Una ricerca linguistica approfondita nel gergo e nello slang delle forze armate. Una sorta di lettura analitica di un codice di comunicazione che comprende piccoli e infiniti gesti di superstizione, ordini in termini burocratici incomprensibili, grida di dolore e sagaci battute figlie di un umorismo che sfida le situazioni più macabre. E di molto rock’n’roll: nel Vietnam “ognuno si fa il suo film”, ma il suono, il ritmo, persino l’ortografia sono dettate dalle chitarre e dalle canzoni di Frank Zappa, dei Doors, dei Grateful Dead, di Bob Dylan e soprattutto di Jimi Hendrix. Per Michael Herr il Vietnam e il rock’n’roll vivono un legame simbiotico e il tono autobiografico di chi ha vissuto da vicino “il fascino della guerra” trasforma Dispacci in un romanzo pulsante, denso di intrecci linguistici, storici, che usa la narrativa per creare una realtà altrimenti impossibile da raccontare. In queste condizioni, il reporter deve farsi ben presto da parte, il gioco è pesante e i volti dei vivi e dei fantasmi si sovrappongono: “Si parla di impersonare un’identità, di rinchiudersi in un ruolo, di ironia: andai là per seguire la guerra e fu la guerra a seguire me; una vecchia storia, sempre che, naturalmente, tu non l’abbia mai sentita. Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo nulla, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi proprio come di tutto ciò che facevi. Il problema era che non sapevi sempre cosa vedevi, se non dopo, forse anni dopo, che buona parte di quel che vedevi non arrivare mai alla coscienza, si limitava a restare immagazzinato nei tuoi occhi. Tempo e informazioni, rock’n’roll, la vita stessa, non sono le informazioni a essere bloccate, tu lo sei”. Dispacci non è soltanto “il” romanzo sul Vietnam e sull’America perché, come scrive Michael Herr nelle ultime pagine, “dopotutto le storie di guerra non sono altro che storie di persone”. E’ una visione multiforme (a cui non a caso il cinema attingerà, in modi e in tempi diversi, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket) e un breviario per leggere dentro un’era sanguinante, nelle pieghe di un conflitto tanto feroce quanto surreale. La dimensione allucinatoria, onirica o, in modo più banale, tossica di quella guerra, ancora oggi una faglia vuota nel ventesimo secolo, si attorciglia con naturalezza, e anche con una certa inevitabilità, al rock’n’roll, fino alla fine e persino oltre: “Fuori in strada non riuscivo a distinguere i veterani del Vietnam dai veterani del rock’n’roll. Gli anni sessanta avevano fatto talmente tante vittime, la guerra e la musica di quell’epoca avevano prelevato energia dallo stesso circuito così a lungo da non avere neppure bisogno di fondersi. La guerra ti aveva preparato per anni di sfortuna mentre il rock’n’roll era diventato più terribile e pericoloso della corrida, tanto che le rockstar cominciarono a cadere come i sottotenenti; estasi e morte e (naturalmente e certamente) vita, ma non sembrava così allora”. Un capolavoro, ancora oggi.
