venerdì 30 luglio 2010
Charles Willeford
Kurt Vonnegut
Theodore Sturgeon
Nella migliore della tradizione dei romanzi di Theodore Sturgeon, il protagonista è un freak, un diverso, un alieno per quanto umanissimo nel dolore, nell'emarginazione, nella sua solitudine. Il suo nome è George Smith, ma con il consueto gusto di richiamare immagini inequivocabili lo scrittore americano gli impone il nome d'arte di Bela, come Bela Lugosi, l'impersonificazione stessa dell'orrore. La necessità quotidiana di Bela la si può magari intuire tra il suo nomignolo e il titolo stesso del romanzo, ma Theodore Sturgeon è uno scrittore troppo acuto per mettere tutto in tavola con la prima portata e allora costruisce l'identikit di Bela (che ha una personalità succulenta per qualsiasi strizzacervelli) per gradi, cominciando un po' defilato, ovvero dal carteggio di due analisti dell'esercito americano che si ritrovano a discutere di un caso particolarmente incredibile di deformazione mentale. Inutile aggiungere che il nocciolo della loro discussione epistolare è proprio Bela, che viene riconosciuto malato (“psicosi, non classificata”) e identificato quale “pericoloso, violento” per un semplice pugno proprio nel mezzo di una guerra. Non è chiaro di quale guerra si stia parlando anche se alcuni dettagli suggeriscono possa essere il conflitto coreano, ma non è questo il punto, perché una guerra non manca mai. Il vero oggetto del contendere è la biografia di George Smith e soprattutto i motivi per cui la sua esistenza non s'incastra con la disciplina dell'esercito e, più in generale, nell'ordine o nel caos del mondo. Si scoprirà che George Smith alias Bela è più a suo agio tra gli alberi e gli animali (memorabili le pagine in cui Theodore Sturgeon descrive la sua attitudine alla caccia) e più in generale nella wilderness americana. Ci si inoltrerà in un'intelligenza istintiva che coltiva la sopravvivenza come un'arte quotidiana e una somma di esperienze a lunga scadenza (“Si rese conto che tutto ciò che vive nel mondo assimila delle cose in sé poi le elabora e poi elimina quello che non gli serve. Qualunque cosa stia facendo, un essere vivente si mantiene in vita grazie a questo processo. Assimilare e poi elaborare e poi eliminare gli scarti”). Sarà una sorpresa vedere Bela accettare comodamente le rigidità della disciplina, prima in un riformatorio e poi nell'esercito, perché almeno garantiscono un piatto caldo. Sono dettagli fondamentali perché come molti personaggi di Theodore Sturgeon anche Bela comunica con una varietà di sistemi (non ultima la sua abilità manuale), ma sembra scansare il normale linguaggio perché, sembra di intuire, è la prima causa della sua e nostra solitudine. Le parole non bastano ad alimentare l'anima: è solo finzione dice Theodore Sturgeon, però sanguina.
Richard Brautigan
Hubert Selby Jr.
