Visto che si comincia dal Vietnam, le “obiezioni morali” sono rimosse, a priori e senza tanti complimenti. C’è una sostanziosa partita di eroina da smerciare, un’idea di Converse, reporter inconcludente e con un sensibile fiuto per i disastri, che si giustifica così: “Abbiamo versato lacrime per l’oltraggio alla dignità umana, e quindi possiamo dire quel cazzo che vogliamo”. Quello è il punto di partenza e la storia di Dog Soldiers è annodata a quel carico, come incatenata a un macigno lanciato nell’oceano. Converse lo affida a Hicks, che dovrebbe portarlo alla moglie, Marge, e, fin dal loro incontro, con “quel senso di indolenza tipico di Los Angeles”, non c’è più niente che funzioni. Come tutti i migliori loser l’unica prospettiva è la fuga, ma si capisce subito che, così come la loro improvvisata relazione, è senza speranza. Appena partiti Hicks osserva: “A sinistra la merda di Los Angeles. A destra solo il vento. L’esercizio si chiama Percorri la tua strada fino a schiantarti”. Viva la sincerità: il senso unico impone a Dog Soldiers l’andamento serrato di un road movie, dato che “dopo tutto era la California, e non c’era nulla, dal suicidio all’insurrezione civile, che si potesse portare a termine senza macchina”. La droga che gronda dalle pagine (non solo l’eroina, ma anche cocaina, anfetamine, pillole, siringhe, overdose, di tutto) in quantità illimitata determina condizioni allucinanti e deviate. Si rischia la vita ad ogni passo e il paesaggio appare indefinito in una spessa nebbia, dove ogni personaggio di Dog Soldiers sembra inseguire la propria ombra. Non c’è un posto dove andare e Marge e Hicks si rifugiano in una comune gestita dal guru Dieter e dal figlio Kjell. Per Hicks è una sorta di ritorno a casa, non privo di valenze simboliche quando dice a Dieter: “Non si può vivere solo di pesca alla trota e luci stroboscopiche. Abbiamo dei vecchi doveri da rispettare”. Preso atto della citazione di Richard Brautigan, la scelta di rintanarsi lì risulta ovvia e maldestra, essendo l’unico luogo che potrebbe accoglierli, e infatti si ritrovano ben presto inseguiti e circondati. Intorno ai due chili di eroina, che sono l’oggetto del desiderio di tutti, si mobilitano outsider di prima categoria, che non badano ai mezzi per raggiungere ai loro scopi (in realtà soltanto uno: scoprire dove è finita la roba). Una delle figure più ambigue, Antheil, dice a Converse, ormai vittima del suo stesso piano: “Eccome se sei nei guai, amico mio, e pure quella matta di tua moglie. Se agisci in buona fede c’è la possibilità che ti salvi la vita. Se mi prendi per il culo ti guarderò morire”. Questo è il clima e la discesa negli inferi collima con l’evoluzione (anche metaforica) dalla desolazione urbana alle foreste fino al deserto, che incombe dall’inizio e presenterà il conto alla fine. Il punto di vista di Robert Stone è a distanza ravvicinata, per non dire a bruciapelo. Sposta spesso l’attenzione su un personaggio o sull’altro, passando da Converse a Hicks (e Marge) mentre il tentativo di smerciare l’eroina deraglia, come un’ennesima follia californiana. Un’ottica cinematografica che porta a vedere i movimenti e le azioni di protagonisti che hanno “bisogno di motivazioni”, e sono solo la voce di una disperazione diffusa. D’altra parte Dog Soldiers evidenzia, in modo inequivocabile, le fallimentari condizioni mentali dei delinquenti e quelle generali della California dell’epoca che, se è punteggiata dalle canzoni di Bob Dylan, Johnny Cash, dei Creedence e di Ray Charles, rivela un lato oscuro e deprimente, violento e noir, come se fosse una ballata di Warren Zevon. E per una serie di coincidenze (un altro triangolo irrisolto, un altro reduce, un’altra missione senza senso e altre strade imbottite di roba) l’atmosfera di Dog Soldiers (1974) collima con quella di Un buongiorno per morire di Jim Harrison (1973). Infilateli uno accanto all’altro e avrete il miglior ritratto della dissoluzione americana di quegli anni.
sabato 30 dicembre 2023
venerdì 29 dicembre 2023
H. D. Thoreau
Il Canada è soltanto una scusa. La breve trasferta nel Québec, una manciata di giorni all’inizio dell’autunno 1850, non è di sicuro sufficiente a fornire un quadro soddisfacente di un territorio vasto e complesso. Thoreau sembra esserne consapevole e lo conferma senza esitazioni: “La sola cosa che desideravo era arrivare in Canada, e farmi una bella passeggiata, proprio come avrei fatto in un pomeriggio qualunque nei boschi di Concord”. Le differenze, però, ci sono a partire dall’attrito linguistico tra l’idioma anglosassone e il francese che genera non pochi momenti di imbarazzo e ilarità. Thoreau si convince che “con bon jour e toccandosi il cappello si può attraversare senza problemi tutto il Canada” e, nonostante le difficoltà di comunicazione, il fascino di scoprire un territorio diverso, lo convince che il Canada “non era semplicemente un posto dove terminavano le ferrovie e dove si rifugiavano i criminali”. Thoreau si dilunga nelle descrizioni dei fiumi (“La loro riviére serpeggia più del nostro river”), delle cascate (“Le cascate da queste parti erano come una droga, e noi ne diventammo dipendenti. Ce ne eravamo abbeverati troppo”) e più in generale dei paesaggi. Il suo è un esercizio di osservazione, un reportage di viaggio limitato ma denso che cerca una visione degli sviluppi economici, delle attività agricole (“È meglio pianificare in modo generoso quando si è giovani, perché allora la terra è a buon mercato, ed è fin troppo facile restringere i nostri piani in seguito”) ed è tutto un florilegio di dettagli di botanica, storia, topografia. Per inciso, la presenza di fortezze e di muri nonché di truppe armate sparse per il territorio è motivo per cui anche nell’occasione, piuttosto bucolica, Thoreau non perda l’occasione per sfoderare la sua verve polemica e antimilitarista: “Non ho dubbi che i soldati ben addestrati siano, come categoria, peculiarmente privi di originalità ed indipendenza”. La diretta conseguenza è che “è impossibile addestrare bene un soldato senza renderlo un disertore. Il suo nemico naturale è lo stesso governo che lo addestra”. Un’attenzione altrettanto tagliente è dedicata al rapporto con il passato e a come influenza il presente, dove Thoreau si accorge che “persino i nomi dei più umili villaggi canadesi” lo colpivano “come quelli di famose città dell’antichità”. La denominazione è il più importante indizio sulle mappe e, in un certo senso, anche il punto di non ritorno di Uno yankee in Canada: “In un nome c’è tutta la poesia del mondo. È una poesia che la massa degli uomini sente e legge. Cos’è la poesia nel senso comune, se non un susseguirsi di simili nomi, così orecchiabili? Non desidero niente di più di una bella parola. Il nome di una cosa per me può facilmente valere più che la cosa in sé. Il riconoscimento da parte dell’uomo di ogni cosa della natura, e il suo legare la propria vita ad esso, è indicibilmente bello. Tutto intorno conferma questa sottile verità, che una volta lì crescevano i pioppi; e la rapida deduzione che ne consegue è che gli uomini erano lì a guardarli. E sarebbe lo stesso con i nomi dei nostri villaggi nativi e vicini, se non li avessimo profanati”. La distanza geografica con gli Stati Uniti così come il viaggio sono relativi, ma Thoreau non si esime di pronunciare un’ultima sferzante sentenza: “Mi divertì il fatto che, dopo il nostro ritorno, qualche persona meno avvezza a viaggiare ci domandò se ci era stato facile rimediare una sistemazione; come se uno viaggiasse all’estero per sistemarsi, quando questo si può invece fare comodamente a casa”. Una volta di più, Uno yankee in Canada è la dimostrazione che, come scriveva John Aldrich Christie, prima di tutto ci sono “continenti ed emisferi della mente” da esplorare e Thoreau resta la guida migliore.
