Il principale protagonista tra Gli emigranti, Dan Lavette, è un esemplare di tutto rispetto del mito del self made man: capace di sfidare eventi di proporzioni catastrofiche (incendi, terremoti, maree, guerre) per affermare l’assioma per cui con il duro lavoro si può ottenere tutto (o quasi), per poi restare incastrato nelle pieghe di un tortuoso matrimonio. La trama è tutta qui, ma la sua arrampicata sociale parte dalla traversata oceanica, passa da un’umile barca e arriva a gestire flotte di aerei e di navi, finché nel 1929 arriva uno di quei diluvi a cui non c’è riparo. Dan nel frattempo deve reggere il connubio con Jean Seldon, unica ereditiera di una ricca famiglia, e la liaison con May Ling, figlia del suo capo contabile e architetto finanziario. Il destino personale e quello aziendale vanno di pari passo nella convinzione di marciare spediti, parole sue, “verso la vetta di questo mucchio dorato di merda che chiamiamo i grandi affari”. Howard Fast riesce a mantenere un certo equilibro tra gli psicodrammi coniugali (con Jean Seldon più volitiva che mai) e le cronache dei tempi moderni con tutte le trasformazioni tecnologiche e i passi storici (la prima guerra mondiale, soprattutto) che hanno distinto gli anni dal 1888 al 1933, l’arco temporale su cui si dispiega Gli emigranti. È una bella panoramica, camuffata dentro le singole esistenze: anche i personaggi secondari che ruotano attorno a Dan Lavette rivestono un’importanza non relativa che gli viene attribuita con cura da Howard Fast e così Gli emigranti, oltre a offrire uno spaccato credibile dell’America (in particolare della California) a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, concede tutto lo spazio necessario alle sfumature emotive dei suoi protagonisti. Gli uomini e il lavoro, le donne e la famiglia: Gli emigranti ha un suo schema preciso che Howard Fast illustra con una scrittura figurativa, modesta nelle intenzioni eppure efficace nel mostrare le contraddizioni della società americana, della costruzione dei capisaldi del mercato e del suo dissolversi, improvviso ma non imprevedibile, che ha travolto ogni cosa, anche “tutti i re senza corona”. La rappresentazione dei conflitti è multiforme, anche se il livello resta appena sopra la linea di navigazione, tra “l’elemento romantico e romanzesco”, come lo definisce lo stesso Howard Fast. Con il progredire della storia, le tensioni personali sostituiscono quelle sociali, anche se tra razzismo, proibizionismo e rivendicazioni sindacali si dipana una sorta di storia parallela dell’America. Gli episodi si sprecano e si inanellano uno all’altro, anche alla fin fine a tenere banco è ancora la differenza di rango tra Dan Lavette e la moglie (e i figli), una condizione critica che non concede una seconda chance. C’è un particolare garbo nel racconto di Howard Fast, uno stile che ha una gentilezza, anche nell’affrontare i momenti più difficili e torbidi e con cui riesce ad appassionare: Gli emigranti è un romanzo che ha una sua logica e una sua bellezza, anche se non riesce a scalfire in profondità i contrasti che racconta ed è così fino al finale che, troncato di netto, lascia molto in sospeso.
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