Scritte su incarico di David Lynch, sicuramente uno spunto decisivo per gli aspetti più surreali, e già suo compagno di scorribande in Cuore selvaggio, queste tre brevi pièce sono un bel saggio della versatilità e delle ossessioni di Barry Gifford. Il formato (televisivo) della Camera d’albergo, in apparenza restrittivo e desolante, diventa invece occasione per concentrare gli sforzi nel definire i contorni e le voci dei suoi personaggi. I profili coinvolti sono sempre taglienti a partire da Lou, Boca e Darlene che, in Tricks, si trovano in “una camera d’albergo a New York nel 1969”. Il loro rendez-vous è una linea spezzata che ben presto si trasforma in uno scontro finché non portano in primo piano “cosa una tragedia può fare a una persona”. Secondo Barry Gifford, “il ritmo della scena è lento ma teso, i movimenti degli attori esasperati in modo quasi angoscioso, le parole centellinate con un sorta di falsa profondità. Si dovrebbe dare la sensazione di un lieve scostamento dalla realtà”. Persino nelle indicazioni teatrali, Barry Gifford riesce a inquadrare, con il suo stile, un mondo sfumato, un milieu di personaggi che vagano alla deriva, come la coppia di Blackout. Anche qui l’introduzione di Barry Gifford rimane perentoria: “Tenebre. Non vediamo altro che buio pesto”. D’altra parte la descrizione si fa via via sempre più accurata: “Sentiamo voci, passi sulle scale. All’improvviso, una lama di luce che viene dalla tromba delle scale illumina quello che a malapena riusciamo a distinguere come il corridoio di un albergo”. C’è sempre un’atmosfera spettrale, una luce obliqua, che inonda i volti dei protagonisti e li trova a industriarsi in dialoghi tanto serrati quanto laconici, visto che, come dice Danny in Blackout, “è una cosa maledettamente dura da sopportare, sentirsi inutili”. Il trittico è completato da Mrs Kashfi, dove il signor DeWitt che è “completamente smemorato” e tra gli outsider si presenta un fantasma che arriva accolto in una cornice adeguata: “La moquette dell’albergo è consunta, l’arredamento squallido. Un paio di lampadine nel corridoio sono fulminate. L’albergo ha visto giorni migliori”. Come se fossero un riflesso delle contorte presenze umane gli edifici sono un capolinea, spesso brutali, come incubi. La visione di Barry Gifford è dettagliata, ma obliqua: le triangolazioni dei convenuti, ognuno con la propria solitudine, vengono messe in rilievo nella Camera d’albergo, con tutta la sua transitorietà, con tutti i suoi limiti perché le stanze, anche le più dimesse, sono luoghi che hanno un loro fascino: restano un posto caldo per dormire, un rifugio per la notte, quattro pareti per ripararsi. Assorbono, per quanto vengano più o meno ripulite, gli umori dei passeggeri, magari nelle tracce indelebili nei posaceneri o con minuscoli segnali che si intravedono qui e là. Non c’è riscatto per i personaggi incastrati in una Camera d’albergo. Le loro storie sembrano arenarsi, i limiti delle luci e delle ombre notturne sono invalicabili. Dissoluzioni, incongruenze, fughe. è come se fossero tutti a fine corsa, o avessero raggiunto un punto di non ritorno nelle loro esistenze. La città resta fuori e nella Camera d’albergo risuona una ballata muta e rumorosa, come in una canzone di Tom Waits.
giovedì 31 agosto 2023
lunedì 14 agosto 2023
Ron Rash
La terra è dura, aspra, difficile ed è come se tutti fossero incastrati tra gli alberi e i torrenti, privilegiando la solitudine e il silenzio perché “le parole non restano senza conseguenze”. Nella contea di Oconee, un angolo perduto negli Appalachi, è compresso un paesaggio che ha una forza determinante almeno quanto quella dei personaggi che ci vivono dentro lottando senza particolari speranze, come qualcuno ammette tra le righe: “Per quanto ci spaccassimo la schiena, c’erano cose per cui potevamo fare ben poco, se non tenere corta la briglia e sperare per il meglio”. Non succede mai nulla, se non l’imperversare degli elementi che minacciano i magri raccolti o una guerra dello zio Sam. Holland Winchester è appena tornato dalla Corea, orgoglioso della sua medaglia Gold Star e pronto all’esibizione della forza. Quando scompare, all’improvviso, non ci sono molte ipotesi da inseguire perché “a un contadino vengono i calli sulle mani. A uno sceriffo vengono al cuore”. Anche se non è dichiarato dai protagonisti di Un piede in paradiso, è chiaro dalle circostanze che non c’è alcun dubbio, ma come per ogni omicidio che si rispetti pur essendo evidente il movente passionale, manca la prova più importante, il cadavere. È qui che interviene l’aspetto ambientale, a cui Ron Rash presta molta cura: tutta la valle e la sua comunità sta per essere ricoperta dall’acqua e trasformata in un bacino idroelettrico. La coincidenza (e non è l’unica) spiega perché, più che a Faulkner o Flannery O’Connor, Un piede in paradiso è da accostare a Un tranquillo week-end di paura di James Dickey. Il potere della wilderness è avvolgente dall’inizio alla fine: Ron Rash immerge tutta la storia in un humus, dove la specificità del territorio è strettamente collegata a ogni personaggio, in particolare ai suoi ricordi. Quando lo sceriffo era bambino e venivano lavate le coperte, c’era ancora qualcosa a cui aggrapparsi: “Era una sensazione bella e pura, stare fuori nel fiume in un caldo giorno di primavera, sapevo che all’arrivo del freddo, mesi più tardi, ci saremmo infilati sotto la trapunta tirandola fin sul mento, risentendo il profumo del detersivo e la freschezza del fiume. Ma non era soltanto quello. Era la certezza che una cosa poteva