Un libro di
domande. Solo un narratore moderno nel suo più ampio della
definizione, come è Don DeLillo poteva costruire attorno all’anno
vissuto pericolosamente da Jack
Gladney, un’architettura narrativa fatta
di punti interrogativi. La letteratura, o forse, in modo più
esplicito, la fiction di Rumore bianco
serve a spiegare che “Cominciamo la vita nel caos, nel balbettio.
Poi, a mano a mano che ci eleviamo nel mondo, cerchiamo di elaborare
una forma, un progetto. Tutto ciò ha una sua dignità. Tutta la vita
è una finzione, uno schema, un diagramma. Uno schema mancato, ma non
c’entra. Fingere significa affermare la vita, cercarne una forma e
il controllo”. E’ tutto lì, dall’inizio delle lezioni di Jack
Gladney che, in un ipotetico campus “in the middle of nowhere”,
tiene corsi di nazismo avanzato. La materia è ambigua (mettiamola
così) e la provocazione di Don DeLillo ci colpisce e ci impegna a
riflettere quando aggiunge che “ciò che riluttiamo a toccare,
sembra spesso l’essenza stessa di cui è intessuta la nostra
salvezza”. D’altra parte il collega Murray Jay Siskind vorrebbe
fondare “un centro di potere fondato su Elvis”, e se qui potremmo
essere d’accordo, diventa palese l’idea portante del culto della
personalità come tratto distintivo del ventesimo secolo. Con tutti i
fronti tecnologici (e invasivi) della modernità, sconvolti dalle
progressioni dello stile matematico di Don DeLillo. La presenza della
televisione, ovvero della pubblicità, assillante, prepotente,
assurda, riassunta così: “Sono giunto a capire che il mezzo
televisivo è una forza di fondamentale importanza nella casa tipica
americana. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata,
autoreferente. E’ come un mito nato qui nel nostro soggiorno, come
una cosa che conosciamo in modo preconscio, quasi in sogno”.
L’interpretazione delle reti digitali, persino profetica, perché
siamo nel 1984 (che coincidenza, l’anno di Orwell) e Don DeLillo le
descrive con un intuito sorprendente: “Il sistema elettronico era
invisibile, cosa che lo rendeva ancora più impressionante,
assolutamente più inquietante da averci a che fare. Ma eravamo in
consonanza, almeno per ora. Le reti, i circuiti, i flussi, le
armonie”. Inarrivabile. Quando, a metà romanzo, irrompe “l’evento
tossico aereo”, una delle incomprensibili catastrofi della vita
moderna, Rumore bianco
esplode con un florilegio di immagini, definizioni, raffiche di
dubbi, e se non sono domande, sono enigmi impliciti nelle frasi
apodittiche di Don DeLillo: “Quando i tempi sono incerti, la gente
si sente costretta a mangiare in eccesso”. Nello specifico, il
disastro chimico pare piuttosto un riflesso dell’incidente nucleare
di Three Mile Island, e cercando di evidenziarlo e delinearlo in
tutta la sua complessità, Don DeLillo ricorre anche a un’amara
ironia: “Parole, immagini, numeri, fatti, grafici, statistiche,
macchioline, onde, particelle, fuscelli. Soltanto le catastrofi
attirano la nostra attenzione. Le vogliamo, ne abbiamo bisogno, ne
siamo dipendenti. Purché capitino da un’altra parte”. L’effetto
principale, comunque, è quello di rivelare che la famiglia di Jack
Gladney, di Babette (l’ultima di una serie di mogli) e dei figli è
“una fragile unità circondata da fatti ostili”. La paura e la
morte, che da quel momento permeano l’atmosfera, spingono Jack
Gladney a cercare un rimedio nella forma di un farmaco (e anche qui
Rumore bianco apriva
una porta sul futuro) che possa limitare l’ansia del salto nel
buio. E’ la successiva progressione di Don DeLillo a stupire
quando, operando una specie di estrazione della radice quadrata della
realtà, scrive che “tutti gli intrighi tendono alla morte. E’ la
loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi,
intrighi nei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci
accostiamo alla morte. E’ come un contratto che devono firmare
tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell’intrigo”.