Censurato, bandito, processato e poi spesso e volentieri emarginato, Hubert Selby Jr. ha trovato più spesso asilo e comprensione nell'universo del rock'n'roll che non in quello della letteratura. Per un motivo molto semplice: i bassifondi che ha esplorato, dove “ogni giorno che passa, a ogni passo, a ogni respiro, la città diventa sempre più selvaggia”, sono gli stessi che hanno cantato Lou Reed (che è anche un suo dichiarato ammiratore) e Jim Carroll e Johnny Thunders. La vita in un buco, l'esilio dell'eroina, la frenesia della street life, la disperazione e la follia: girovagare in quel genere di territori implica un coinvolgimento che non è facile risolvere, e poi bisogna mettere in conto che per il novantanove per cento del mondo, è meglio non saperne niente della giornata di un junkie. Hubert Selby Jr., sfidando la maggioranza silenziosa e le sue ipocrisie, nel 1964, già all'epoca dell'uscita di Ultima fermata a Brooklyn aveva colto perfettamente l'atmosfera cupa, violenta e crudele della vita metropolitana. Un giungla dove non c'è fondo, non c'è alcuna possibilità di redenzione, non c'è poesia e è per questo che il suo limite è la sua grandezza. Un linguaggio crudo, monocorde e volgare, che non concede nulla alla metafora o alle aspettative, anche legittime, del lettore. La sua scrittura è una specie di reportage dalle strade di New York, una panoramica ad orecchie ed occhi completamente aperti (e non è un caso che i suoi libri siano arrivani regolarmente al cinema, buon ultimo anche Requiem per un sogno), senza aver paura di cosa si possa sentire o vedere. Una discesa negli inferi che ha in Requiem per un sogno uno dei suoi capitoli più importanti, perché raccontando i tortuosi percorsi di Harry, Tyrone, Sara e Marion, la loro rincorsa alla dose quotidiana, i sogni bagnati di sudori freddi e la violenza di tutto il sottosuolo umano (dagli spacciatori ai poliziotti) che gli sta attorno, Hubert Selby Jr. tocca con mano la decadenza, la spirale verso il nulla della dipendenza e della vita nella parte sbagliata della strada: “Era un processo graduale, come la maggior parte delle malattie, e il loro insaziabile bisogno riusciva a fargli ignorare molto di quello che accadeva, distorcene dei pezzi, e il resto accettarlo come parte della vita. Ma ad ogni giorno che passava la verità era sempre più difficile da ignorare, e allora la loro malattia, con un meccanismo istantaneo e automatico, la razionalizzava e ne restituiva una distorsione accettabile”. Ai suoi personaggi non resta che “aspettare di vivere”, mentre la loro esistenza (che è difficile chiamare vita) arriva infine a destinazione, in carcere o al manicomio, un passo prima del capolinea definitivo. Una lettura impegnativa, ma doverosa.
Elia Kazan
lunedì 26 luglio 2010
Rick Moody
“Ad un certo punto, verso la fine del 1986, ho cominciato a immaginare questo gruppo di sbandati. La mia idea, nella sua forma più semplice, era scrivere di chi torna a casa dopo il college senza avere la minima idea di cosa vuole fare. E' chiaro che tutto questo aveva anche molto a che vedere con il posto dove abitavo allora: Hoboken, nel New Jersey (...) Insomma, l'idea era questa, creare una versione stramba e leggermente surreale delal Repubblica Popolare di Hoboken": così Rick Moody raccontava a David Ryan la genesi di Cercasi batterista, chiamare Alice, il suo romanzo di esordio. Ed è la musica, che giustamente il titolo italiano rimette in primo piano, a dare il tempo e a disegnare gran parte del cupo paesaggio. I Feelies di Crazy Rhythms (soprattutto), gli Yo La Tengo, i Silos sono le fonti di ispirazione di un giovane e ancora piuttosto disorientato Rick Moody, oggi narratore riconosciuto ma allora outsider come tanti suoi coetanei del New Jersey. Un luogo per cui Bruce Springsteen ha fatto di tutto nel tentativo di elevarlo dal grigiore e dalla decadenza provinciale e che invece Rick Moody, in quello che è il suo esordio, racconta con una disillusione che si spiega in immagini livide, in un ritmo indolente perfetto per spiegare quel'atmosfera per cui “Ovunque fossi ti sembrava che le cose andassero meglio altrove. Ovunque fossi sentivi questa fame di un po' di semplice conversazione”. Difficile in un territorio dove la linea d'ombra dell'adolescenza ha tre quarti su quattro di possibilità di essere varcata nel mondo sbagliato. Da Alice in giù, tutti i personaggi di Garden State cercano di salvarsi aggrappandosi gli uni agli altri (quando riescono) oppure proprio alla musica che è sempre dura, metallica, aspra, sghemba e disperata o, come scrive lo stesso Rick Moody, “Forse era solo il suono della vita vera, della gente di provincia che entrava e usciva dalle situazioni più umane e banali”. Qui non bastano i famosi tre accordi e una verità: i gruppi stanno insieme per fuggire il vuoto della periferia che ad ogni istante prova in un modo o nell'altro ad inghiottirli. Rimangono pochi margini di elevazione, anche se Rick Moody non nasconde un minimo indispensabile di dignità, come racconta in uno dei passaggi fondamentali per comprendere il senso di Cercasi batterista, chiamare Alice: “Nessuno era diventato quello che si aspettava di diventare, ma nessuno si era ridotto neanche troppo male, se in quel decennio essere persone a posto significava avere un minimo di sincerità e non desiderare la roba né il posto degli altri”. Anche per questo, Cercasi batterista, chiamare Alice è un romanzo crudo, più che acerbo, e se si vuole andare in profondità al tema, è più che utile rileggere La terra desolata dei teenagers, un reportage di Donna Gaines che, scandagliando un territorio contiguo al New Jersey di Rick Moody, ha scoperto il lancinante dolore di chi non riesce trovare un posto ai sogni, ai desideri e alle speranze.
