Nel ricostruire un’identità
credibile della musica folk americana attraverso i Basement Tapes di Bob Dylan,
Greil Marcus traccia anche un ritratto avvincente di una nazione, quella repubblica
invisibile che soltanto le canzoni, i
songwriter e gli storyteller sanno raccontare. O come meglio spiega lo stesso
Greil Marcus all’inizio di La repubblica invisibile: “un’America aperta alla domanda di chi e che cosa
gli americani sarebbero potuti diventare e non da chi e che cosa provenivano. I
meccanismi del tempo, nella musica, non sono consolanti. In quella cantina il
passato è vivo nella misura in cui il futuro è aperto, e ciò accade solo quando
si è portati a credere che il paese sia incompleto o addirittura ancora da fare:
quando il futuro è precluso, il passato è morto. Ancora più misterioso è il
modo in cui il futuro dipende dal passato”. Non è soltanto l'ambito di un disco
fondamentale per il rock'n'roll, The Basement Tapes, quello che scandaglia Greil Marcus, ma tutto il
background culturale ed umano che gli sta dietro, davanti, sopra e sotto. E’
l’America stessa, o quello che scorre nelle sue vene, per dirla con William
Carlos Williams, la protagonista in La repubblica invisibile, un mondo che solo Bob Dylan poteva portare alla
luce con The Basement Tapes e che
forse soltanto Greil Marcus poteva cogliere così bene. In uno degli anni più
caotici che la recente storia dell'umanità ricordi, il 1967, Bob Dylan e cioè
il cantante, il profeta, il simbolo di un’intera generazione, e poi di molte
altre negli anni a venire, la voce della protesta, il poeta per eccellenza e
così via, si ritira tra i boschi di Woodstock e con gli Hawks (che poi
diventeranno la Band) passa le giornate a suonare in cantina. Atmosfera
surreale, felliniana, caotica e scelta in gran parte incomprensibile, ma con
una sua logica, come scrive Greil Marcus nell’epilogo di La
repubblica invisibile: “Quando Dylan,
Robbie Robertson, Garth Hudson, Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm
sparirono dalla faccia del pianeta pop, divenne ancora una volta chiaro come, a
volte, è solo la maschera della distanza, dello scomparire, che ti consente di
parlare, che di dà la libertà di dire ciò che pensi senza dover immediatamente
mettere in gioco la tua vita a ogni tua parola”. In quel luogo e in quello
spazio temporale, Bob Dylan e la Band suonarono ogni sorta di canzone: l’enorme
bagaglio della musica popolare americana venne rivisitato in un sorta di
caotico laboratorio, con Bob Dylan in versione di catalizzatore. Attraverso i Basement
Tapes, Greil Marcus ha tracciato una mappa
di quella repubblica invisibile che è l’America cantata. Un lavoro che offre
uno spettro minuzioso, quasi ossessivo, ad un campo di indagine di proporzioni
immani: tutte le radici della musica popolare americana, i suoi caratteri, le
sue storie, i suoi personaggi vengono ricostruiti sotto la lente di
ingrandimento di Greil Marcus che riesce nello scopo di rendere avvincente un
frammento di storia limitato nel tempo (cioè i Basement Tapes) ma esteso all’infinito (o quasi) nella memoria.
domenica 30 dicembre 2012
sabato 29 dicembre 2012
Jack Kerouac
Jack
Kerouac è un nome che, dal punto di vista letterario, rimanda sempre a lunghe,
infinite e ipersensibili frasi, buttate giù ispirandosi agli ormai famosi
fraseggi di Charlie Parker o Sonny Rollins. L’immagine, nota per i suoi
romanzi, è quella prosaica di uno scrittore che non riesce a staccarsi dalla
pagina e dalle sue parole. Visione ormai un po’ consunta di Jack Kerouac che
non era solo un documentarista esistenziale e autobiografo, ma un autore
completo, capace di destreggiarsi attraverso prosa e poesia e, soprattutto,
all’interno di un bagaglio culturale onnivoro e apparentemente confusionario,
ma cosmopolita e magnetico. Aiuta a vederlo in questa prospettiva Il libro
dei blues, raccolta di
poesia in forma di appunti (o viceversa): non tutto il materiale è inedito
perché parecchie delle liriche derivano da pubblicazioni datate e dai reading
che si possono ascoltare, dal vivo, attraverso The Beat Generation (un bellissimo cofanetto discografico
che raccoglie il meglio della produzione beat e dintorni: oltre a Kerouac, tra
gli altri ci sono Allen Ginsberg, Lenny Bruce e Tom Waits), ma tutte le poesie
valgono per il lavoro che Jack Kerouac ha compiuto sulla forma e sul
linguaggio, diametralmente opposto rispetto a quello utilizzato per i lavori in
prosa. Le liriche raccolte in Il libro dei blues mostrano un Jack Kerouac convinto,
contento, spumeggiante e out of control, a suo agio nella dimensione poetica e
musicale che si adatta su misura alle sue visioni non meno che al suo istinto.