Il Rumore bianco non
lascia via di scampo, pare di capire, ma dovesse esserci, la
possibilità è soltanto una, “fingere, mirare qualcosa, dare forma
a tempo e spazio. E’ così che facciamo progredire l’arte della
coscienza umana”, perché “fingere significa vivere”. E questa
è letteratura.
sabato 27 febbraio 2016
martedì 23 febbraio 2016
Rita Indiana
L’apologia
dell’adolescenza secondo Rita Indiana hai i contorni di una
commedia agrodolce che nel suo perimetro contiene una voce brillante,
insolita, frizzante e speziata ma fedele alla dimensione di quel
piccolo mondo, che si svolge secondo il principio per cui “la
follia è che a te tutto questo sembri normale”. I
gatti non hanno nome è rocambolesco, con
immagini che rimbalzano già come un film nel raccontare la vita
quotidiana della protagonista, che è senza nome come i suoi gatti, è
raminga e collima con la scrittura di Rita Indiana perché anche lei
cerca le parole giuste, almeno quanto il suo alter ego elenca i nomi
per gli animali. Deve crescere, e in fretta, durante l’apprendistato
nell’ambulatorio veterinario dello zio, mentre la famiglia combatte
una bizzarra battaglia per l’evoluzione della specie. Per Zia Celia,
“il mondo è un grande cesso sporco e lei è l’unico straccio con
la fibra adatta a pulirlo”. Lo Zio Fin sembra uscire da un racconto
García Márquez, visto il
ritmo blando delle sue giornate e i misteri che nasconde.
Due splendidi esemplari di quelle che Rita Indiana chiama “nevrosi
di classe”, con gli animali che sono il riflesso deformato delle
disavventure degli esseri umani: abbandono, incuria, disastri, ogni
tanto un po’ di quella piccola cosa che è l’amore e poi, come
direbbe Derek Walcott, il vero anfitrione dei Caraibi, “il nulla,
che sarebbe il mondo rumoroso nella sua mente”. La definizione
lirica aiuta a comprendere l’essenzialità dello stile di Rita
Indiana che è inafferrabile, sfuggente, con un sacco di spigoli e di
curve, a cui manca sempre qualcosa, come succede in tutta la musica
caraibica. Una battuta resta in sospeso e se il ritmo ondeggiante di
I gatti non hanno nome
si allinea alla precedente generazione delle isole, quella di Jamaica
Kincaid, Edwige Danticat, Zoé Valdés, nella deriva dei continente
americani Rita Indiana si è lasciata convincere da H. G. Wells ad
andare oltre: “Immaginate un linguaggio che avete conosciuto
preciso e definito, afflosciarsi, farsi gutturale, perdere sostanza e
forma, trasformarsi in una semplice sequela di suoni frammentari”.
Il suo lessico famigliare diventa così cosmopolita, arguto, tenace,
divertente, drammatico e romantico. Impara (un po’) l’italiano
leggendo una biografia di Jim Morrison, tiene un diario per conto
terzi, tocca e graffia la pervasiva cultura pop, anche soltanto
ricordando che “lo speciale dedicato ai Fleetwood Mac che danno
alla radio ha già rotto le scatole a tutti”. E’ abbastanza per
rappresentare le dimensioni d’interni che racchiudono gli incontri,
che hanno sempre la caratteristica principale della casualità, anche
se poi si ritrovano annodati in sequenze invisibili o impalpabili,
non di meno determinanti. In queste cornici, una volta la sala
d’aspetto dell’ambulatorio, una volta la sua stanza, una volta un
angolo in giardino, Rita Indiana erutta una metafora dopo l’altra,
con una certa allegria, con gli occhi pieni di spontaneo stupore,
anche quando si trova “a parlare di politica e di malattie
dell’apparato digestivo”. La nota più fresca è proprio quella e
Rita Indiana la applica anche nel raccontare la condizione estrema e
provvisoria di Radamés, un migrante haitiano, la triste storia di
Mauricio, un cane con un occhio solo, o la scoperta di una prima,
vera scheggia d’amore. Gli animali e le persone alla fine ci
lasciano, come direbbe ancora Derek Walcott, “increduli nell’attesa
di essere occupati”, così come I gatti non
hanno nome invita a sbarcare in un arcipelago
di suggestioni ed effervescente. Non edulcorate, non perfezionate,
grezze, genuine, ed è meglio così.