giovedì 28 dicembre 2023
Patti Smith
Nella fotografia del 29 gennaio di un anno bisestile e singolare, Patti Smith è ritratta seduta come la madre, un po’ di traverso sulla sedia, il volto appoggiato a una mano, lo sguardo perso nel vuoto, “senza pensare a niente”. C’è voluta una vita intera per capire cosa fosse quel “niente”, una sterminata galassia in cui si è proiettata puntando al futuro e “rispecchiando il passato, la famiglia e un’estetica personale coerente”. Il senso di A Book of Days è tutto nel tentativo di isolare un almanacco fotografico di ricorrenze, anniversari, compleanni in omaggio alla band e al suo inner circle, alle sue fonti di ispirazione, alle influenze e ai punti di riferimento. È anche un elenco di personaggi, una collezione di ritratti che Patti Smith ha messo insieme nel corso del tempo indefinito della pandemia, quasi a voler mantenere vivo un contatto speciale e a rimanere vicina ai suoi sogni in un momento, per lei come per tutti, che aveva la stessa energia e vacuità di un buco nero. Per chi segue da un po’ Patti Smith ci sono istantanee che ci sono già state proposte, e più di una volta, e lei stessa non ne fa mistero: “Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo”. Ritroviamo Robert Mapplethorpe e William Burroughs, New York (prima e dopo l’11 settembre: “Ci inchiniamo per ricordare i defunti, poi ci alziamo per abbracciare i vivi”) e Big Sur, Bob Dylan e Jerry Garcia, Parigi e Firenze. Le reiterazioni fanno parte delle tappe di una viaggiatrice instancabile, curiosa, predisposta a cogliere nel ricordo un’occasione per rivedere, e reinterpretare, a dispetto delle circostanze avverse. Gli appunti di viaggio gli regalano “la soddisfazione di essere in movimento, anche quando non ci si muove” e i pellegrinaggi, reali o immaginari che siano, sono sottolineati da didascalie brevissime, limitate, minuscole, sempre accorate, a volte leggere e minimali, altrimenti più taglienti e approfondite. Contengono comunque tutto il tempo di Patti Smith: il resto sono i suoi scatti passati dalle Polaroid al cellulare, come ormai era inevitabile, che dipanano una volta di più l filo sottile che unisce un’inquadratura all’altro, giorno dopo giorno che poi è quell’afflato verso l’arte e tutto ciò che può rappresentare un stimolo verso la bellezza. Patti Smith ammette: “Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione”, e questo è un po’ il motivo fondante di A Book of Days e potrà apparire strano che tra lapidi e lutti, lo consideri “un luogo di conforto” ma è perché scrittori, letture, visioni, artisti, ricordi famigliari toccano luoghi e coordinate che rappresentano tutte le esperienze artistiche. L’ordine è casuale e comprende la casa di Rimbaud, un coltello di Sam Shepard, la chitarra di Kevin Shields dei My Bloody Valentine e poi Joan Baez, Akira Kurosawa, Martin Luther King, Borges, John Coltrane, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Werner Herzog, Rimbaud, Baudelaire, Beckett, Jimi Hendrix, Hank Williams finché parlando di Goethe Patti Smith arriva a concludere che “le grandi opere ispirano, il resto sta a noi”. Poi c’è solo il “niente”, ma quello è un altro discorso.
mercoledì 20 dicembre 2023
Rick Bass
È il giugno del 1954 quando The Browns pubblicano il loro primo singolo, Looking Back to See. Il mese dopo Elvis arriva con That’s All Right e Blue Moon of Kentucky e niente sarà più come prima. Le loro storie si ingarbugliano nel corso degli anni, ma Nashville Chrome è dedicato in particolare proprio ai fratelli Brown che, prima di intraprendere la carriera di musicisti, sono parte di una famiglia di Poplar Creek, nel profondo rurale dell’ Arkansas. Rick Bass li presenta così: “Maxine era la più grande, Jim Ed aveva due anni meno di lei, Bonnie cinque, Raymond sette e poi era venuta Norma, che aveva dodici anni meno di Maxine”, e fate voi i conti. È una vita dura, povera, limitata, ma i ragazzi imparano “l’armonia temperata” ascoltando le lame della segheria del padre e nell’occasione la descrizione di Rick Bass arriva a livelli sublimi, nell’accertare che “quel sound era così legato alle forze della natura che avrebbe potuto scegliere chiunque”. Scelse loro e “nell’architettura del mito o del destino”, diventarono The Browns incisero e andarono in tour e capirono ben presto che “non c’erano confini impossibili da attraversare e nessun attraversamento sarebbe mai stato facile. Avevano già imparato tutto ciò che dovevano sapere per il loro viaggio”. La magia delle voci, le canzoni, le standing ovation, Nashville, l’America che gli si apriva davanti erano la dimostrazione che “il mondo gli calzava a pennello, ma al contempo viaggiavano appena al di sopra di esso, creandone uno nuovo e alternativo, vivendo ogni giorno avventure parallele a quelle del mondo sottostante, ma più luminose, vivide, sentite”. Poi, quando si accorgono che Fabor, il manager con cui hanno firmato il più classico dei contratti capestro, li ha presi in ostaggio, capiscono che “era come andare al macello” e cominciano a sentire “il sussurro del tradimento, il sussurro del fallimento”. La carriera dei Browns è un’altalena di emozioni e contrasti, che Rick Bass riporta con molto scrupolo e facendo attenzione anche all’evoluzione degli strumenti di comunicazione. Appartenevano al mondo delle radio, mentre la televisione li mise su un piano inclinato: “Era ancora una cultura dell’ascolto più che visiva, almeno per quanto riguarda il modo in cui la gente si divertiva e si rilassava alla fine di una lunga giornata di lavoro in fabbrica, esausta dopo avere arrancato per un altro giorno allo scopo di avvicinarsi a quel po’ di benessere, se non di ricchezza, che finalmente sembrava possibile raggiungere”. Il country & western era un fatto sociale, prima di essere un mercato, e il ruolo della musica popolare e tradizionale aveva un valenza specifica. La genuinità, un tratto ricercato e dimenticato, veniva apprezzata da tutti, e da Elvis in particolare, con cui i Browns diventeranno amici (Bonnie, qualcosa di più). L’altro compagno di viaggio, Chet Atkins, grande chitarrista e un raro gentiluomo nell’industria discografica, gli salverà la carriera. Andranno in cerca di quella seconda possibilità che spetta di diritto a ogni buon americano, ma per loro il ciclo di ascesa e caduta, come per Elvis, tra l’altro, non riserverà sorprese. Le digressioni di Rick Bass sulla fama e sulle oscillazioni della vita sono il sale di Nashville Crome: la routine è impietosa, non soltanto in termini di estenuanti tour, pessima gestione degli affari e abusi alcolici. Le dinamiche famigliari e di gruppo non coincidono e, anzi, spesso collidono ed è lì che Nashville Chrome svela “come se ci fosse ancora un conto in sospeso, un prezzo da pagare eccessivo, terribile, commisurato a tutta quell’estasi passeggera”. Rick Bass alterna e movimenta i piani cronologici e in tempi più recenti Maxine si chiede: “La riproverà mai, la sensazione di essere notata e la certezza di essere la star?”. La domanda rimane sospesa su tutto Nashville Chrome, come una nota splendida, ma sgusciata fuori dalla canzone. Restano un’ultima amara visita a Graceland, un abbaglio con i Beatles, e le ombre che calano su tanti momenti di gloria, e chissà se erano stati davvero felici. Basato su una storia vera (The Browns continueranno fino al 1967), Nashville Chrome non rilegge soltanto la storia del country & western, ma indaga a fondo sui meccanismi dell’industria discografica, cliché dopo cliché, sui riflessi psicologici (che Rick Bass racconta con punte di assoluto lirismo), sul ruolo degli artisti, dei cantanti e del pubblico, sulle rispettive esigenze e sulle dinamiche che regolano, allora come oggi, il sogno del successo e la realtà dentro quel sogno. Fondamentale.