domenica 31 ottobre 2010
Michael Herr
Carl Hiaasen
giovedì 28 ottobre 2010
Bob Dylan
Indossando una delle sue infinite maschere, Bob Dylan infine ha deciso di raccontare la sua versione della storia. Con lo stile florido di un narratore con il gusto per le variazioni linguistiche e un debole per l’iperbole, ha calato il suo personaggio in un viaggio nel tempo adatto a ricostruire, con un distacco appropriato, la sua biografia. La prima puntata delle Chronicles (ammesso e non concesso che quel Volume 1 sia in effetti l’inizio di una serie) si svela quindi più vicina alla natura del romanzo, con l’idea di ridisegnare i contorni di ere e mondi che Bob Dylan ha attraversato con una certa disinvoltura ma che, almeno nella limitata versione della realtà, appaiono parecchio distanti e in contrasto tra loro. Tra la New York del 1961 e la New Orleans del 1989, dove è ambientata, un po’ a sorpresa, la parte centrale (dedicata ai retroscena e alle storie legate alla gestazione di Oh Mercy, uno dei suoi dischi più belli nella parte recente della sua carriera) c’è un abisso temporale, politico e umano, persino meteorologico. Il Dylan di allora, risalendo quel “fiume di ghiaccio” che infine chiude ancora il cerchio delle Chronicles è un giovane “poeta musicista” (la definizione è tutta sua) con più di una perplessità sul proprio destino e su quello dell’umanità in generale: “Che cos’era il futuro? Il futuro era un muro solido, senza promesse né minacce, una vuota chiacchiera insensata. Non garantiva nulla, nemmeno che la vita non è una grande burla”. Non bisogna essere degli esegeti per vedere in quel “muro” la cortina che all’epoca divideva in due il mondo, lasciandolo sempre sul filo del rasoio di un’apocalisse nucleare, dove Bob Dylan trovò la sua voce. Nelle Chronicles racconta con dovizia di particolari e nomi e cognomi le fonti d’ispirazione, gli ospiti, i ricordi e le fidanzate, una ricostruzione di un passato teso a guardare verso il futuro e a cercare “la strada più difficile”. Il varco nello spazio e nel tempo che si apre nella New Orleans del 1989, un’era di grandi metamorfosi nel “political world” sembra messo apposta dal Dylan narratore per giocare l’ennesimo bluff, per svelarsi nell’ombra o nascondersi nella luce e infine comprendere che il futuro non è scritto e le trasformazioni partono dall’infinitesimo: “Sono le piccole cose ad adombrare quello che sta per accadere, ma non è detto che uno le riconosca. Poi succede un che di inaspettato ed ecco che ci si ritrova in un altro mondo, si fa un salto nell’ignoto e si ha l’istintiva consapevolezza di essere liberi. Non serve fare domande, si sa già qual è la posta in gioco. Quando succede sembra che succeda in fretta, come una magia, ma la realtà è tutta diversa. Non è che si senta una sorda esplosione e tutto a un tratto ci si ritrova pronti e sicuri. La transizione è più lenta. E’ come aver lavorato sempre alla luce e un giorno scoprire che viene scuro più presto, che non importa dove se e saperlo non servirebbe a niente in ogni caso. E’ una cosa riflessiva. Qualcuno regge uno specchio, toglie il catenaccio alla porta, la spalanca, si viene spinti dentro e la testa deve orientarsi in un posto che è del tutto differente. Qualche volta ci vuole qualcuno di molto speciale per poter capire che le cose stanno così”. Nessuno, meglio di lui.
venerdì 22 ottobre 2010
Bertha Thompson
mercoledì 20 ottobre 2010
Norman Mailer
Nell'ottobre 1967 tutti i fermenti artistici, esistenziali, sessuali ed emotivi di un paio di generazioni e di un'intera nazione chiamata provvisoriamente Stati Uniti trovarono un'inedita unità di vedute e di orizzonti nella più significativa manifestazione del ventesimo secolo. In via del tutto teorica doveva essere essenzialmente una manifestazione pacifista e antimilitarista, un'espressione definitiva contro la guerra del Vietnam, ormai prossima al suo crudele zenith, ma raccontandone gli sviluppi, momento per momento, Norman Mailer “arrivò finalmente alla più triste delle conclusioni, perché andava oltre la guerra del Vietnam. Era arrivato a pensare che forse la pazzia era al centro dell'America. Il paese aveva vissuto in una schizofrenia controllata, anche ferocemente controllata, che era andata aggravandosi col passare degli anni. E forse il punto di rottura era stato superato. Ogni uomo o donna che fosse devotamente cristiano e lavorasse per l'azienda americana, era prigioniero di una morsa invisibile la cui pressione poteva scindere la sua mente dalla sua anima”. Le differenti armate della notte che marciarono, da una parte o dall'altra, su Washington e attorno al Pentagono professavano in modo diverso e stridente lo stesso amore per l'America e Norman Mailer seppe cogliere alla perfezione l’attimo in cui la dicotomia si manifestò, irreversibile e carica dei presagi di tutto