essere pulita, per quanto fosse sporca e imbrattata”. Non a caso, la vedova Glendover è una sorta di capolinea della storia: conosce le erbe, gli intrugli e le cadenze del tempo ed è considerata una strega, capace di interpretare le voci, la natura che incombe, le superstizioni e i segnali. Purtroppo nemmeno lei può nulla contro la speculazione e il suo destino, come tutti nella contea, è segnato. Gli aspetti rurali sono predominanti e Ron Rash ha una grande dimestichezza nel descrivere flora e fauna, che hanno un peso determinante sullo svolgersi della trama: le parole in effetti sono limitate dove contano di più le forme del paesaggio, le voci degli uccelli, gli estremi del clima. Mentre avanza l’allagamento della valle, le posizioni in assenza della prova, ovvero dell’occultamento del cadavere restano immutate, ma gli intrecci procedono sotterranei, come se fossero rimasti immutati. Partito da singole solitudini, il dramma diventa corale tra sguardi e silenzi che Ron Rash orchestra distribuendo il punto di vista e la voce narrante tra i protagonisti che si incrociano senza incontrarsi davvero. Ed è così che “gli occhi possono mentire, ma alla fine dicono la verità” fino a svelare come siano tutti legati dal quel territorio bellissimo e ostico, destinato a scomparire. Con la colonna sonora di Hank Williams all’inizio e di Johnny Cash alla fine, quanto mai appropriati nel delimitare la dissoluzione di un pezzo d’America.
lunedì 7 agosto 2023
Ralph Waldo Emerson
Nell’apologia dell’individuo, che lo distingue dalle mutazioni della società che impone schemi e modelli, ma non comprende la necessità delle contraddizioni (“Essere grandi è essere fraintesi”), secondo Ralph Waldo Emerson la natura è un riferimento e un riflesso spontaneo e contiguo alla personalità. Un pensiero costante alla composizione del singolo (“Noi passiamo per quello che siamo”), dalla formazione del carattere (“Ogni vero uomo è una causa, un paese, un’età”) alla creazione dell’identità come unità di misura nei confronti della vita e del mondo.“Noi dobbiamo muoverci da soli” diceva Emerson ponendo l’anticonformismo come scelta ed esigenza per tutelare l’individuo nella sua essenza perché “la società non progredisce mai”. È un’affermazione da cui discendono poi tutte le necessità da affrontare ogni giorno: le istituzioni, la religione, i governi, le strutture del linguaggio. Emerson ha un ricco eloquio, molto semplice nella forma, che corrisponde alla particolare esigenza del suo ideale di uomo e/o persona. Mette in dubbio anche l’esigenza dei viaggi (pur avendo molto viaggiato), così come i luoghi comuni dell’istruzione o del lavoro. “Non imitare gli altri” è una delle invocazioni più sentite, rivolta in particolare agli americani, allo spirito e all’idea, nel definire e promuovere la “self reliance”, la fiducia in se stessi. L’ostacolo più grande è lì davanti: “Ovunque la società è in perenne conflitto contro la maturità spirituale dei suoi membri. Essa non è altro che una società per azioni, nella quale ciascuno membro acconsente, per meglio assicurare il pane a ogni azionista, a rinunciare alla libertà e alla cultura del singolo consumatore di tale pane. La virtù che più si ricerca è il conformismo, di cui la fiducia in se stessi è l’opposto: esso non ama vere realtà e autentici creatori, ma soltanto nomi e consuetudini”. Emerson insiste su questo punto, dichiarando apertamente: “Le nostre arti, le nostre occupazioni, i nostri matrimoni, la nostra religione, non li abbiamo scelti noi, ma è stata la società a sceglierli per noi. Siamo soldati da salotto, che schivano la dura battaglia del fato, dove nasce la forza”. La collocazione dell’individualità all’interno del sistema delle cose e della natura nel linguaggio poetico prende forma in una visione filosofica, un modello che prevede essenzialmente “credere nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per te nell’intimo del tuo animo è vero per tutti gli uomini: questo è il genio”. Da lì l’assunto, a suo modo conclusivo: “È facile osservare che una maggior fiducia in se stessi opera necessariamente una rivoluzione tra gli uomini e in tutte le loro istituzioni”. La natura, di nuovo, è il termine di paragone, in qualche modo il confine, il metro con cui misurarsi ed estraniarsi ed Emerson lascia emergere i valori essenziali: “L’uomo, invece, non fa che posporre, o ricordare: non vive nel presente, ma con l’occhio rivolto all’indietro rimpiange il passato, oppure, incurante delle ricchezze che lo circondano, si alza in punta dei piedi prevedere il futuro. Non potrà mai essere felice e forte finché non vivrà anche lui nel presente, insieme con la natura, al di sopra del tempo”. Emerson riesce a leggere a fondo queste dinamiche e sa che alla fine, “ogni uomo è felice e sollevato quando ha messo il cuore nel suo lavoro e ha cercato di fare del suo meglio; ma ciò che ha detto o fatto altrimenti non gli darà pace. È una liberazione che non libera affatto. Al momento dell’impresa il suo genio lo abbandona, nessuna musa lo conforta, nessuna invenzione, nessuna speranza”. C’è tutto e c’è anche la garanzia di una validità atemporale quando dice: “Ma ciò che un uomo è, è sempre, di necessità, qualcosa di acquisito; e ciò che l’uomo acquisisce è proprietà viva, che non attende cenni di governanti, folle, rivoluzioni, fuoco, tempesta o bancarotte, ma perpetuamente si rinnova ogni volta che l’uomo respira”. Parafrasando Oliver Wendell Holmes, qui c’è “la nostra dichiarazione di indipendenza intellettuale”. Sottoscriviamo, con convinzione.