mercoledì 13 dicembre 2023
Mary Oliver
C’è acqua ovunque, negli stagni, nei laghi, nella pioggia e nell’oceano, acqua che porta vita, senza dubbio, perché Mary Oliver la esplora, la celebra senza sosta, la condivide. La scoperta della sua poesia (nella traduzione, con l’introduzione e la cura di Paola Loreto) è un assiduo abbandonarsi alla contemplazione della natura che riecheggia in ogni verso e diventa Musica, ritrovata con “una selettività furiosa e incolpevole”. La forma è lineare, chiara, diretta e la spontaneità è tutto, a partire dall’esplicito invito che recita La lince rossa: “Andiamo verso la foresta bianca, tutto il giorno, tutta la notte”. Avanti: la proposta è irrinunciabile perché Primitivo americano è la dimostrazione concreta che “la poesia sta lì e attende qualcuno per il quale o la quale può essere importante. Ha bisogno della persona giusta per il suo insieme di parole, per quello che sta dicendo. E può cambiare una vita. L’arte può cambiare la vita”. Il resto sono “pezzi di luce pura” al centro dell’osservazione, e non con intenzioni protezionistiche o scientifiche, ma con lo spirito di appartenenza alla stessa terra. Mary Oliver è molto esplicita, e coraggiosa, quando dice: “Io non parlo del vento, della quercia e della foglia sulla quercia, ma in loro nome”. È una scelta di campo radicale e assoluta che riguarda, come scrive in Qualcosa, “qualsiasi cosa. Questo o quello, o qualcos’altro: la ferita oscura di guardare”. I soggetti sono vivi e reali: il topo muschiato, avvoltoi, serpenti (innocui), aironi, anatre, le api, gli orsi e le Megattere dove Mary Oliver declama: “Conosco più vite che vale la pena di vivere”. Questa ricchezza riguarda i profumi e le fragranze delle more, del Miele sulla tavola che ha “un gusto fatto di tutte le cose perse, in cui tutte le cose perse son ritrovate” e che si possono avvertire con I prugni, portatori di “un sapore prima di qualsiasi cosa”. La poesia diventa così un’esperienza sensoriale ed è un continuo rimbalzare dalle impressioni dentro il paesaggio alle emozioni della percezione che, in Attraversando la palude, Mary Oliver estrapola spronando a fare della vita “un palazzo vibrante di foglie”. Gli alberi sono compagni costanti ed è sicura che “nessuno riuscirebbe a pensare, senza avere prima vissuto tra le cose viventi. Nessuno avrebbe bisogno di pensare, senza l’iniziale profusione di esperienze percettive”. Di acquitrino in acquitrino, da creatura a creatura, Primitivo americano rimette al centro dell’attenzione un intero biosistema e “col dolore, e il dolore, e ancora dolore alimentiamo questa trama febbrile, nutriti dal mistero”, scrive in Il pesce, raccogliendo nel frattempo echi della sensibilità di Elizabeth Bishop. Un omaggio, con ogni probabilità, dato che nella ricchezza di Primitivo americano “la vita è infinitamente inventiva” e “altre meraviglie stanno nel buio seme della terra”. Le origini, le radici, le stagioni sono lì dentro, un ambiente conosciuto in ogni singolo millimetro “non più di una virgola sulla mappa del mondo”, ma per Mary Oliver “l’emblema di ogni cosa”. Un legame esplicito, dichiarato, indissolubile: “Non potrei essere un poeta senza il mondo naturale. Qualcun altro può esserlo. Ma non io. Per me la soglia del bosco è la soglia del tempio”. Ecco, allora, a casa, Nei boschi di Blackwater, una poesia che è un indirizzo e un’indicazione nello stesso tempo: “Per vivere in questo mondo devi esser capace di fare tre cose: amare ciò che è mortale; tenerlo stretto contro le tue ossa sapendo che ne dipende la tua vita stessa; e, quando arriva il tempo di lasciarlo andare, lasciarlo andare”. L’esplorazione e la descrizione del lungo elenco di libellule, aquile, bisonti, talpe, albe, arcobaleni, fiumi e fulmini di Primitivo americano conduce Mary Oliver a un consiglio genuino, offerto con disinvoltura: “Istruzioni per vivere la vita: presta attenzione. Fatti stupire. Raccontalo”. La bellezza è tutta lì.
martedì 5 dicembre 2023
James Lee Burke
James Lee Burke ha un metodo: una scena alla volta, una volta al giorno. In qualche modo continua a funzionare e, in New Iberia Blues, Dave Robicheaux è coinvolto in un’intricatissima macchinazione che coinvolge Hollywood, la mafia del New Jersey, una setta di templari e che ha al centro “l’adorazione della celebrità, a prescindere da come viene acquisita o dalla forma con cui si presenta”, e il bello è che si conoscono tutti. L’enigma, questa volta, pare irrisolvibile. Robicheaux, le new entry del distretto Sean McClain e (soprattutto) Bailey Ribbons nonché Helen Soileau navigano a tentoni nella nebbia. Il bayou è un fondale con proprietà metafisiche, ma non fornisce indicazioni e Streak si appella ai suoi fantasmi per cercare la soluzione a una serie di delitti efferati. L’introspezione costituisce un elemento primario e coagulante, qualcosa che si distingue e spicca con regolare frequenza: Robicheaux gira a vuoto seguendo più le sue intuizioni che prove e indizi concreti. Del resto “la Louisiana, un luogo in cui i morti non solo sono con noi ma sono forse anche spiriti dispettosi a cui non conviene pensare”, da sempre, è fatta così, avvolta in una foschia tenebrosa. Bisogna fidarsi del suo istinto e non sempre succede, nello specifico nell’altra metà del cielo: Streak è solo con la sua sensibilità, i suoi sensi di colpa e la sua insonnia che lo convincono ad ammettere che “è strano quello che succede quando un uomo va troppo in profondità nella propria mente”. Si vedrà combattere con la sua nuova partner, con Helen Soileau, persino con la figlia Alafair coinvolta nella produzione del colossal hollywoodiano ambientato tra la Louisiana e l’Arizona (il cui budget ha origini piuttosto losche). Spinto da una forza irrazionale, Robicheaux non demorde e non molla mai, coadiuvato nelle sue intemperanze da Clete Purcel, inamovibile. I due, come è noto, si completano a vicenda. I loro metodi non sempre corrispondono alla legalità (anzi) e in New Iberia Blues sono “out of control” più del solito: come è nella loro natura, escono dal seminato e ogni volta creano panico, anche se i danni sono limitati allo stretto necessario. In effetti, James Lee Burke documenta gli stessi momenti: le colazioni, le trasferte tra terra e mare, il continuo tuffo nel rimuginìo di Streak, ben sapendo che “cambiano i volti dei protagonisti, ma non la questione di fondo. Si va al centro del vortice e si scopre di esserci già stati. Si tratta di saper vedere i dettagli”. La risoluzione e la scoperta dei colpevoli e dei moventi non manca e Streak la vede in un piccolo particolare che, nella confusione di simboli, attori, interpreti, doppi giochi e ambiguità assortite gli era sfuggito. Lui se accorge perché “il male ha un odore. È una presenza che consuma chi lo ospita. Lo neghiamo perché non abbiamo una spiegazione accettabile. Puzza come la decomposizione di un tessuto organico” e da lì in poi New Iberia Blues accelera e persino nelle paludi, dove ogni cosa è stagnante per definizione, prenderà una velocità diversa, fino al finale (travolgente). Ci si ritroverà tra i piedi anche Smiley (uno dei più enigmatici tra i personaggi recenti di James Lee Burke) così come un’ininterrotta sequenza di richiami al passato e alle altre storie di Robicheaux che fanno di New Iberia Blues una specie di compendio e insieme la più rappresentativa delle sue avventure. Contiene un bel po’ di roba: il blues che non “si impara agli incroci, tesoro. Non si torna indietro una volta che ci sei stato”, il paesaggio con una lunga teoria di luoghi e anfratti, gli elementi come la pioggia che è “sempre stata il tramite tra il mondo visibile e quello invisibile” e, appunto, quelle dimensioni parallele e misteriose. A conti fatti, nel riassunto delle gesta di Dave Robicheaux e Clete Purcel messo in scena da James Lee Burke c’è la rampa di lancio per descrivere una volta di più la Louisiana e tutta un’America che sta scomparendo, ovvero quell’habitat che ha creato con ammirevole costanza e che è la definizione ultima dei suoi romanzi. Di particolare hanno questo, e New Iberia Blues, più di tutti: arrivi alla fine e non ti interessa più cosa è successo e chi è stato, ma se i procioni (Snuggs e Mon Tee Coon) hanno mangiato e stanno bene.