ciò che sarebbe successo in seguito: gli scontri di Chicago, le fughe dei renitenti verso il Canada e la Svezia, gli incidenti alla Kent University, Ohio e l'esplosione di un conflitto generalizzato che il Vietnam, attraverso la rapida evoluzione (o, forse, involuzione) dei mass media (televisione in testa), avrebbe propagato come un virus risvegliato dopo anni di letargo. Documento storico ineccepibile, la cronaca della manifestazione che riempie Le armate della notte è anche uno straordinario patchwork narrativo perché, come scrive lo stesso Norman Mailer “il romanziere recalcitra sotto il giogo, mentre lo storico tiene ben strette le redini”: giornalismo (inteso come reportage), fiction, scelte di campo (personale, letteraria e politica), invenzioni linguistiche si intrecciano e si fondono per testimoniare (ecco il verbo che mancava) “il carattere misterioso” di un avvenimento “essenzialmente americano”. Uscito praticamente in tempo reale (“romanzo come storia, storia come romanzo” direbbe Norman Mailer), Le armate della notte è un capitolo fondamentale nella sua bibliografia (e nella prosa americana) ed è anche un modello di confronto sull’utilità e sulla finalità stessa della letteratura: “il romanzo infatti, concediamoci questa parentesi, quando è buono, è la personificazione di una visione che ci permetterà di comprendere meglio altre visioni; un microscopio, se si vuole esplorare lo stagno, un telescopio sul tetto di una torre se si scruta una foresta” scrive Norman Mailer nelle battute finali di Le armate della notte che, oltre ad essere “buono” è, ancora oggi, parecchio scomodo.
martedì 19 ottobre 2010
Kinky Friedman
Il Kinkster questa volta si trova davanti ad un caso da cui non può esimersi: c'è un serial killer che ammazza i cantanti del Lone Star Café. Le uniche tracce che lascia sono frammenti di canzoni di Hank Williams che, come abbiamo letto su qualche giornale, non sono il solito mieloso country & western. Come è noto, Hank Williams è un'icona fondamentale della musica popolare americana nonché il prototipo della rock'n'roll star moderna: vita brevissima e intensa, grande genio, troppa droga e infine un bel cadavere, ancora giovane sul fondo di una “lunga Cadillac bianca”, come avrebbe detto Dave Alvin molti anni dopo. E’ stato anche una grandissima icona della cultura americana prima dell’avvento della televisione (per quella, è bastato Elvis) per cui ancora legato a un passaggio di comunicazioni e informazioni dove il mezzo tecnologico più moderno era la radio. E' ovvio che tra tutti i poliziotti, gli investigatori e i detective di New York sia proprio lui, il Kinkster alias Kinky Friedman, il candidato ideale a risolvere i casi del Lone Star Café: la sua ammirata carriera come songwriter, con una spiccata propensione all'ironia e al country & western, gli offre tutti gli strumenti per svelare l'arcano di questo strambo serial killer perché sarà proprio studiando le canzoni di Hank Williams che il Kinkster e i suoi Irregolari arriveranno alla soluzione del caso. Di più della trama di A New York si muore cantando non si può proprio dire: gli intrecci e le battute portano ad un finale a sorpresa che ogni bravo lettore può (e deve) scoprirsi da solo. Piuttosto è divertente vedere questo impunito cowboy a spasso per New York (“Comprai un paio di nuovi sigari al Village Cigars e attraversai freddamente Sheridan Square senza dare confidenza a nessuno. Con un clima come questo è necessario rimanere freddi e tirare dritti. Se non lo fai, qualche artista avant-garde di Soho potrebbe scambiarti per una scultura di ghiaccio e montarti nella sua galleria. Ma Sheridan Square bisogna stare attenti ad attraversarla con qualsiasi clima. Qualcuno potrebbe semplicemente cercare di montarti”) o nella sua vita quotidiana alle prese con i gatti, le bollette, l'organizzazione dei fine settimana e altre quisquilie che Kinky Friedman racconta sempre con una verve tanto divertente quanto intelligente. Quando cerca di comprendere Hank Williams attraverso le pagine di una biografia (quella di Chet Flippo, per inciso) si ferma all’autografo dell’autore: “Non amavo molto leggere biografie. La vita vera faceva già sufficientemente schifo per conto suo”. Il personaggio è fatto così: chi a suo tempo l'ha scoperto con Elvis, Gesù e Coca-Cola (il Kinkster più in forma che mai) non avrà quindi molte remore a seguirlo in questa avventura; gli altri hanno, con A New York si muore cantando, un'occasione ghiotta (anche per la sua brevità) per introdursi nel mondo di un narratore squisitamente vicino all'immaginario del rock’n’roll e non soltanto per il suo passato di songwriter o per la presenza del fantasma di Hank Williams, ma proprio per il ritmo, le scansioni dei dialoghi, le atmosfere picaresche e il senso generale di leggerezza della sua scrittura.
