L’apologia
dell’adolescenza secondo Rita Indiana hai i contorni di una
commedia agrodolce che nel suo perimetro contiene una voce brillante,
insolita, frizzante e speziata ma fedele alla dimensione di quel
piccolo mondo, che si svolge secondo il principio per cui “la
follia è che a te tutto questo sembri normale”. I
gatti non hanno nome è rocambolesco, con
immagini che rimbalzano già come un film nel raccontare la vita
quotidiana della protagonista, che è senza nome come i suoi gatti, è
raminga e collima con la scrittura di Rita Indiana perché anche lei
cerca le parole giuste, almeno quanto il suo alter ego elenca i nomi
per gli animali. Deve crescere, e in fretta, durante l’apprendistato
nell’ambulatorio veterinario dello zio, mentre la famiglia combatte
una bizzarra battaglia per l’evoluzione della specie. Per Zia Celia,
“il mondo è un grande cesso sporco e lei è l’unico straccio con
la fibra adatta a pulirlo”. Lo Zio Fin sembra uscire da un racconto
García Márquez, visto il
ritmo blando delle sue giornate e i misteri che nasconde.
Due splendidi esemplari di quelle che Rita Indiana chiama “nevrosi
di classe”, con gli animali che sono il riflesso deformato delle
disavventure degli esseri umani: abbandono, incuria, disastri, ogni
tanto un po’ di quella piccola cosa che è l’amore e poi, come
direbbe Derek Walcott, il vero anfitrione dei Caraibi, “il nulla,
che sarebbe il mondo rumoroso nella sua mente”. La definizione
lirica aiuta a comprendere l’essenzialità dello stile di Rita
Indiana che è inafferrabile, sfuggente, con un sacco di spigoli e di
curve, a cui manca sempre qualcosa, come succede in tutta la musica
caraibica. Una battuta resta in sospeso e se il ritmo ondeggiante di
I gatti non hanno nome
si allinea alla precedente generazione delle isole, quella di Jamaica
Kincaid, Edwige Danticat, Zoé Valdés, nella deriva dei continente
americani Rita Indiana si è lasciata convincere da H. G. Wells ad
andare oltre: “Immaginate un linguaggio che avete conosciuto
preciso e definito, afflosciarsi, farsi gutturale, perdere sostanza e
forma, trasformarsi in una semplice sequela di suoni frammentari”.
Il suo lessico famigliare diventa così cosmopolita, arguto, tenace,
divertente, drammatico e romantico. Impara (un po’) l’italiano
leggendo una biografia di Jim Morrison, tiene un diario per conto
terzi, tocca e graffia la pervasiva cultura pop, anche soltanto
ricordando che “lo speciale dedicato ai Fleetwood Mac che danno
alla radio ha già rotto le scatole a tutti”. E’ abbastanza per
rappresentare le dimensioni d’interni che racchiudono gli incontri,
che hanno sempre la caratteristica principale della casualità, anche
se poi si ritrovano annodati in sequenze invisibili o impalpabili,
non di meno determinanti. In queste cornici, una volta la sala
d’aspetto dell’ambulatorio, una volta la sua stanza, una volta un
angolo in giardino, Rita Indiana erutta una metafora dopo l’altra,
con una certa allegria, con gli occhi pieni di spontaneo stupore,
anche quando si trova “a parlare di politica e di malattie
dell’apparato digestivo”. La nota più fresca è proprio quella e
Rita Indiana la applica anche nel raccontare la condizione estrema e
provvisoria di Radamés, un migrante haitiano, la triste storia di
Mauricio, un cane con un occhio solo, o la scoperta di una prima,
vera scheggia d’amore. Gli animali e le persone alla fine ci
lasciano, come direbbe ancora Derek Walcott, “increduli nell’attesa
di essere occupati”, così come I gatti non
hanno nome invita a sbarcare in un arcipelago
di suggestioni ed effervescente. Non edulcorate, non perfezionate,
grezze, genuine, ed è meglio così.
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