venerdì 17 novembre 2023
Tom Wolfe
Charlotte Simmons è una “ragazza limpida” che vede la prestigiosa università Dupont come un traguardo per tutta la famiglia e persino per la sua modesta cittadina di Sparta, sulle Blue Ridge Mountains, da cui proviene mentre tutti gli altri la considerano “un grande parco giochi d’élite”. È una giovane provinciale convinta di poter eccellere nello studio, e di onorare le legittime ambizioni di mamma (soprattutto) e papà. All’arrivo nel campus è evidente fin da subito che la situazione si prospetta un po’ più complicata di come l’aveva immaginata: la lingua corrente è il “patois del cazzo fottuto” ai limiti del turpiloquio, l’ordinaria amministrazione è un mix feroce tra istinti predatori e sfrenata competitività, la tensione dominante è di classe, di censo, di razza e di genere. Il ritratto del college americano è spinto da Tom Wolfe ai confini della parodia ma colpisce nel segno: nell’architettura maestosa delle istituzioni scolastiche s’intravedono conflitti, intrighi, distorsioni. Charlotte Simmons è ipersensibile, ma la sua genuina autostima è messa a repentaglio da un milieu di muscoli, sesso e alcol. Finisce al centro al centro dell’attenzione, suo malgrado, e ben presto si accorge che “erano tutti presi dall’essere veri maschi, e la violenza era la manifestazione più maschile di tutte”. Tom Wolfe è eccessivo e lapidario, e non le risparmia nulla: Charlotte Simmons ha un ruolo difficile da interpretare e lo farà fino in fondo, scontando abusi e sofferenze che la porteranno alla depressione. Attorno a lei appaiono, di volta in volta, giovani rampanti, atleti ipertrofici, intellettuali allo sbaraglio: il flusso è ininterrotto e avvolgente e anche se non è del tutto allineato rende l’idea di cosa succede in un microcosmo circoscritto ed emblematico della civiltà americana. Tom Wolfe sa toccare con perfida abilità e grande conoscenza i luoghi comuni innestandoli a una parallela e provocatoria analisi dell’evoluzione della specie. Nel decantare le fragili emozioni di Charlotte Simmons, Tom Wolfe è spesso prolisso e a tratti anche ripetitivo, (come le ricorrenti descrizioni della stazza muscolare maschile o delle forme femminili), ma questo è tipico di una lente di ingrandimento che è sempre stata molto attenta all’antropologia in generale e ai casi umani in particolare. In Io sono Charlotte Simmons, gli episodi dove dispiega il suo savoir faire letterario, capace di vedere minuscoli dettagli in un banchetto natalizio o micidiali trucchi sul campo da basket, così come di illustrare una lezione di neuroscienze o una delicata riunione davanti al rettore, sono infiniti. Due scene sono un po’ i due fuochi attorno a cui ruota l’ellisse di Tom Wolfe. Il pranzo, all’inizio, con gli Amory, la famiglia di Beverly, l’insopportabile compagna di stanza di Charlotte Simmons, in cui si distinguono due Americhe: una fiduciosa e cordiale, l’altra altera e sprezzante, una limitata nelle possibilità, l’altra condizionata dal suo status, una affamata e una rigorosamente a dieta. Charlotte Simmons è proprio in mezzo e in quella terra di nessuno si ritroverà allo sbando nella cena esclusiva, a Washington (non a caso, si presume), con la confraternita dei Saint Ray. Il parossismo di Tom Wolfe raggiunge l’apogeo nell’illustrare un baccanale di vodka e aragosta in cui ogni grado di conoscenza e intelligenza viene regredito a livelli brutali, con tanti saluti a Socrate, a Flaubert e anche a Tupac Shakur. Lo scempio avrà una vittima e il quadro generale che ne esce non è dei più edificanti e nemmeno sorprende particolarmente, perché Tom Wolfe resta nello stesso tempo dentro e a distanza di sicurezza dalla torbida commedia imbastita attorno alle istituzioni universitarie, lasciando in sospeso ogni ambiguità. Io sono Charlotte Simmons è un bel tuffo senza rete, ma se volete fare prima, riguardatevi Animal House.
lunedì 13 novembre 2023
Dalton Trumbo
Reduce dai campi di battaglia europei della prima guerra mondiale, mutilato degli arti e della faccia, privato dei sensi e immobilizzato in un letto di ospedale, Joe Bonham ricorre all’unica risorsa che gli rimane, il pensiero. Ben presto si rende conto che se è salvo (se così si può dire) è perché è il risultato di esperimento, teso a dimostrare l’efficienza della medicina e della chirurgia sul campo. Nel corso degli eventi bellici, l’umanità svanisce e dato che “questo non è tempo di preghiere”, al soldato, ormai prigioniero di un corpo straziato, non resta che proclamare, perentorio: “Quando gli eserciti si mettono in marcia le bandiere sventolano e gli slogan risuonano dovunque stai in guardia piccolo uomo perché le castagne al fuoco non sono le tue ma di qualcun altro. Tu combatti solo per delle parole e non stai facendo un contratto onesto, la tua vita in cambio di qualcosa di meglio. Fai il nobile ma quando ti avranno ammazzato quella cosa per cui hai tradito la tua vita non ti servirà a niente ed è molto probabile che non servirà nemmeno a qualcun altro”. L’avviso, come ogni singola parte del furioso monologo di Joe Bonham è un grido di dolore che si svolge nel silenzio e che viene reiterato, rivolgendolo con veemenza contro la retorica bellica: “Tenetevi pure i vostri ideali purché io non debba pagarli con la mia vita. E quelli dicono ma come i principi sono più importanti della vita. E tu ah no forse saranno più importanti della tua vita ma non della mia. Cosa diavolo è un principio? Quando l’hai nominato è finito lì”. Una parte vitale pulsa ancora in Joe Bonham: sente, non senza stupore, che gli appuntano una medaglia sul petto, cerca di collocarsi nello spazio, per conquistare sulle uniche parti di pelle rimaste intatte la carezza del sole, e prova in continuazione a orientarsi nel tempo perché “poco importa se sei lontano dagli altri purché tu abbia un’idea del tempo perché solo così sai di vivere nello stesso mondo in cui vivono loro fai parte di loro ma se perdi la nozione del tempo loro vanno avanti e tu resti indietro solo sospeso nell’aria perso per sempre”. La condizione estrema di sopravvivenza e dolore lo costringe a ricordare e dal passato riemerge un clima di pace con i piccoli dettagli della vita quotidiana, le conquiste e le sconfitte giornaliere, le ragazze e i ragazzi che si rincorrono sapendo che “abbiamo cose ben più importanti di una guerra”. L’isolamento resta atroce, la vita è ridotta a una forma indefinita confinata nell’immaginazione, finché Joe Bonham non prova a comunicare con il codice Morse, sbattendo la testa contro il cuscino. Rimane incompreso ancora a lungo e Dalton Trumbo riesce a delineare con la forza di una scrittura grezza e risoluta le sue intenzioni. Quando, con molta prudenza, attorno a lui comprendono il mezzo per comunicare, Joe Bonham crede di aver trovato un ruolo, di poter disporre “i germi di un nuovo ordine delle cose”. Convinto che “la gente è sempre disposta a pagare per vedere una curiosità è sempre enormemente interessata alle cose orribili e probabilmente su tutta la faccia della terra non c’era una sola creatura vivente che fosse così terribile a vedersi come lo era lui”, sa di di poter diventare “il nuovo messia dei campi di battaglia che diceva alla gente così come io sono sarete anche voi. Perché lui aveva visto il futuro l’aveva provato e adesso lo stava vivendo. Aveva visto gli aeroplani volare nel cielo aveva visto i cieli del futuro neri di aeroplani e ora vedeva tutto l’orrore che stava al di sotto”. L’accorata vocazione, il suo grido di dolore troverà un’adeguata risposta che rende E Johnny prese il fucile un classico moderno, purtroppo ancora attualissimo.