Si tratta di blues nell’accezione più generica del termine perché in realtà Il
libro dei blues è
composto da haiku, frammenti di sogni e di immagini raccolte dall’osservazione
e dalla sensibilità di Jack Kerouac, come spiega lui stesso nella scarna e
illuminante introduzione: “Nel mio sistema, la forma del chorus del blues è
limitata dalla misura delle pagine del notes da taschino su cui li ho scritti,
perciò a volte il senso delle parole può, o no, proseguire da un chorus
all'altro, proprio come il senso della frase musicale nel jazz può, o no,
estendersi armonicamente da un chorus all'altro”. E allora Jack Kerouac si deve
limitare a lasciarsi impressionare da quello che vede e sente, prendendo
appunti su appunti e limando, tagliando, cucendo sfodera versi a tratti
deliranti, a tratti geniali, sempre e comunque ispirati ad una vita senza
vincoli e con un briciolo di pazzia in più a renderla saporita. Sono parecchi i
gioielli sparsi, ma ce n’è uno che vale la pena di riportare per intero, un po’
per esempio e un po’ per rendere onore al suo autore. Si tratta del 40°
Chorus di San Francisco Blues:
“E quando la testa mi comincia a girare, e ridono tutti gli amici, e il denaro
mi casca dalla tasca, e oro dalle mie orecchie, e argento esce volando e
esplodono rubini, salto su & mangio, e canto un’altra canzone, e caccerò
altro vino nella pancia, perché sapete, che ha detto Omar Khayyam, è meglio
stare allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo tutta la
notte, cercando un senso, che non esiste”.
venerdì 28 dicembre 2012
Francis Scott Fitzgerald
Dopo aver vissuto per anni, tutta l’età del
jazz, ben al di là delle proprie possibilità economiche creative ed emotive,
Francis Scott Fitzgerald si trova a fronteggiare la battaglia finale con conti
lasciati in sospeso per troppo tempo. La bolla alimentata con una vena di
romantico abbandono si espande e si gonfia increspando la superficie, una
scintillante evanescenza destinata a esplodere come ogni bolla che si rispetti.
Francis Scott Fitzgerald mette un’ipoteca pesante sulla speranza di una seconda
chance, e all’alba del 1936, le sue condizioni sono così descritte da Kyra
Stromberg in Zelda e Francis Scott Fitzgerald: “Non ancora
trentanovenne, è un uomo stanco, malato, sfinito. Scrivere racconti diventa una
costrizione insopportabile. Si impone di lavorare, aiutato dalla sua mano
felice. Gli argomenti dei suoi testi divengono artificiosi o casuali,
addirittura anacronistici, la scrittura è affrettata. Per la prima volta gli
vengono riproverate imprecisioni stilistiche, anche se Dorothy Parker gli riconosce
che potrebbe anche scrivere cose brutte, ma queste non sarebbero mai scritte
male”. Tutto quello che riesce a mettere insieme, con somma fatica, è la
descrizione del suo fallimento. Non ha altri colpi da sparare e allora rende
spettacolare e infinito, come un attore senza battute che non sa lasciare il
palco, spiegando con Il crollo la forma dell’estremo limite umano, il confine
finale visto che “l’impatto dell’ultimo colpo è stato più violento dei due
precedenti, ma di natura identica: la sensazion di trovarsi al crepusclo in un
poligono di tiro deserto, con un fucile scarico in pugno e i bersagli
abbattuti. Nessun problema in vista: semplicemente un silenzio, e come unico
rumore il mio respiro”. La micidiale convergenza di malattia, disillusione (“La
condizione dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta”),
stanchezza e solitudine lo porta a paragonarsi a una stoviglia inutilizzabile,
dato che “quello che aveva davanti non era il piatto ordinato per i suoi
quarant’anni. In realtà, dato che lui e il piatto erano una cosa sola, si è
descritto come un piatto crepato, di quelli che non sai se valga o no la pena
conservare”. Il crollo non fa che certificare l’impossibilità di una via d’uscita:
“attenzione, fragile” è la dicitura che, nel marzo 1936, inaugura la parte
finale ed è un grido accorato, sentito, scomodo, lancinante, vero, e ossessivo.