giovedì 3 agosto 2023
Judith Belushi Pisano, Tanner Colby
L’avvertenza non potrebbe essere più esplicita: “Questo libro non è obiettivo, e contiene pochi elementi effettivamente verificabili. Piuttosto, contiene un vasto intreccio di narrazioni soggettive e inaffidabili, di pregiudizi, di asserzioni infondate e ricordi vaghi e confusi: una trama che risulta, sorprendentemente, molto vicina alla verità”. In effetti è un racconto orale e corale, che allinea le testimonianze di chi è stato vicino a John Belushi ed è un ritratto giustamente affettuoso, come non poteva essere diversamente, ma la ricchezza e la varietà delle voci lo rendono credibile. Una storia che non può esimersi dall’incontrare l’immagine in sé, le capacità mimetiche di John Belushi e le sue interpretazioni, il suo immedesimarsi nei personaggi, ricalcandone l’identità. Lo diceva John Landis, ai tempi di Animal House: “Il copione non prevedeva che Bluto bucasse lo schermo. Fu John a farlo”. Dall’infanzia alla triste mattina dello Chateau Marmont, la parabola di John Belushi è stata rapida e intensa, proprio come ha vissuto, senza preoccuparsi delle conseguenze. Ogni film è diventato via via una questione di gloria o di morte: successe con 1941-Allarme a Hollywood e poi con I vicini di casa (lui e Dan Aykroyd avevano persino pensato di assoldare un sicario per eliminare il regista) e nemmeno la passione per la musica (compresi i successi con i Blues Brothers), rimasta inalterata, e l’idiosincrasia per il mondo degli affari poterono invertire la rotta. La decadenza, altrettanto rapida, dovuta all’innata voracità e all’adesione a quell’immagine wild & innocent, lo resero un volto nella folla imprigionato nell’obbligo di far ridere, un clown all’ultima piroetta, un acrobata delle emozioni in un numero senza rete. L’energia non era del tutto naturale e non viene nascosto nulla: il declino, dovuto all’abuso di cocaina, è descritto con la stessa, puntuale attenzione dedicata ai trionfi e alla generosità di John Belushi e il finale è straziante, doloroso e commovente. Diviso tra uno script improbabile già dal titolo (Muffa nobile) e uno indecente proposto con insistenza dagli studios (Joy For Sex) e il buco nero della dipendenza, John Belushi vagherà nella notte di Los Angeles prima di essere trovato senza vita una mattina di marzo del 1982. Restano, indelebili, i volti e le battute, il genio e le burla, “quattro polli fritti e una coca”, le risate e gli eccessi. Non era l’unico che si era spinto un po’ troppo oltre e infatti Carrie Fisher disse, non senza una certa sincerità: “Tutti aspettavamo di sapere cosa l’avesse ucciso, sperando non fosse la nostra droga preferita”. Rimangono, a parte, un paio di ricordi tratte da Saturday Night Live. Uno è l’identikit di Robin Williams: “La cosa triste è che John avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Adorava la musica, ma soprattutto sapeva recitare e avrebbe potuto essere un grande nelle parti drammatiche. Era un po’ come Elvis in quel senso. Era un Brando in versione comica. Aveva quel quid. Aveva appena cominciato con quelle magnifiche commedie. Era stato impareggiabile in Animal House. Senza parlare di 1941. Rimaneva impresso a tutti per la sua energia”. Il commiato migliore è poi quello di un altro grande commediante, Bill Murray che ha detto: “Ha finito la sua vita da rock’n’roll star di prima grandezza, ma era nelle situazioni più semplici che brillava davvero. Sapeva trovare l’essenziale in ogni momento e in ogni esperienza. Era davvero qualcosa”. Eh, sì.
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