giovedì 9 novembre 2023
Leonard Cohen
Ray Charles citato nell’epigrafe è già qualcosa in più di un indizio. Genio, ritmo, coraggio: l’inseguimento di un senso e di una magia è foriero di elaborate acrobazie e Leonard Cohen sprizza energia da tutti i pori. Lo scrittore è in contrasto con la presenza ieratica del songwriter che verrà in seguito: Beautiful Losers si avvicenda con un turbinio di emozioni, è davvero un romanzo sensazionale e ci vuole tatto per affrontarlo, ancora oggi, a distanza di sessant’anni. La stessa gestazione è stata fonte di turbamento che, nel Libro del desiderio, Leonard Cohen descriveva così: “Beautiful Losers è stato scritto all’aperto, su un tavolo che stava in mezzo a rocce, erbacce e margherite, dietro la mia casa a Hydra, un’isola del Mare Egeo. Vivevo là, molti anni fa. Era un’estate rovente. Non mi coprivo mai la testa. Quello che hai in mano è un colpo di sole, più che un libro”. Un ribollire linguistico dentro (e fuori) una trama inesistente, costruita con digiuno e fuochi d’artificio, droghe e sesso in continuazione (il rock’n’roll deve ancora arrivare) visto che “tutti coltivavamo una certa ambiguità come stile”. È spesso un flusso di coscienza, tra cronaca e storia, le dimensioni esaltate di simbologie e metafore con le maiuscole che calano come un castigo divino e prolusioni e dichiarazioni d’intenti emanate da un pulpito invisibile (il più delle volte una frequentatissima alcova). Beautiful Losers è un collage esuberante e macroscopico che Leslie Fiedler definirà “un romanzo pop-art assolutamente onesto” dove Catherine Tekakwitha, Edith, F., e lo stesso Leonard Cohen, sono le comparse di “una danza di maschere” e sono tutti “parte di una collana di incomparabile bellezza e priva di significato”. Questo continuo ondeggiare sulle “diverse ali del paradosso” induce Leonard Cohen a scoprirsi sempre di più e a proclamare: “Sono stanco dei fatti, sono stanco delle speculazioni, voglio essere consumato dall’irrazionalità. Voglio lasciarmi trasportare”. Questo proposito è l’anima istintiva di Beautiful Losers che si pone in modo distinto rispetto alla realtà, anche in modo plateale quando in un passaggio dice: “La maggior parte delle persone non sono disposte a portare la loro vita in prima linea, la maggior parte delle persone non dovrebbe farlo e la maggior parte delle persone non ha niente in nome di cui portare la propria vita in prima linea, ed è probabilmente meglio così”. Lui, il poeta, il pellegrino, l’amante, l’outsider sa di essere sprofondato in un abisso (“Quello che vi è di più originale nella personalità di un uomo è spesso quanto vi è di più disperato”), ma anche di aver intuito una possibile deviazione, tra le tante (“Non voglio essere una stella, che muore soltanto”). Per questo Leonard Cohen spiegava così Beautiful Losers: “Non è un libro d’immaginazione nel senso che in ogni pagina l’autore vi appare senza schermi protettivi più di quanto usualmente accada in un’opera di immaginazione. E questo perché il libro è davvero una lunga preghiera che cerca di dire la sua sulla vita di una santa, una meditazione compiuta stando in equilibrio su una fune da cui si scivola fra le urla di tutto il circo e per non precipitare si ricade sulla fune con il cavallo dei pantaloni, e tutti i maschi fra il pubblico chiudono gli occhi, sanno l’effetto che fa”. È proprio un’avventura infinita, al punto che Leonard Cohen diceva, ancora: “Più e più volte ho dovuto rassicurare me stesso e il lettore che si trattava solo di finzione, e quando ce ne convincevamo e riuscivamo a rilassarci potevo finalmente tuffarmi nella preghiera che a sua volta, io credo è costituita nel profondo da eventi reali, bottoni, dubbi, spazzatura, torte in faccia e bisogna muoversi in mezzo a questa merda prima di poter usare il puro vocativo”. L’esprit de finesse finito in un erudito fiorire di citazioni, rimandi e calembour di un’unica “sardina materiale in una scatoletta di fantasmi” richiama lo spirito animalesco e segreto (fino a un certo punto) di Beautiful Losers che Leonard Cohen infine svela così: “Se ascolto i Rolling Stones? Senza tregua”. Anche noi.
martedì 7 novembre 2023
Louise Glück
La forma è essenziale, diretta, spoglia e a tratti persino elementare. Le cronache quotidiane di Louise Glück tengono conto dei limiti, della semplicità dello sguardo che si accontenta dei ritratti famigliari, delle manifestazioni del clima, “un bel sole simpatico” e la neve (onnipresente) che brilla in Festa del Presidente, e delle stagioni, a partire dall’Autunno che, a discapito del titolo, è uno dei periodi più fertili per Louise Glück. Sono annotazioni spontanee, forse nella consapevolezza che “le parole non sono la risposta”, come scrive in Poesia. I versi, sciolti, liberi, sono una scrupolosa misura della lingua che si mantiene immediata, senza intrusioni specifiche. Gli alberi sono alberi, gli uccelli sono uccelli, le denominazioni scientifiche restano accantonate a favore di uno stile semplice, comodo, intuitivo e sintomo dello stupore per cui nelle Ricette per l’inverno del collettivo “il mondo ci passa accanto, tutti i mondi, ciascuno più bello del precedente”. La componente più efficace nei versi di Louise Glück è nell’istantaneità delle immagini, ricomposte secondo uno schema imprevedibile che sembra inseguire solo quelli che Robert Graves definiva i quattro oggetti naturali della poesia: “La luna, l’acqua, le colline e gli alberi”. Solo gli elementi ricorrenti nelle Ricette per l’inverno del collettivo, però la visione di Louise Glück riconsidera l’osservatore, ed è un continuo richiamare l’essenza della realtà. Avviene in particolare con Il sole al tramonto: “Fuori il sole tramontava, il tipo di simmetria precisa che ho sempre notato”, dove “l’effetto delle parole” riporta al punto di partenza, alla spontaneità dello sguardo e del suo riflesso. L’immedesimarsi con gli oggetti del desiderio è una parte sostanziale della scrittura coltivata espressamente in Un ricordo: “E mi sembrava di ricordare quel luogo della mia fanciullezza, anche se allora non c’era un fiume, solo case e prati. Così forse stavo tornando a un tempo prima della fanciullezza, all’oblio, e forse era questo il fiume che ricordavo”. Le Ricette per l’inverno del collettivo sono sviluppate da appunti che si annodano uno dopo l’altro e diventano invocazioni come succede con La storia del passaporto (“Cammino, aspettando che la verità si riveli”) o dichiarazioni di intenti, decisamente espliciti in Una storia non finita (“Ora che la storia è mia, preferisco che sia una meditazione sull’esistenza”). Nelle stesse stanze Louise Glück ammette che “forse non sapremo mai se la storia doveva essere un avvertimento o magari una storia d’amore in quanto è stata interrotta. Così non possiamo sapere se abbiamo già avuto esperienza della fine”. È la chiave di volta dietro le postille climatiche e naturalistiche, che costituiscono una cornice fluttuante finché Louise Glück non chiarisce gli ingredienti principali delle Ricette per l’inverno del collettivo: “Tutti disprezziamo le storie che sembrano aride e interminabili, la mia però sarà una storia d’amore vera se per amore intendiamo come amavamo da giovani, come se il tempo proprio non esistesse”. Nell’estrapolazione successiva, quasi una conclusione filosofica conferma che “la maggior parte dei miei fatti sono spariti, ma certi principi sottostanti si sono perciò manifestati con chiarezza sorprendente”. Questo è il frutto del “vivere nell’immaginazione”, guardando fuori, per pescare dentro.
giovedì 2 novembre 2023
Neal Barrett Jr.