E’ la confessione di un fallimento a più strati che scalfisce anche la natura
più intima dello scrittore che “non ha bisogno di certi ideali, a meno di non
crearseli da solo, e il qui presente ha smesso”. Anche se sta lavorando a Gli
ultimi fuochi,
uscito ormai postumo, Il crollo sarà il suo epitaffio, accolto con
costernazione anche dagli amici più vicini come Hemingway e John Dos Passos.
Zelda, la Costa Azzurra, le canzoni di Cole Porter sono lontani ricordi ormai
offuscati da “troppe lacrime, troppa rabbia” e per dirlo con Walt Whitman,
Francis Scott Fitzgerald si trova in un angolo dove “il luogo è augusto, le
circostanze avverse”.
martedì 25 dicembre 2012
Chuck Klosterman
Cosa può fare un ragazzo del North Dakota, dove
la massima eccitazione quotidiana è la discussione sulla potenza del motore dei
trattori, e l’inverno occupa tre delle quattro stagioni che dovrebbero
susseguirsi nell’anno? Se poi è uscito di casa per la prima volta nel bel mezzo
della guerra fredda cosa gli rimane? “Poteva succedere di tutto, e forse prima
o poi sarebbe successo, ma non sarebbe cambiato nulla. Nessuno sembrava
preoccuparsi troppo per il gran numero di testate nucleari che i sovietici ci
puntavano addosso: per quanto ne sapevo io, eravamo sull’orlo della guerra
ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, ma questo faceva
parte dell’essere americani” ammette con un certo candore Chuck Klosterman
nelle prime pagine di Fargo Rock City ed è chiaro che quando gli capita in mano un
nastro con Huey Lewis da una parte e un colata incandescente di heavy metal
dall’altra non c’è partita. Come capita sempre, come è capitato a tutti
(conosciamo molto bene quella sensazione) all’improvviso Chuck Klosterman,
comincia a sentirsi meno solo e meno alieno. Sa che le immagini dell’heavy
metal e del rock’n’roll sono costruite dettaglio per dettaglio ma, per sua
ammissione, è “troppo stupido per essere influenzato dalla follia del
marketing” e si concede, così come concede a tutti noi, il beneficio di aver
trovato qualcosa nella musica (e non solo nell’heavy metal) che “non aveva
niente a che fare con le cose di cui si parlava, il suo significato era quello
che tutti potevano dargli”. Fin qui, le fondamenta di Fargo Rock City sono solidissime e
concrete soprattutto perché la traballante apologia dell’heavy metal più
posticcio e banale, dei luoghi comuni più elementari e consunti e dell’idea che
anche entità come Mötley Crüe o Guns N’ Roses possano assumere valenze che
forse nemmeno i loro componenti riconoscerebbero, risulta immediata e
simpatica. Quello che succede addentrandosi in Fargo Rock City è che Chuck Klosterman
riempie il serbatoio fino all’orlo di heavy metal, poi parte per la tangente
frullando senza tante esitazioni i suoi excursus autobiografici con le vicende
dei Van Halen o degli AC/DC, con le logiche (piuttosto meccaniche)
dell’industria discografica, con i riflessi sociologici dell’alienazione nella
provincia americana e spruzzando tutta la miscela con un sarcasmo effervescente
e senza inibizioni. Il colorito ibrido che alla fine si cela dentro Fargo
Rock City
si regge sulle gambe come il frontman di un gruppo heavy metal alla fine di un
tour worldwide. Non cade, però Chuck Klosterman sente la necessità di precisare
le sue intenzioni, neanche stesse firmano una resa: “Vi starete chiedendo
perché adesso stia parlando di tutto questo, e la risposta è che lo ritengo un
esempio perfetto per mostrare quanto sia importante la percezione delle cose,
che poi è il punto di partenza da cui costruiamo il contesto delle nostre
vite”. Lo stile va su e e giù a birra e tequila (e ci sta), ma Fargo Rock
City è
molto più saggio (e rock’n’roll) di quel che appare.