lunedì 18 ottobre 2010
Richard Ford
Denis Johnson
Jack London
Due racconti ambientati sul quadrato del ring portano nella boxe la tensione umana e sociale di tutta la narrativa di Jack London: nel primo il boxeur combatte per la fame; nel secondo, per la rivoluzione. Uno è un pugile alla fine della carriera, l’altro un giovane pronto a tutto: stessa lotta, due risultati opposti. L’accostamento magari non era previsto da Jack London, visto che i due racconti sono usciti distanziati e differenziati, ma qui combaciano alla perfezione. Sia per Tom King che per Felipe Rivera la boxe è un mezzo: al primo serve per non mandare a letto i figli senza cena; per il secondo è lo strumento per finanziare la rivoluzione (messicana) e non fa nulla per dissimulare il suo odio: “Odiava la boxe. Era lo sport odioso dell’odiato gringo. Se aveva cominciato a incrociare i guantoni, facendo da sacco da allenamento per gli altri pugili, era stato per fame. E il fatto che sembrasse costruito apposta per quello sport non voleva dir nulla. Lo odiava”. Da quel grande narratore che era, uno dei maggiori del ventesimo secolo, Jack London mette in scena un’altra versione della sfida tra preda e predatore in cui le parti spesso s’invertono. In entrambi i combattimenti le figure sono riprese (il termine cinematografico ha qui tutta una sua logica) con inquadrature ravvicinate: i muscoli, le smorfie, lo stesso quadrato del ring occupano il primo sguardo. La rappresentazione plastica della boxe ha una teatralità che lascia intuire infinite metafore, però tutte intrise di sangue, sudore e lacrime a livello del ring e complotti, intrighi, scommesse nella platea ululante. Lo stesso boxeur vive di quelle “visioni infuocate e terribili che coglieva nitidamente, come se le stesse vivendo di nuovo mentre sedeva solitario nel suo angolo, gli occhi spalancati, in attesa del suo consumato e furbo avversario”. La stessa costruzione dei personaggi è florida, volitiva e colorita. Felipe Rivera, il giovane pugile che si batte per finanziare la rivoluzione, “è la personificazione di ciò che è potente”, ed è anche “il primitivo, il lupo selvatico, il serpente pronto a colpire, il centopiedi velenoso”. Altrettanto vale per il calcolo delle probabilità: se l’atmosfera di miseria che avvolge Tom King pare avviarlo verso l’ineluttabilità della sconfitta, pur accompagnato dalla speranza (compresa quella del lettore), per attentare alla fiducia di Felipe Rivera si scomodano immagini ai margini della metafisica perché secondo qualcuno “ha tante probabilità di farcela quanto una goccia di rugiada che cada all’inferno!”. Eppure, nonostante tutto e nemmeno per un istante Jack London perde la visione d’insieme o dimentica i motivi per cui quegli uomini stanno combattendo e incisa con graffi chiarissimi tra le pieghe dei due racconti c’è una sottile eppure precisa dedica in cui si ritrovano i loser, gli outsider, i perdenti, gli emarginati, “in una parola, tutta la schiuma di spiriti ribelli prodotti da quel folle e complicato mondo moderno”. La boxe diventa uno strumento di riscatto e i destini di Tom King e Felipe Rivera prima si sommano e poi si elidono, come due boxeur che nel pieno del combattimento si abbracciano sfiniti, ed è una tattica pure quella.
