Nella fotografia del 29 gennaio di un anno bisestile e singolare, Patti Smith è ritratta seduta come la madre, un po’ di traverso sulla sedia, il volto appoggiato a una mano, lo sguardo perso nel vuoto, “senza pensare a niente”. C’è voluta una vita intera per capire cosa fosse quel “niente”, una sterminata galassia in cui si è proiettata puntando al futuro e “rispecchiando il passato, la famiglia e un’estetica personale coerente”. Il senso di A Book of Days è tutto nel tentativo di isolare un almanacco fotografico di ricorrenze, anniversari, compleanni in omaggio alla band e al suo inner circle, alle sue fonti di ispirazione, alle influenze e ai punti di riferimento. È anche un elenco di personaggi, una collezione di ritratti che Patti Smith ha messo insieme nel corso del tempo indefinito della pandemia, quasi a voler mantenere vivo un contatto speciale e a rimanere vicina ai suoi sogni in un momento, per lei come per tutti, che aveva la stessa energia e vacuità di un buco nero. Per chi segue da un po’ Patti Smith ci sono istantanee che ci sono già state proposte, e più di una volta, e lei stessa non ne fa mistero: “Le immagini in questo libro sono Polaroid già esistenti, foto del mio archivio e foto scattate con il cellulare. Scelta singolare per il ventunesimo secolo”. Ritroviamo Robert Mapplethorpe e William Burroughs, New York (prima e dopo l’11 settembre: “Ci inchiniamo per ricordare i defunti, poi ci alziamo per abbracciare i vivi”) e Big Sur, Bob Dylan e Jerry Garcia, Parigi e Firenze. Le reiterazioni fanno parte delle tappe di una viaggiatrice instancabile, curiosa, predisposta a cogliere nel ricordo un’occasione per rivedere, e reinterpretare, a dispetto delle circostanze avverse. Gli appunti di viaggio gli regalano “la soddisfazione di essere in movimento, anche quando non ci si muove” e i pellegrinaggi, reali o immaginari che siano, sono sottolineati da didascalie brevissime, limitate, minuscole, sempre accorate, a volte leggere e minimali, altrimenti più taglienti e approfondite. Contengono comunque tutto il tempo di Patti Smith: il resto sono i suoi scatti passati dalle Polaroid al cellulare, come ormai era inevitabile, che dipanano una volta di più l filo sottile che unisce un’inquadratura all’altro, giorno dopo giorno che poi è quell’afflato verso l’arte e tutto ciò che può rappresentare un stimolo verso la bellezza. Patti Smith ammette: “Mi sento a mio agio con la storia e ripercorro i passi di chi ha realizzato opere che mi sono state di ispirazione”, e questo è un po’ il motivo fondante di A Book of Days e potrà apparire strano che tra lapidi e lutti, lo consideri “un luogo di conforto” ma è perché scrittori, letture, visioni, artisti, ricordi famigliari toccano luoghi e coordinate che rappresentano tutte le esperienze artistiche. L’ordine è casuale e comprende la casa di Rimbaud, un coltello di Sam Shepard, la chitarra di Kevin Shields dei My Bloody Valentine e poi Joan Baez, Akira Kurosawa, Martin Luther King, Borges, John Coltrane, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Werner Herzog, Rimbaud, Baudelaire, Beckett, Jimi Hendrix, Hank Williams finché parlando di Goethe Patti Smith arriva a concludere che “le grandi opere ispirano, il resto sta a noi”. Poi c’è solo il “niente”, ma quello è un altro discorso.
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