Secondo Joe R. Lansdale “la letteratura americana nella sua espressione migliore, ha uno stile molto naturale, un particolare senso dell’umorismo e l’infinita speranza che domani le cose possano andare meglio”. Tutto sommato è proprio lo spirito che spinge Douglas Hoover a lasciare tutto. È refrattario al lavoro (“Il sistema aveva delle falle, ma forse dietro c’era una logica”) e al matrimonio che è arrivato al capolinea. Pensa in continuazione agli aerei della prima guerra mondiale e a un barlume di emozione legato all’infanzia, forse il motivo principale del suo viaggio. Una meta dopo l’altra, prende forma uno strampalato road movie: tra stanze di motel, strade senza nome, incontri fugaci e inseguimenti spericolati. Un bel po’ di movimento che presta il fianco a un frenetico sovrapporsi di allucinazioni, ricordi, divagazioni e voli pindarici in cui Neal Barrett Jr. sfodera tutta una gamma di tonalità, con un gusto per l’iperbole davvero trascinante. Il nonsense punteggia tutte le frasi e, lungo un elenco senza fine di cittadine del Texas, non succede molto altro se non l’ossessione per Sue Jean, una ragazza trovata da Doug sulla strada, e un’aleatoria ricerca di se stesso. Sue Jean, poco più che adolescente, è capace di viaggiare nuda, dando spettacolo e solleticando ripetizione Doug, sa fare benissimo le uova strapazzate ed è per lui una specie di impertinente voce della coscienza: “Le lezioni sono incentrate su un unico argomento: te stesso. Chi sei e cosa vuoi fare di te”. È proprio così visto che Doug è rimugina spesso e volentieri sulle sue condizioni: “Riconoscere i propri limiti ha pro e contro, riflette. Qualsiasi cosa non vada in lui, ora si sistemerà. Oppure no. Sapere chi sei non significa che la tua testa sia lucida al punto da fornirti già tutte le risposte”. Il suo pensiero è una composizione di “rivelazioni e caos, introspezione e disordine in uno stupido miscuglio che pareva comunque funzionare”, definizione che, per estensione, vale anche per tutta La banda dell’altro mondo. La congrega di fissati che ha come amici sono “personaggi che sognano in piccolo, convinti di sognare in grande”. Una teoria di nomi e cognomi avvolge ogni mossa di Doug, affolla la sua vita e comprende il fatto che “cowboy mistici e cameriere di bar nelle stazioni di servizio per camionisti sanno che il cambiamento è solo un’illusione. Sanno che starsene immobili è il modo migliore per allontanarsi il più possibile da dove ci si trova, faresti meglio a trovarti una buona birra e una canzone preferita e accontentarti”. La colonna sonora annovera Hank Williams, Johnny Cash, Tex Ritter, Beatles, Janis Joplin e Willie Nelson e la corsa nel vuoto è un caos di suggestioni ed esagerazioni. L’incertezza regna sovrana: “Non sapeva se queste cose fossero davvero successe o se le avesse lette in qualche libro. Gli sembrava di sì, ma forse no”. Poi, una volta tornato a casa, per Doug diventa tutto piuttosto riduttivo: “Sembrava tutto un po’ troppo facile. Voleva delle rassicurazioni. Voleva delle certezze. Voleva andare a letto e fare un po’ di sano casino e dimenticarsi tutto. Sentì il desiderio di andare in cucina a prepararsi uno spuntino”. Doug ha un rapporto plastico con i sogni e le visioni che si dipanano senza sosta, ma alla fine le aspirazioni sono ridotte: “Voglio prendere più pesci. Voglio montare modellini di caccia tedeschi in scala 1 a 32. Voglio far crescere rampicanti sui muri di casa”. È vero, come dice Joe R. Lansdale, che La banda dell’altro mondo “trasuda America da ogni poro”, e il flusso verbale è ininterrotto, psichedelico e pirotecnico, ma è anche abbastanza inconcludente e allora bisogna ricordare quello che scriveva Carl Sandburg, citato più volte da Neal Barrett Jr.: “Quando una nazione crolla o una società perisce, una condizione sarà sempre identificabile: avevano dimenticato da dove erano venuti”. Come dire, si possono sfoderare tutti i numeri possibili e impossibili, ma per quanto immenso, lo spazio non è infinito e da qualche parte bisogna pur arrivare.
lunedì 30 ottobre 2023
William Carlos Williams
William Carlos Williams guarda il mondo dalla posizione privilegiata che gli offre la poesia, eppure non si accontenta e rimastica i versi, sapendo, come scrive in Il vento rinforza, che un poeta è “un uomo le cui parole si apriranno a morsi la strada per casa, essendo reali, possedendo la forma del movimento”. L’antologia, che copre quasi mezzo secolo di continuo lavorio, condensato nel proposito di riservare l’attenzione in modo univoco (“Niente idee se non nelle cose”) ha un suo leitmotiv nell’osservazione degli elementi naturali trasformati in strutture poetiche, come succede, fin dal titolo, in Figura metrica, dove la voce di un uccello gareggia per farsi sentire: “È il suo canto che in luce vince il crepitio delle foglie che si scontrano nel vento”. L’incanto è immediato e la complessità di flora e fauna si trasmette a ondate: asfodelo, caprifoglio, Giovane platano, tarassaco, il pruno, Il toro, Testa di merluzzo, sassifraga, l’edera, L’elefante marino, Gabbiani, le betulle sono protagonisti di una metamorfosi costante nelle immagini collezionate da William Carlos Williams. Il riferimento è ancora più esplicito in A un amico a proposito di svariate dame: “Sai che non c’è granché che io desideri, qualche crisantemo semi-riverso sull’erba, giallo e bruno e bianco, le chiacchiere di poche persone, gli alberi, un’ampia distesa di foglie secche forse intercalate da fossi”. O, ancora, la percezione di trasformazioni microscopiche, che diventano gioielli, come è evidente in Canzone d’amore: “Non c’è luce, solo una macchia densa di miele, che sgoccia di foglia in foglia di ramo in ramo, guasta i colori del mondo intero”. A William Carlos Williams bastano un quadro di Bruegel, l’omaggio a Ford Madox Ford o René Char, l’Iliade, giusto a ricordare che “solo l’immaginazione è reale” e per ribadire che “il supremo splendore non è la bellezza, profonda quanto sia, ma la ricerca classica della bellezza, al centro della palude: la strada senza uscita, abbandonata quando finalmente il nuovo ponte è stato aperto”. La simbologia ha un suo peso specifico proprio perché la poesia di William Carlos Williams ha una “fragranza” particolare che si descrive da sola: “le frasi denudate” arrivano una dopo l’altra e “la forma è giunta per gradi”, compiendosi “in un orizzonte di colori”. Sono fotografie che attraversano i sensi raccontando le prugne “così buone così fresche”, “l’umiltà della neve”, le geometrie che delimitano La provincia (“La figura dell’alta erba bianca lungo l’argine di ceneri mantiene la propria linearità impeccabile”) o ancora “l’alfabeto degli alberi” che sono quasi un’ossessione nello svelare “il nocciolo duro della bellezza”. È da qualche parte, come dicono i versi in La discesa in quella direzione che “un mondo perduto, un mondo insospettato, invita a nuovi luoghi e nessun candore (perduto) è bianco come il ricordo del candore”. Il ritmo è una collezione sinuosa di stanze che ammaliano e ipnotizzano, anche se William Carlos Williams riesce comunque a mantenersi a distanza di sicurezza dalla realtà. Quando dice che “i puri prodotti dell’America impazziscono” spalanca tutto un territorio in gran parte inesplorato, ma nel frattempo ricorda anche che non c’è più “nessuno a testimoniare e a mettere a punto, nessuno a guidare la macchina”. Il segnale è ambivalente anche in Quel che resta di una canzone quando dice: “È tanto strano per me, qui nel crepuscolo moderno” per poi ammettere nel suo Ritratto dell’autore ammette che “il mondo è sparito, ridotto a brandelli da questa grazia”. Il poeta rimane innocente, il discepolo ringrazia.