martedì 9 febbraio 2016
William Faulkner
Anche nella
versione storyteller, William Faulkner rimane unico nel manipolare
gli elementi narrativi per adeguarli alle fiabe e ai misteri da
raccontare ai bambini. La praticità con cui allinea e incastra le
azioni, gli ambienti, le circostanze, i personaggi rimane inalterata
nonostante la specificità del pubblico, dei temi e del loro
svolgimento. I fantasmi di Rowan Oak
raccoglie alcuni racconti che William Faulkner alias Pappy era solito
declamare ai nipoti e anche nell’assemblare i piccoli dettagli che
costituiscono la forma classica di tutte le leggende asseconda uno
stile prezioso e limpido. Naturale, poi, che ci sia una netta
distinzione e le due diverse identità in cui viene declinato Il
segugio portano in profondità alla
differenza tra scrivere e raccontare una storia. L’elemento
fantastico è minimo, legato alla sensibilità animale che Il
segugio mostra davanti alla perdita del suo
padrone, assassinato per un odio atavico alimentato dalla povertà,
dalla miseria e dalla fatica. Lui, come il suo carnefice, sapeva “che
il raccolto non sarebbe stato migliore dell’anno prima, ma era
tutto ciò che aveva”. Le parole sono misuratissime, intagliate una
scheggia alla volta, soltanto che in una versione i due protagonisti
non hanno nome e nell’altra si chiamano Houston e Cotton, in una lo
sceriffo arriva alla fine e nell’altra è coinvolto fin
dall’inizio, anche se in entrambe assume il ruolo di deus ex
machina che risolve e conclude la triste vicenda dei due contadini.
Da studiare, perché Il segugio
è esemplare nel rivelare le semplificazioni della forma orale
rispetto alle possibilità della scrittura. L’elemento fantastico è
invece determinante con Il lupo mannaro,
una breve storia che rispecchia le regole, i dettami e le atmosfere
che il titolo lascia intuire. L’elenco comprende la luna piena, le
nuvole nel vento della notte, gli animali e gli esseri umani con la
gola squarciata, il buio all’improvviso, ma poi William Faulkner ci
mette sempre un elemento in più, un particolare minuscolo, eppure
distintivo. Basta cercarlo. Tra I fantasmi di
Rowan Oak spicca quello di Judith Sheegog,
che vive un momento d’incanto, in una sera di stelle, accanto a un
soldato nordista, prigioniero nella sua casa, lì a Rowan Oak. Quando
lui fugge, per non tornare più, lei disperata cerca “il benedetto
sollievo della morte” ed è destinata a diventare il fantasma
(bianco) che appare nelle tenebre di Halloween illuminate dalle luci
dentro le zucche intagliate, quelle notti in cui gli adulti non sono
più affidabili dei bambini. L’utilizzo dei luoghi comuni è
funzionale alla destinazione dei racconti e del resto William
Faulkner li sottolinea con una certa disinvoltura, così come la
dimensione onirica in L’albero dei desideri.
Un racconto più fiabesco e fantastico, con
tutta la leggerezza propria di Pappy, ma che poi si riallaccia ai
ricorsi storici di Judith
con un punta di inevitabile fatalismo quando dice “tanto le guerre
non cambiano mai” oppure, e ancora, con la voce di uno dei
protagonisti, che “la prossima volta che quelli ne fanno una mi sa
proprio che non ci vado”.
Invece Rowan Oak è là, è facile
ritornarci, “l’edificio non si vede dalla strada, ma spicca in
fondo ad essa: bianco, grande e bello. Sembra che sia lì da sempre”,
e a sentire queste storie deve essere proprio così.
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