Visto che si comincia dal Vietnam, le “obiezioni morali” sono rimosse, a priori e senza tanti complimenti. C’è una sostanziosa partita di eroina da smerciare, un’idea di Converse, reporter inconcludente e con un sensibile fiuto per i disastri, che si giustifica così: “Abbiamo versato lacrime per l’oltraggio alla dignità umana, e quindi possiamo dire quel cazzo che vogliamo”. Quello è il punto di partenza e la storia di Dog Soldiers è annodata a quel carico, come incatenata a un macigno lanciato nell’oceano. Converse lo affida a Hicks, che dovrebbe portarlo alla moglie, Marge, e, fin dal loro incontro, con “quel senso di indolenza tipico di Los Angeles”, non c’è più niente che funzioni. Come tutti i migliori loser l’unica prospettiva è la fuga, ma si capisce subito che, così come la loro improvvisata relazione, è senza speranza. Appena partiti Hicks osserva: “A sinistra la merda di Los Angeles. A destra solo il vento. L’esercizio si chiama Percorri la tua strada fino a schiantarti”. Viva la sincerità: il senso unico impone a Dog Soldiers l’andamento serrato di un road movie, dato che “dopo tutto era la California, e non c’era nulla, dal suicidio all’insurrezione civile, che si potesse portare a termine senza macchina”. La droga che gronda dalle pagine (non solo l’eroina, ma anche cocaina, anfetamine, pillole, siringhe, overdose, di tutto) in quantità illimitata determina condizioni allucinanti e deviate. Si rischia la vita ad ogni passo e il paesaggio appare indefinito in una spessa nebbia, dove ogni personaggio di Dog Soldiers sembra inseguire la propria ombra. Non c’è un posto dove andare e Marge e Hicks si rifugiano in una comune gestita dal guru Dieter e dal figlio Kjell. Per Hicks è una sorta di ritorno a casa, non privo di valenze simboliche quando dice a Dieter: “Non si può vivere solo di pesca alla trota e luci stroboscopiche. Abbiamo dei vecchi doveri da rispettare”. Preso atto della citazione di Richard Brautigan, la scelta di rintanarsi lì risulta ovvia e maldestra, essendo l’unico luogo che potrebbe accoglierli, e infatti si ritrovano ben presto inseguiti e circondati. Intorno ai due chili di eroina, che sono l’oggetto del desiderio di tutti, si mobilitano outsider di prima categoria, che non badano ai mezzi per raggiungere ai loro scopi (in realtà soltanto uno: scoprire dove è finita la roba). Una delle figure più ambigue, Antheil, dice a Converse, ormai vittima del suo stesso piano: “Eccome se sei nei guai, amico mio, e pure quella matta di tua moglie. Se agisci in buona fede c’è la possibilità che ti salvi la vita. Se mi prendi per il culo ti guarderò morire”. Questo è il clima e la discesa negli inferi collima con l’evoluzione (anche metaforica) dalla desolazione urbana alle foreste fino al deserto, che incombe dall’inizio e presenterà il conto alla fine. Il punto di vista di Robert Stone è a distanza ravvicinata, per non dire a bruciapelo. Sposta spesso l’attenzione su un personaggio o sull’altro, passando da Converse a Hicks (e Marge) mentre il tentativo di smerciare l’eroina deraglia, come un’ennesima follia californiana. Un’ottica cinematografica che porta a vedere i movimenti e le azioni di protagonisti che hanno “bisogno di motivazioni”, e sono solo la voce di una disperazione diffusa. D’altra parte Dog Soldiers evidenzia, in modo inequivocabile, le fallimentari condizioni mentali dei delinquenti e quelle generali della California dell’epoca che, se è punteggiata dalle canzoni di Bob Dylan, Johnny Cash, dei Creedence e di Ray Charles, rivela un lato oscuro e deprimente, violento e noir, come se fosse una ballata di Warren Zevon. E per una serie di coincidenze (un altro triangolo irrisolto, un altro reduce, un’altra missione senza senso e altre strade imbottite di roba) l’atmosfera di Dog Soldiers (1974) collima con quella di Un buongiorno per morire di Jim Harrison (1973). Infilateli uno accanto all’altro e avrete il miglior ritratto della dissoluzione americana di quegli anni.
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