venerdì 21 dicembre 2012
John Updike
Con
uno sguardo a volo d’uccello, come se sfiorasse appena le storie
che racconta, John Updike mette insieme una ventina di bozzetti di
vita americana, lontano dai clamori metropolitani e televisivi, che
mostrano un’umanità ben diversa da quella a cui ci hanno abituato
le cronache quotidiane. Forse, se l’elegante scrittura di John
Updike non inganna, persino migliore. Tutte concentrate nell’ambito
famigliare (per quanto divorzi o separazioni tendano a ridurre gli
spazi) le esistenze dei personaggi di Fratello
Cicala sembrano
leggermente spostate rispetto all’asse dei miti e dei luoghi comuni
dell’America di oggi. C’è un calore umano, una ricerca del
focolare casalingo (i racconti sono curiosamente popolati di camini
in cui arde legna odorosa), un costante tentativo di riallacciare i
rapporti con il passato, con un passato che sembra nascondere ancora
soluzioni e alternative, forse anche perché “nessuno ci appartiene
tranne che nel ricordo”. Il presente è relativo: i grandi drammi
della nostra epoca, la complessiva e generale perdita di identità
data dall’assuefazione al mezzo televisivo (e alla tecnologia in
genere) restano sullo sfondo, vengono messi in sordina. Una scena
particolarmente efficace descrive questa situazione in L’uomo
che era diventato soprano,
quando i membri dell’improvvisata orchestra di flauti dolci che è
al centro dell’attenzione si ritrovano a suonare “anche se le
notizie del giorno avevano annunciato qualche sciagura (un massacro a
Beirut, l’esplosione del Challenger)” e persino “durante la
settima partita dei Red Sox per le World Series, il cui andamento gli
uomini avevano controllato ogni tanto sul televisore che
chiacchierava con se stesso in cucina”. La scrittura di John Updike
è questa: piccoli dettagli incastonati in storie semplici, legate
indissolubilmente al quotidiano, sottili segnali che raccontano
tutto. Un modo di interpretare la letteratura fuori dalle righe:
affiora soltanto una fugace citazione da Henry James, ma il vero
centro dell’attenzione, nelle short stories di Fratello
Cicala,
sono loro, i vari Billings, Maple, Jessup, Whittier, Weiss, Eggleston
chiamati per cognome, come a sottolineare l’appartenenza ad una
famiglia, o almeno a un’unità, i veri, assoluti protagonisti.
Uomini e donne che hanno più da ricordare che da inventare, e che si
ritrovano a combattere il dolore, a conoscere la morte e a guadare i
travagli della vita cercando soluzioni con l'unico strumento che
all’umanità è concesso in più rispetto al resto del mondo. E’
la parola, cerca di convincerci John Updike, la sola possibilità di
redenzione, o di peccato, volendo, e non è difficile lasciarsi
coinvolgere e dargli ragione, leggendo i racconti di Fratello
Cicala.
E non è tutto, perché in alcuni punti (a partire da Viaggio
nel regno dei morti)
il lirismo di John Updike raggiunge vertici in cui l’unica chance
di comprensione è offerta dal territorio delle emozioni, una zona
che viene sensibilmente messa alla prova da queste illuminate short
stories.
Jim Harrison
Questa
trilogia di racconti di Jim Harrison che risale al 1994 comincia con un altro
personaggio femminile che sembra nascere sulla scia di Dalva, quella Julip che offre anche il titolo alla raccolta.