domenica 25 luglio 2010
Wallace Stegner
mercoledì 21 luglio 2010
Jim Thompson
Lou Ford, il feroce protagonista di The Killer Inside Me ovvero L'assassino che è in me, è il personaggio più noto della trentina di romanzi che Jim Thompson ha scritto nella sua tormentata e variopinta esistenza. Attraverso il suo volto e il suo carattere, L'assassino che è in me è destinato a diventare un classico della letteratura americana, prima o poi. Per i lettori più attenti alla sostanza che alle formalità, probabilmente lo è già per la sua cruda essenzialità, per le visioni cupe e spietate, per l'universo di loser che Jim Thompson ricostruisce con maniacale e ossessiva attenzione. Lou Ford dovrebbe stare dalla parte della legge e invece sfrutta la sua posizione (essendo un vicesceriffo) per coltivare il killer che ha dentro. Si muove a scatti, tra esplosioni inaudite di violenze e lunghe assenze, dove la sua mente vaga senza meta, in attesa della follia successiva. La grandezza di Jim Thompson, qui soprattutto e poi negli altri romanzi, è tutta nella ricostruzione di questi processi: azione e reazione, assassini e vittime, colpevoli e innocenti, dentro e fuori. Leggendolo e rileggendolo è facile capire perché L'assassino che è in me abbia affascinato due o tre generazioni di rock'n'roller (tra l'altro i Green On Red gli dedicarono un intero album intitolandolo proprio The Killer Inside Me, ma c’è stato anche un gruppo che ha scelto di chiamarsi proprio Lou Ford). Gli improvvisi sbalzi di ritmo e d'atmosfera, l'essere coscienti di stare dalla parte sbagliata della strada senza molte alternative (e come scrive Jim Thompson: “comunque le persone sono sempre persone, anche quando vanno a finire un po' fuori strada”), avere il coraggio di guardare anche nei lati oscuri della vita e sapere che le porte dell'inferno sono sempre aperte (“Vivendo in un mondo di valori sottosopra e in costante tentazione, un ragazzo poteva finire facilmente in guai seri e di lunga durata. Per sopravvivere in quel mondo doveva essere molto, molto fortunato e avere un discreto grado di intelligenza” raccontava Jim Thompson nella sua autobiografia) sono condizioni comprensibili, se non proprio condivisibili, per chi ha masticato un po' dei gerghi della varia umanità del rock'n'roll. Detto questo, L'assassino che è in me (o The Killer Inside Me, se suona meglio) è e resta un capolavoro e a Jim Thompson, va sempre accordata la precedenza. Per affinità, per il sapore noir forte e graffiante della sua voce e perché, in fondo e con molta semplicità, è un grande scrittore.
