sono io. Io non sono un uomo presentabile”. Esatto, e seguirlo è un po’ una sfida perché si lascia trascinare nelle situazioni più improbabili e curiose e qui entrano in scena le donne: Dorothy, la prima moglie, Edith Taft Fairbanks (dal secondo e più fortunato matrimonio, con cui ha ereditato una fortuna, compresa la magione sull’oceano), Circe Berman alias Polly Madison, scrittrice che arriva senza preavviso e gli stravolge la vita, Allison White, la cuoca (nonché la figlia). Hanno tutte qualcosa da ridire, sul suo conto, forse anche perché il suo cuore è rimasto invischiato nella relazione con Marylee, concubina di Dan Gregory, “il massimo artista vivente”, a sua volta pittore, illustratore e mentore. Con lei, la vicenda impone una serie di balzi nel passato (Dan Gregory e il suo assistente Fred Jones uccisi in Egitto con uniformi italiane, tutta un’altra storia) e rimbalzi in avanti (Marylee eredita un intero palazzo a Firenze), ricordando che “era un’epoca di imperi, quella. E anche questa lo è, neanche tanto ben camuffata”. La trama prende forma con il discorso e i ricordi di Rabo Karakebian la cui origine armena dissemina contatti e riferimenti per tutto il globo. È un bravissimo disegnatore, ma non è un pittore. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato un esperto di mimetismo, una dote che torna utile all’istinto di sopravvivenza. È attorniato da una danza di fantasmi che comprende Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem De Kooning, ma anche mecenati, scrittori, fattorini, critici & mercanti, spie, insegnanti, giardinieri, parenti. Gente che sembra avere una stazione radio in testa e che nelle loro gesta ricordano che “la più diffusa malattia d’America è la solitudine”. Gli uomini sono tutti un po’ fuori strada: Dan Gregory e Fred Jones a parte, bisogna contare almeno Terry Kitchen e Paul Slazinger (amico e scrittore in crisi profonda) che ha la spontaneità di ammettere: “Io ho tentato e ho fallito, quindi ho fatto piazza pulita: adesso tocca a voi”. Sono tutti fotogrammi in movimento perché “era ed è tuttora facile, per buona parte degli americani, recarsi da qualche altra parte e ricominciare daccapo” e Vonnegut scalpitante, amaro e ironico nello stesso tempo, cerca di mettere un po’ di ordine nel caos di Barbablù a modo suo, ovvero rendendolo ancora più eccentrico e interessante. Le iperboli e le digressioni a raffica lo trasformano un rompicapo, una suite jazzistica, un’irriverente cronaca dal mondo dell’arte, dove il sottinteso è che, a confronto di musica e pittura, in particolare nella declinazione astratta ed espressionista, la scrittura, fra tutte le forme d’espressione, è la più faticosa, solitaria e silenziosa, ma è anche l’unica che concede il diritto della parola e del dubbio e permette a Paul Slazinger di dire, che “la condizione umana può riassumersi in un’unica parola. E questa parola è: imbarazzo”. Barbablù è un libro per esperti di Vonnegut, che è sempre lucido, ha un metodo nella sua follia e il più delle volte esibisce il dono della chiarezza senza patemi e con un sorriso contagioso. In Barbablù però è necessario assecondarlo da vicino e non ci sono subordinate: solo il ritmo incessante del geniale e spumeggiante sproloquio di un clamoroso outsider, capace di tenere nascoste le sue opere migliori in un patataio.
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