Bella, caparbia, pronta a tutto e con una missione impossibile: far uscire
dalla galera il fratello che ha sparato ai suoi tre amanti. Deve essere un tipo
impulsivo, “ma essendo un sentimentale lui aveva sempre cercato di arrivare al
cuore di qualcosa che in genere un cuore non l’aveva”. Evidentemente, per guadagnarsi
il titolo su una copertina di Jim Harrison serve questo e altro. Lo stesso
discorso vale per il ritrovato Brown Dog (già protagonista dell’omonimo
racconto in Società Tramonti)
e per Philip Caulkins, l’anglista in disgrazia di Beige Dolorosa: un trio di caratteri sull’orlo di una
crisi di nervi che si addice alla perfezione al gusto di Jim Harrison. Anche
nel formato short stories, lo distingue l’usuale, notevole maestria nel
raccontare e nell’interpretare la vita come se fosse vera, con un grande amore
per i dettagli e per argomenti poco politically correct (anzi, pochissimo: il
sesso, la caccia, il bere e il fumare, una cucina che non è proprio
macrobiotica, l’individualismo disposto a tutto), un tono sempre ad un passo
dall’ironia ma profondamente realistico e avvolgente. Jim Harrison si conferma
un narratore di gran classe e se i tre racconti di Julip fanno evidentemente più sfoggio del suo
mestiere che dell’ispirazione, nulla toglie alla qualità. Come già in passato,
i racconti sembrano essere soltanto un tradizionale intermezzo, una valvola di
sfogo e probabilmente un esercizio di stile tra un romanzo e l’altro e chi ha
letto Dalva, Un buon giorno per morire o Ritorno alla terra sa che si può attendere con pazienza che
Jim Harrison finisca le sue pratiche e ci serva un’altra storia piena di
strambe ricette, grandi spazi (“Ho la sensazione che non sia previsto che
accadano cose di continuo, alla gente. Io, almeno, non sono portato per questo.
Dovrebbero esserci più spazi aperti, fra un evento e l’altro. Ecco, è il mio
pensiero ben chiaro per oggi” dice Brown Dog) e outsider che vivono in capanne
nei boschi soltanto perché la pioggia sulla lamiera è il rumore più bello del
mondo. Anche perché quella solitudine è uno strumento essenziale per non affogare
nei problemi quotidiani che dipendono in gran parte dalle incomprensioni e
dalle difficoltà di trovare un riscontro nei legami e nelle relazioni. Per
Brown Dog è “come diceva sempre il nonno, non era nella natura della gente
capirsi. Solo arrivare al lavoro in tempo, quella era la cosa essenziale”, e il
più delle volte non basta. L’ingrediente comune a tutti e tre i racconti di Julip, per non dire all’intera narrativa di
Jim Harrison, è l’urgenza della wilderness come modo per riallacciare i
rapporti con se stessi e un’idea di spazio e di tempo. Non è soltanto un
sfondo, con cui Jim Harrison ha un feeling particolare, è l’orizzonte che si
apre ogni volta che muore un sogno. Molto americano, molto umano.
mercoledì 19 dicembre 2012
Alex Ross
Affacciato sul Danubio,
Francesco Giuseppe I d’Austria, l’imperatore austroungarico si chiedeva: “La
musica è una faccenda così seria? Ho sempre pensato che il suo scopo fosse di
rallegrare la gente”. Il resto è rumore è il tentativo più avvincente e documentato
di rispondere all’eco lontano di quella domanda, che risale a più di un secolo
fa. I primi passi che fa Alex Ross, che per Il resto è rumore sembra liberarsi delle
convenzioni di critico e di musicista per avvicinarsi a un saggio elaborato
come un romanzo, è orchestrare una rete di connessioni. Collega le atmosfere
fin de siècle del diciannovesimo e ventesimo secolo come come se in mezzo ci
fosse stato un lunghissimo crepuscolo, dal punto di vista etico ed estetico.