martedì 20 luglio 2010
Robert Sabbag
venerdì 16 luglio 2010
Douglas Coupland
Douglas Coupland ha avuto la fortuna a doppio taglio di indovinare o, meglio, di percepire l’umore vago e plumbeo di una generazione assolutamente indefinibile e di fargli trovare posto in un libro un po’ strano e molto interessante, Generazione X. Sorta di diario di bordo esistenziale di una gioventù senza tempeste, ma anche senza pace, Generazione X ha colto nel segno diventando in rapida successione un archetipo, uno slogan e persino un modo di dire. Merito dell’abilità narrativa di Douglas Coupland che allora si limitava ad un rapido e furbesco assemblare per immagini che poi ha cercato di evitare. Un cliché, a suo modo, che, come il successo di Generazione X, rischiava di imprigionarlo nei confini di autore generazionale o giovanile. Questa, almeno, era l’impressione che emergeva da Generazione Shampoo (che già nel titolo tentava di ripetere l’exploit di Generazione X) e successivi ma che poi Douglas Coupland ha saputo fugare con La vita dopo Dio e soprattutto con Microservi. Se il primo era una raccolta di frammenti non privi di una loro dignità, Microservi rappresenta un tentativo parzialmente riuscito ma avvincente, di accostarsi al romanzo in forma più tradizionale. La trama è abbastanza semplice, ma coerente: in fuga dal paradiso impiegatizio della Microsoft, dove tutto, in apparenza, è troppo perfetto, un gruppo di amici si trasferisce in California, dove sceglie di mettersi in proprio. Sono tutti operatori informatici e vicende sentimentali, familiari e professionali si intersecano in continuazione fino a un finale amaro ma decisamente in linea con la storia. Di più c’è il salto di qualità di Douglas Coupland: in Microservi ci sono personaggi, caratteri, personalità. C’è un continuo richiamo ai nodi focali della vicenda (gli affetti, il lavoro), come se si volessero continuamente precisarne i contorni. Tanto che, a tratti, Microservi sembra una sceneggiatura fin troppo particolareggiata. Invece è veramente un bel romanzo a cui manca ancora qualcosa: Douglas Coupland potrebbe lasciar perdere certi rimasugli minimalisti, non dovrebbe aveve paura di affrontare temi mitici (il viaggio da Seattle alla California è liquidato senza colpo ferire, mentre avrebbe più di un simbolo da offrire alla storia) e tipicamente americani (anche se qualche apprensione è comprensibile, visto che è nato in Germania e vive in Canada) e sarebbe un ottimo scrittore, quello che, a tratti, e senza indecisioni, emerge davvero in Microservi.
Kinky Friedman
lunedì 5 luglio 2010
Malcolm Lowry
Malcolm Lowry è stato un magnifico outsider, uno di quei casi più unici che rari di scrittore avulso da mode, ambizioni, salotti e momenti di gloria. La sua forza era quella di seguire un suo personalissimo, straordinario percorso che cercava di annullare, regolarmente, le differenze tra sogno e realtà. Fin dalle prime battute giovanili, come è riportato nella sezione Canti (dove ci sono ricordi e frammenti suoi e di chi l'ha conosciuto; i Salmi, invece sono alcuni tra i suoi racconti): “Ho preso una decisione su un punto soltanto in questa faccenda del vivere, ed è che devo, e devo al più presto possibile, identificare una scena più precisa: devo cioè dare identità a una scena immaginaria mediante la sensazione immediata dell'esperienza realmente vissuta”. Il rapporto tra la fiction della letteratura e la sua vita, vera, fu una costante nell'esistenza di Malcolm Lowry proprio perché non riuscì a districarsi dai suoi personaggi, dalle sue storie, dai suoi eroi e le visse fino in fondo, non soltanto nelle magistrali pagine, ma anche nella sua esistenza. Il suo credo non ammetteva limiti e mediocrità perché “non puoi fidarti di quelli che sono troppo prudenti. Come scrittori o come bevitori. Il vecchio Goethe non può essere stato un uomo in gambo quanto Keats o Chatterton. O Rimbaud. Quelli che bruciano”. Salmi e canti lo riscopre oltre che rispolverando pregevoli parti inedite o quasi (come il racconto Sotto il vulcano, che poi dà il titolo all'omonimo libro), anche nei momenti di riflessione sulla natura vera e propria della sua scrittura ("Quando lavoro ad alta intensità la stesura anche del minimo biglietto spesso mi richiede un tempo incredibilmente lungo, una sorta di aberrazione psicologica dovuta senza dubbio al fatto che l'attenzione narcisistica che talvolta si spende nella prosa ti fa dimenticare che una lettera dovrebbe essere spontanea e al diavolo i punti e virgola, visto che il tuo amico in ogni caso non è quelli che vuole vedere ma è semplicemente interessato alle tue notizie”), in momenti intimi e contraddittori (e si scoprirà che questo grande scrittore non ha mai scritto di suo pugno nemmeno un autografo) fino a leggere tra le pieghe del suo sogno, quel “ti porti dietro il tuo orizzonte ovunque tu sia" che giustamente diventa l'epigrafe finale di Salmi e canti. Un libro bellissimo che, nella sua variegata composizione, non assolve soltanto o scopo antologico, ma rende perfettamente quel “mondo ubriaco che gira follemente” che era la vita, e la scrittura (nessuna distinzione tra le due), di Malcolm Lowry.