venerdì 8 ottobre 2010
martedì 5 ottobre 2010
Lisa Crystal Carver
lunedì 4 ottobre 2010
Robert Coover
Richard Price
Aveva perfettamente ragione William S. Burroughs a definire “accurato” e “commovente” questo romanzo. Nessuna concessione allo stile, alle rifiniture, alla poesia: solo una lingua cruda, monca, spietata. Slang di strada, da marciapiede, da vicolo cieco, da campo di football all'imbrunire e da notte sul bancone di un bar. E' il linguaggio della “street life”, della vita di strada. Sono i primi anni Sessanta e ognuno, lungo la mappa del Bronx, tira avanti come può, ma tutti si sentono i più grandi, i migliori, i più importanti. Se stanno in bande dai nomi variopinti (tribù che si fanno chiamare Del-Bombers, Rays, Wongs, Pips e Wanderers), con divise cucite addosso come tatuaggi, sono guerrieri urbani pronti a tutto, ma quando sono soli, uno per uno, davanti agli imprevisti e alle probabilità della vita (un incidente, un matrimonio di riparazione, la chiamata alle armi) scoppiano a piangere. Richard Price è grande nell'evidenziare con il linguaggio, il gergo, le feroci battute questa frattura, questo “crescere in pubblico” repentino e senza rete di salvataggio. Il suo stile è una “street view” molto ravvicinata che si sviluppa attraverso una scrittura quasi livida nel raccontare vita e morte nei giorni e nelle notti del Bronx, ma usufruisce dell'ausilio e della complicità della musica che non è soltanto una colonna sonora per storie, soggetti e situazioni. E' un ordito essenziale nell'atmosfera del Bronx, dove riempie l'aria attraverso la radio (soprattutto) e i jukebox. Non c'è pagina, a partire dalle epigrafi all'epilogo che non contenga una fetta di canzone, un verso, una citazione destinate a sottolineare la vita delle gangs di New York. Tra la ricerca di improbabili alleanze, misere vittorie e impietose sconfitte, qualche dozzina di ragazzi in cerca di un'identità si inventano un mondo fantastico fatto di simboli, lingue intraducibili, prove di coraggio e d'amore fino a quando qualcuno o qualcosa non li fa sbattere contro la vita, quella vera. Arrivati all’inevitabile turning point, che a volte non è altro se non il cul de sac dei loro vicoli “ciascuno diventò un po' filosofo. Alcuni presero a bisbigliare per la prima volta nella loro vita. Fin ad allora, ancora più dello sport, la musica, che filtra da ogni angolo, è il collante indispensabile a rendere palpabile quell’immaginario: “Fabian, Frankie Avalon, Neil Sedaka, Bobby Rydell e Johnny Tillotson” stanno da una parte, “Dion, i Four Seasons, i Dovells e alcune nuove stelle della Motown come Smokey Robinson and the Miracles, Marvin Gaye e Mary Wells” stanno dall’altra, insieme a “quel nuovo ragazzino cieco, Little Stevie Wonder”. L'anfitrione principale (e peraltro anche il responsabile del titolo del libro, ispirato da una delle sue ballate più belle) è proprio Dion DiMucci, cantante italoamericano che è la guida (vocale) del quartiere, o meglio di quel microcosmo urbano che è il Bronx, tanto da meritarsi il ruolo, conclamato, di “king of New York”. Non a caso Richard Price gli dedica la sua storia: splendida musica (e grande libro).