Aggancia Europa e America, le differenze
e i canali aperti attraverso e per la musica, lasciando a Jean Cocteau il
compito di raccontare l’assorbimento di una cultura pseudoamericana: “Il Titanic, Nearer My God To
Thee,
ascensori, le sirene del Boulogne, cavi sottomarini, cavi acqua-terra, Brest,
catrame, vernice, impianti del piroscafo, il New York Herald, dinamo, aeroplani,
corto circuiti, cinema maestosi, la figlia dello sceriffo, Walt Whitman, il
silenzio dei rodei, cowboy con gambali di cuoio o di pelle di capra, la
telegrafista di Los Angeles che alla fine sposa il detective”. Del resto, Alex
Ross accosta Bertolt Brecht a Louis Armstrong e a Bob Dylan e gli intrecci
risultano immediati, persino naturali perché arrivati a quel punto il lettore è
immerso in una salamoia musicale in cui certi cambi di accordo o di ritmo
valgono più di mille epiche battaglie, anche perché “la musica potrà non essere
inviolabile, ma è infinitamente cangiante, poiché acquista una nuova identità
nella mente di ciascuno nuovo ascoltatore. E’ sempre nel mondo, mai colpevole o
innocente, soggetta al paesaggio umano eternamente mutevole entro cui si
muove”. Questo è il vero tema che si ripropone e attraversa Il resto è
rumore
fino al suo epilogo: la ricostruzione della storia della musica, in particolare
quella del secolo breve, cercando di collocarla in una dimensione reale. Senza
dubbio è vero, come scrive Alex Ross che “il suono è una vibrazione che
attraversa l’aria, e riguarda il corpo come la mente” e che le “emozioni
primitive” esplodono in libertà, ma proprio per questo diventa essenziale
comprendere le vite e i tempi di Richard Strauss, Gustav Mahler, Pierre Boulez,
Béla Bartók, Arnold Shoenberg, Kurt Weill, George Gershwin, Duke Ellington,
John Cage e tutti gli altri compositori e/o musicisti le cui gesta affollano Il
resto è rumore.
Anche quella che viene chiamata l’odierna “musica d’uso”, dalle colonne sonore
alle sonorizzazioni ambientali, risente delle trasformazioni politiche,
sociali, tecnologiche ed è un processo storico irreversibile, con tutto un secolo
di precedenti, a cui Alex Ross risponde con la complicità dell’ascolto finché
la musica resti “una ricerca del senso all’interno di una struttura aperta: un
microcosmo di vita spirituale”. Sì, è una faccenda molto importante.
martedì 18 dicembre 2012
John Dos Passos
Ronzinante di nuovo in viaggio raccoglie una sparuta
selezione di scritti giovanili di John Dos Passos, già reduce dalla prima
guerra mondiale e viandante in terra spagnola. Gli appunti e le osservazioni,
siamo a cavallo tra il 1919 e il 1920, e la Spagna non è ancora travolta dalla
guerra civile, diventano articoli che poi raccolti formano una sorta di diario
di viaggio. Ronzinante è di nuovo in viaggio è solo una selezione,
peraltro puntuale, del viaggio di John Dos Passos attraverso la Spagna e in
modo particolare è riferito ai suoi talking by the road in cui il protagonista
è Telemaco, suo mitico alter ego, che in combutta con Lieo, altra figura presa
in prestito dall’Olimpo, si ritrova sulle strade spagnoel con don Chisciotte
della Mancia alias Alonso Quijano e Sancio Panza. L’incontro che immagina John
Dos Passos è quello che sognamo tutti: comprendere perché ce ne andiamo sempre
contro i mulini a vento da chi è costretto, da un capolavoro assoluto, ad
andarci all’infinito e che lo ricorda persino con una punta di ironia:
“Gentiluomini, è piuttosto ridicolo dirlo, ma ancora una volta siamo partiti
con lancia ed elmo come cavalieri erranti per liberare lo schiavo, per riparare
i torti dell’oppresso”. Sapere perché inseguiamo un’idea o l’illusione che la letteratura
possa contenere un’idea (magari due o tre) che non deve essere per forza
politica, come lo sarà per John Dos Passos (prima in una direzione, poi
nell’altra) senza essere considerati dei pazzi che di solito è “la risposta
dell’ignoranza davanti all’insolito”, sarebbe già uno stimolo sufficiente. Il
fatto che John Dos Passos veda proprio nel cavallo (anzi, nel ronzino) il
protagonista la dice lunga sulla prospettiva del suo sguardo giovanile. E’
un’idea di posizione, un riflesso persino geografico di quel viaggio in cui si
ritrova Ronzinante, un nome che già contiene la semplicità e l’umiltà del
confronto che John Dos Passos condensa così: “Avremmo disperatamente bisogno
dell’abitudine a vegliare in questo distratto mondo moderno. Se più uomini di notte
camminassero e pensassero, ci sarebbero meno miserie sotto il sole”. Vuoi per
la natura evanescente dei personaggi, vuoi per la condizione precaria
l’incontro è frammentario e tra le chiacchiere, l discussione filosofiche
nonché l’amara constatazione che “l’organizzazione semplicemente sostituisce un
torto con un altro” e per organizzazione si intende lo stato, il governo e le
sue istituzioni, alla fine John Dos Passos concede uno sguardo al paesaggio
umano, artistico e naturale restando ammaliato con “il tambureggiare di una
chitarra, frullare veloce, secco, come locuste in una siepe un giorno d’estate.