Kent Harrington
venerdì 2 luglio 2010
Jim Harrison
Per tre quarti di Un buon giorno per morire Sylvia, Tim e il nostro amabile narratore non fanno altro che bere, impasticcarsi, fumare e mangiare in un viaggio dall’andatura classica (dall’est all’ovest) e dal taglio basso (dal Key West al Grand Canyon). Provano anche ad amarsi, ma le stanze dei motel sono troppo piccole e il triangolo è una geometria decisamente spigolosa. Specie se la compagnia è formata da un veterano del Vietnam (Tim), dal suo piccolo grande amore del’adolescenza (Sylvia) e da un pescatore idealista plurilaureato disoccupato e vagamente autolesionista. Tutti e tre si ritrovano, ed è l’inizio degli anni Settanta, senza avere molto da dire o da fare e, vuoi per un motivo o per un altro, decidono di partire (normale, per essere americani) e di andare a far saltare una diga sul Grand Canyon. Un atto di sabotaggio dovuto perché lo sbarramento (ma, in poco tempo l’idea si allargherà a tutte le dighe degli Stati Uniti) impedisce la risalita delle trote iridate che non possono figliare e quindi, con grande disappunto dei nostri amici, non si possono nemmeno pescare. La trama, adatta ad un romanzo d’azione dai sentimenti ambientalisti (potrebbero essere i Sabotatori di Edward Abbey, per dirne una) non deve trarre in inganno. Il nostro trio di loser non agisce in virtù di uno spirito ecologico, non è legato ad alcun gruppo organizzato (e i risultati, come è facile intuire fin dall’inizio, non tardano), non ha un background tale da giustificare (per quanto sia possibile) il progetto di far saltare in aria una diga. Per loro è un’idea come tante, qualcosa a cui legarsi per non andare giù, verso un fondo che è sempre più vicino. Questa è la prima annotazione da fare su Un buon giorno per morire: Sylvia, Tim e il nostro anfitrione sono degli outsider, degli esclusi. Nemmeno emarginati: proprio buttati furoi da una civiltà che non tollera personalità improduttive, vagabondi, sognatori e disperati di varia forma e natura. L’attualità (cioè l’immediatezza) di Un buon giorno per morire non finisce qui e oltre alla totale confusione esistenziale dei protagonisti offre (e nemmeno tanto tra le righe) un punto di vista molto preciso su cosa voglia dire sognare. Meglio, esige una distinzione nelle tipologie dei sogni: da una parte ci sono quelli offerti dalla televisione (onnipresente, nel romanzo come nella realtà), dai lustrini del country & western alla radio, le ambizioni limitate e limitanti di un lavoro, una casa, una famiglia. Dall’altra parte c’è la fantasia divergente e dissonante di prendere un macchina, riempirla di birra, whiskey e altri additivi chimici per andare a disintegrare una diga. Gli estremi, in quel pasticcio di realtà che è la vita (come scrive Jim Harrison) sono questi e se è vero che la dinamite è sempre un mezzo un po’ troppo risolutivo è altrettanto significativo, come sembra di capire in Un buon giorno per morire, che sogni e miracoli vale la pena di inventarseli da sé, senza stare ad aspettare il pifferaio magico di turno. Last but not least, durante una delle tappe sulla strada Un buon giorno per morire offre una delle migliori definizioni di musica pop che siano mai state scritte. Tagliente, ironica, lucida, come è Un buon giorno per morire.