venerdì 27 ottobre 2023
John Cage
Come ricordavano Barrington Nevitt e Maurice McLuhan in Who Was Marshall McLuhan? Exploring a Mosaic of Impressions, a pranzo con Marshall McLuhan, John Cage era affascinato dalla conversazione, tanto da non ricordarsi nemmeno cosa avessero mangiato: “Per me i suoi libri, le sue domande, le sue dichiarazioni erano tutte misteriose e quindi utili. Lo sono ancora”. Per un singolare effetto di rifrazione quell’impressione si può applicare nello stesso modo a Un anno a partire da lunedì, lussuosa collezione di interventi di John Cage nell’affrontare “la vita molteplice”, l’incontro con la tecnologia, le emissioni del futuro e molto altro, in un arco temporale dal 1963 al 1967. Marshall McLuhan trova spesso un posto di riguardo, ma la predisposizione di John Cage nei confronti del linguaggio e/o della rappresentazione della realtà e della storia resta un’acrobazia senza rete, una scossa elettrica spiazzante e propedeutica a una dimensione alternativa. Schemi e imposizioni vengono archiviati senza troppi complimenti, tesi e teoremi scartati ancora prima di pensarci, il paradosso è la leva per espandere i limiti del pensiero, e magari superarli. Il testo viene frammentato, disposto in modo casuale (o forse no): i lati divergono e convergono e i cliché, gli ordinamenti, persino l’organizzazione stessa sulle pagine, vengono strapazzati e non tanto giusto pour épater le bourgeois, ma perché come ammette John Cage “non sappiamo a che punto siamo e senza dubbio non lo sapremo mai”. Il messaggio, non meno del mezzo, viene stravolto nella consapevolezza che siamo arrivati al punto che “non sappiamo più che farcene nel funzionale, del bello, o di sapere se qualcosa è vero o meno. Abbiamo solo tempo per chiacchierare”. Dalla sintassi ai caratteri tipografici, nell’ebollizione delle strutture, di citazioni e richiami, un filo continuo c’è, anche se non si vede e John Cage fa di tutto per dissimularlo. Per quanto variegate nelle origini, un po’ testi di conferenze, un po’ articoli e storie zen, le proiezioni convergono in quel modello di pensiero divergente, originale, il più delle volte sorprendente, che ha distinto John Cage tra i massimi intellettuali del ventesimo secolo. L’ottica punta costantemente a ridefinire gli strumenti dell’osservazione e della comprensione, ancora prima dell’analisi: “Potreste dire che l’impegno è la realtà definitiva dal punto di vista umano. Perciò è nostro compito quotidiano trovare modi pratici di rigirare il telescopio e guardare dall’altro capo”. Qui le attenzioni vengono rivolte ai tratti di Jasper Johns e Mirò, giusto per ricordare che “l’arte, se ne volete una definizione, è un’azione criminale. Non si conforma a regole. Nemmeno le proprie. Chiunque esperisca un’opera d’arte è colpevole quanto l’artista. Non è questione di condivisione della colpa. A ognuno di noi arriva per intero”. A quel punto il rapporto con la musica, il rumore e il silenzio è già stato articolato nei suoi elementi essenziali e John Cage ha provato a rimodellare le sue intuizioni sulla scrittura (soprattutto con James Joyce, una passione in comune con Marshall McLuhan per il Finnegans Wake), sulle forme (Marcel Duchamp, un interlocutore privilegiato, e Le Corbusier) e ogni volta lo stupore è dietro l’angolo. Nell’affrontare le macroscopiche dimensioni di intuizioni e follie, John Cage ne sottolinea fisica e chimica, come se fosse il gesto più naturale del mondo: “Il vuoto lo prendemmo per quel che era, un posto in cui poteva succedere di tutto”, e se c’è un metodo è che non c’è. La sensazione è quella di trovarsi in un campo magnetico, di aver perso qualcosa o di averlo trovato per caso (come i funghi). Non c’è spazio per i luoghi comuni anche nell’intimità dove “avendo tutto quel che ci serve, ugualmente passeremo notti insonni per il desiderio di piaceri che immaginiamo non ci saranno mai”. È un continuo spostare la destinazione, non soltanto alzare il livello, ma anche cambiarlo in modo radicale, perché “indubbiamente c’è una soglia in tutte le questioni, ma una volta che la si è varcata, non c’è bisogno di stare fermi come se si fosse immobilizzati, le regole scompaiono”. Nel gusto di ribaltare la casa c’è, insieme all’esigenza quanto mai attuale di “una morale puramente laica” anche un’ironia sottile e sorniona, quella di un vagabondo e un teppista delle parole che sa benissimo come il primo passo per rinnovare la cristalleria sia mandarla in frantumi. Il richiamo a Thoreau, nelle conclusioni, appare inevitabile, non solo come omaggio alle radici del gusto per il dissenso, ma pure per una rinnovata predisposizione esistenziale: “La vita cambia. Uno dei modi in cui cerco di cambiare la mia è sbarazzandomi dei miei desideri per non essere sordo e cieco al mondo che mi sta attorno”. Unico, prezioso, da tenere vicino e consultare spesso.
giovedì 19 ottobre 2023
Silas House
Da un’era precedente e lontana arrivano canzoni come Wildflowers di Tom Petty, With Or Without You degli U2, The One I Love dei R.E.M (a sottolineare un momento particolarmente drammatico), Angel From Montgomery di John Prine, The Story di Brandi Carlile. Un tempo diverso che è sfumato insieme ai versi e alla musica. Quello che viene dopo è un incubo, non molto lontano. Un buco nero: gli incendi, frutto di una mutazione climatica, le persecuzioni e i massacri, derivati dalla follia antropica, spingono il giovane Lark, la sua famiglia e un’indistinta massa di profughi dall’America fino in Irlanda. Fin lì sono tutti sopravvissuti, ma la traversata è tragica e prima di arrivare sulla costa europea Lark perde i genitori. Sono tutti consumati, feriti, esausti e, quando è il momento di sbarcare, sono accolti da colpi d’arma da fuoco. Nessuno li vuole. Lark si salva nelle acque dell’oceano e si incammina nella brughiera: solo, impaurito, affamato incontra un cane, un beagle, Seamus, così chiamato in onore del poeta irlandese (premio Nobel) Seamus Heaney e poi Helen, una donna che ha perso il figlio perché “quelli erano giorni infelici che sfidavano la giustizia o la razionalità”. Insieme si mettono in viaggio verso Glendalough, una sorta di Shangri-La, in realtà un piccolo villaggio attorno a un monastero, di cui conoscono soltanto il nome, ma che gli è stato raccontato come l’ultima (e unica) meta verso la salvezza. L’ascesa di Lark ricalca La strada di Cormac McCarthy, ma anche molta cinematografia distopica che in realtà cerca di comprendere le apocalissi quotidiane, ma qui gli elementi fondativi della letteratura americana secondo Harold Bloom (il mare, la madre, la notte, la morte) trovano connotazioni precise, vengono affilati e ridisegnati nei meandri di un’Irlanda ombrosa, cupa e capolinea di un’emigrazione al contrario, quasi una legge del contrappasso sulle fondamenta dell’America. L’amore filiale di Cormac McCarthy è sostituito dall’affetto per il cane, la vita quotidiana è irta di difficoltà e minacce: dietro ogni angolo, ogni ombra, c’è una svolta violenta. La rappresentazione del mondo “dopo” costituisce un territorio lugubre e misterioso, non privo di un suo fascino, che emerge nelle accurate descrizioni di Silas House. La natura, dalle onde dell’Atlantico ai rilievi irlandesi, sottolinea una cammino dantesco verso una meta che è una specie di illusione, se non proprio un’utopia e qui, forse, sta tutto il senso del pellegrinaggio di Lark, di Seamus e di Helen. Il messaggio è lapidario: niente è facile, tutto è un rischio. Bisogna restare immobili, e continuare a muoversi: questa contraddizione è il modo con cui Lark ha imparato a sopravvivere, ma non sempre la scansione tra i due momenti è così nitida. È tutto molto cagionevole: alberi e rocce sono ripari provvisori e limitati e fanno da cornice a ogni gesto. Silas House scruta con una lente che a volte è microscopio e a volte binocolo: la prospettiva passa dall’infinitesimo (persino le pieghe del pelo arruffato di Seamus) al panoramico, dalla rarefazione delle emozioni travolte dal disastro dell’umanità alla distesa dei paesaggi che incombono. Nelle pieghe dei contrasti solo Lark riesce a intravedere un significato: “L’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti era l’occasionale sorpresa di una bellezza tra tanta desolazione: il giallo stupefacente delle ginestre, il verde brillante delle rocce muschiate nei ruscelli impetuosi, i cieli grigi, il mare agitato, i muri di pietre sgretolati”. Lo stesso movimento riguarda i ricordi, il passato e il presente che si alternano a ondate nel racconto di Lark. Prima e dopo, finché una volta arrivati, Lark riflette: “La nostra è stata una storia felice, perché eravamo insieme. Ci aspettavano giorni di fame e di miseria. Giorni in cui dovevamo ricominciare tutto da capo. Ma non ci siamo arresi. Abbiamo vissuto. Giorni di festa e di lutto. Periodi di quiete e di fuoco, di nuvole temporalesche e cieli talmente azzurri da scatenare quella malinconia che si prova quando si assiste alla bellezza. Giorni di semplice sopravvivenza. Ma c’erano giorni di meraviglia”. Se proprio servisse una canzone come sigla finale ci vorrebbe, giusto per restare allineati alle canzoni del “prima”, Not Dark Yet di Dylan, quando dice “non ricordo neppure da dove fuggivo, quando sono caduto qui” e, va da sé, “non è ancora buio, ma presto lo sarà”. Si sopravvive soltanto nell’immutato ricordo dell’amore. Nell’ombra restano i fondamentalisti, i soldati, i banditi, i predatori, gli sbandati. Nessuna pietà, ma attenzione, non è una proiezione del futuro, sembrano le notizie di ieri.
giovedì 5 ottobre 2023
Stephen King
Bisogna dare atto all’inarrestabile catena di montaggio di Stephen King di mantenere ogni volta, in mezzo al dispendio di un gran mestiere, un barlume di sorpresa. Per esempio, qui si sa già fin dall’inizio chi sono i colpevoli, Roddy e Emily Harris, professori universitari con una missione perversa per cui la suspense è tutta dedicata a un lungo lavoro preparatorio che occupa tre quarti abbondanti della storia. Anche Holly è una vecchia conoscenza nei romanzi di Stephen King: un personaggio che si è guadagnato via via una posizione di rilievo, la ricordiamo almeno in The Outsider, e che qui diventa protagonista assoluta. È una figura femminile con tutta una serie di riserve e idiosincrasie, accentuate dalla pandemia, e quando è coinvolta nel caso di una ragazza scomparsa, incrocia la sequenza di altre sparizioni che, giocoforza, conducono all’antro senza speranze dei coniugi Harris. La collezione di indizi arriva per intuito, per deduzione, per supposizione e Stephen King è nel suo elemento nel mettere insieme i dettagli della vita della smalltown che Holly attraverserà in lungo e in largo. Presentata fin dall’incipit, la cittadina del Midwest, come tante altre della provincia americana care a Stephen King, è il territorio ottimale con cui riesce a disporre e a descrivere di tutti i componenti essenziali, come ammette nella nota conclusiva: “Credo che la narrativa sia credibile al massimo grado quando coesiste con eventi, individui, perfino nomi di prodotti che appartengono alla vita reale”. Su questo Stephen King ci ha costruito una carriera e una fortuna e tra i dettagli vanno aggiunte le canzoni di Bob Dylan della J. Geils Band, di Otis Redding, o Bruce Springsteen lasciate scivolare con nonchalance, ma senza che abbiano un vero impatto sul racconto in sé. La ricostruzione dei rapporti, dei particolari ambientali e, in definitiva, della vita quotidiana è lo sforzo maggiore, per quanto una pratica costante nel catalogo di Stephen King. Ci si dedica con scrupolo, anche eccessivo, ma infine il quadro è ancora quello lì: il bowling, l’università, i parchi e il lago, i quartieri residenziali, i ragazzi sullo skate, i parcheggi, compongono una specifica topografia che sembra indicare quanto sia importante l’ambiente nel determinare ogni passaggio del caso da risolvere. In effetti, Holly perlustra un po’ tutti i luoghi in cerca di una traccia risolutiva (qualcosa troverà, va da sé), e sarà proprio una rudimentale mappa a fornire una parziale soluzione, ma le funi dal cielo, come le chiamava il suo mentore, Bill Hodges, forse sono un po’ troppe. C’è molto movimento nell’inseguire l’intuito e si capisce che Stephen King abbia voluto creare un’atmosfera, più che affidarsi ai cliché. Holly è al centro di una rete di amici, colleghi, compagni di avventure e sono proprio loro a convergere verso l’epicentro della criminale follia. Non tutto andrà per il verso giusto e Holly rischierà molto (anche se non è la prima volta). La struttura funziona, ma è un po’ risaputa e l’assenza dell’elemento sovrannaturale si fa sentire. Per quanto pericolosa, la coppia dei tragici vecchietti non è nemmeno inedita e dietro il loro uso dell’antropofagia c’è tutto il tema della credibilità scientifica messa in discussione nel periodo della pandemia in cui è ambientato il romanzo. Volendo, il cannibalismo suona un po’ come una metafora di una gerontocrazia vampiresca che si nutre dei propri figli, ma questa è soltanto un’ipotesi remota, dato che Stephen King si concentra soprattutto sui legami tra i personaggi, lasciando intuire che abbiano un futuro prossimo venturo, ma non si può svelare molto di più. Il finale è avvincente perché Stephen King sa come prenderti alla gola e avvinghiarti alla storia quando gli eventi precipitano, però per arrivarci ci vuole un bel po’ e nel frattempo bisogna accontentarsi di ritrovarsi più o meno negli stessi posti. A volte può essere un piacere, a volte no.
mercoledì 4 ottobre 2023
Cormac McCarthy
Quasi implodendo, tutti i personaggi che affollavano Il passeggero si riducono ad Alicia Western, matematica e paziente, e Michael Cohen, il medico che l’accoglie nella struttura psichiatrica di Stella Maris nell’ottobre del 1972. Questa riduzione ha qualcosa di ineluttabile (“Non sono qui per fare un esperimento. Posso girarla come mi pare ma alla fin fine qua sto”) perché “chi più chi meno siamo tutti un collage di ricordi” e le proiezioni di Alicia che l’accompagnavano fin dall’infanzia sono diventate troppo ingombranti, tant’è che “la cura non riesce mai a stare al passo con il bisogno”. Più che un dialogo, pare un’intervista, o un interrogatorio: lei ammette di avere “conversazioni clandestine con dei personaggi a quanto pare inesistenti” e che i miraggi che l’hanno circondata fluttuano inafferrabili e incomprensibili dato che “le figure oniriche mancano di coerenza. Ne intravedi dei pezzi e il resto ce lo metti tu. Un po’ come col punto cieco. Mancano di continuità. Si tramutano in altri esseri. Senza contare che il paesaggio in cui si muovono è un paesaggio onirico”. Si capisce che la stramba umanità che agitava Il passeggero era fatta della sostanza dei sogni di Alicia e nella discussione senza sosta con Michael Cohen (Stella Maris è fatto soltanto del loro dialogo) vengono affrontati i risvolti morali del progetto Manhattan, la natura della realtà (“Le nostre convinzioni circa la natura della realtà devono anche rispecchiare i limiti con cui la percepiamo”), gli assoluti della matematica e della geometria, Shopenauer e Kant, Wittgenstein e Montaigne, Euclide e Anassimandro, Freud e Jung, Gödel e Darwin. Non è una passeggiata e si procede per tentativi: “Credo si parta dall’immaginario. Poi si inizia a fare sul serio e si tira fuori l’atlante”. È soprattutto la filosofia ad attrarre l’attenzione dei due e a fornire i principali spunti di conversazione, fino alla definizione che “se il mondo è di per sé un orrore allora non c’è niente da aggiustare e l’unica cosa da cui potremmo essere protetti è la sua contemplazione”. Sorprende che in un libro così erudito e impegnativo Cormac McCarthy si adegui a una svista, peraltro molto comune, attribuendo a Platone la frase “solo i morti hanno visto la fine della guerra” che in realtà è di George Santayana, ma questo trascurabile episodio vale appunto a ricordare che “le parole sono cose che abbiamo inventato”, e tendono a sfuggire al controllo. È naturale ricordare che “l’arrivo del linguaggio è stato come l’invasione di un sistema parassitario”, ma anche questo l’aveva già detto William Burroughs, un milione di anni fa. La discussione si fa via via sempre più serrata, e sincopata, con un ritmo tambureggiante. La collocazione asettica di Stella Maris è utile a tenere esclusa ogni forma di intrusione o di disturbo collocando ogni frase su uno sfondo livido, preciso, perfetto. Il contrasto è voluto e ricercato con ossessiva convinzione, ma l’insieme resta instabile e Cormac McCarthy tenta una cernita elaborata perché “quello che a noi sembra irrilevante in virtù dell’abitudine è in realtà il concetto fondativo della civiltà. Il linguaggio, l’arte, la matematica, tutto. In ultima analisi il mondo stesso e tutto ciò che contiene”. L’ambizione di Stella Maris, pur con tutti i risvolti che toccano Alicia e Michael, è arrivare a completare una visione, ma in definitiva, “è complicato. Alla fine ci si ritrova a parlare di fede. Della natura della realtà”. Siamo in una twilight zone aurorale, tutto resta sospeso come un immane punto di domanda che Cormac McCarthy riassume così: “Nella memoria degli eventi c’è una sintesi che quanto a realtà non ha niente a che fare con la realtà. Ti risvegli da un incubo con un certo sollievo. Ma questo non lo cancella. L’incubo è sempre lì. Anche dopo che l’hai dimenticato. La sensazione che ci sia qualcosa che non hai capito continuerà a perseguitarti a lungo”. Bello, difficile e addio.
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