Pause che trattengono il sangue e lo gelano, improvvisa quiete come il
frusciare di un ramo in un silenzioso bosco notturno”. Il talento è già chiarissimo
e Ronzinante di nuovo in viaggio, riconoscendo che “c’è bisogno di ben
poche sensazioni per condurre una vita umile e bella”, è breve e asprigno
eppure genuino “come un riflesso di luce su un fiume nero”.
venerdì 14 dicembre 2012
Allen Ginsberg
E’ naturale che la figura
poetica e letteraria di Allen Ginsberg sarà soggetto a ripetute interpretazioni
e riletture: la vastità della sua produzione nonché l’enorme quantità di
materiale archiviato che ancora deve trovare una sua dimensione (bastano i cenni
nella nota del curatore di Parigi Roma Tangeri, Gordon Ball, a rendersi conto della situazione) offrono stimoli
sufficienti a considerare l’opzione di una collana a lui interamente dedicata.
L’ordine rimane un’utopia e per infatti per arrivare alla forma più o meno
definitiva nella ricomposizione dei diari di Allen Ginsberg i curatori sono
dovuti ricorrere ad ardite forme di lettura e interpretazione. Di questa
elaborazione, Parigi Roma Tangeri è
parte significativa anche se rappresenta soltanto un terzo dei suoi Journals tra il 1954 e il 1958 e in particolare la parte
finale. E’ di sicuro un tassello importante nel ricostruire gli archivi di
Allen Ginsberg non solo perché contiene appunti e frammenti di opere destinate
a diventare famose (su tutte, Kaddish). E’ anche l’espressione più genuina e grezza del suo work in progress
tra il marzo 1957 e il luglio 1958 nel quale è convinto di appartenere a
qualcosa di importante. “Non ho
mai smesso di pensare che eravamo coinvolti come comunità in un cambiamento
storico della coscienza e in una specie di rivoluzione culturale” scriverà più
di venticinque anni dopo e nel variegato panorama di possibilità di Parigi
Roma Tangeri si sente l’urgenza di lasciare
una traccia, di sfruttare la scrittura per fissare un tempo, un’idea, se non
altro un paesaggio o un’emozione o una sensazione, almeno quella che è chiamata
“la spensieratezza di lavorare a una poesia”. La necessità di dare forma
immediata a una creatività impellente è spiegata ancora dallo stesso Allen
Ginsberg, sollecito ad annotare tutto “perché, per certi versi, mi sembrava
veramente che si trattasse di scegliere tra un passo ulteriore verso la
liberazione e uno stato di polizia autoritario, alla 1984; tra uno stato di polizia strisciante e uno
strisciante socialismo libertario”. Quanto illuminante fosse quella percezione
possiamo dirlo con più convinzioni e con più motivazioni oggi, rileggendo Parigi
Roma Tangeri. Resta il fatto che Allen
Ginsberg è rimasto fedele ai suoi propositi anche mentre riempiva i giorni dei
suoi diari: “Io volevo poesia realistica, fondata sulle emozioni ideali comuni
dei cittadini di una democrazia, volevo fare profezia bardica e contribuire a
terminare la guerra” scriveva nell’introduzione a Papà respiro addio e quella volontà corrisponde senza alcun margine di
errore anche ai traslochi tra Parigi Roma Tangeri, città che non saranno mai abbastanza grandi per
contenere idee & poesie. Sembra accorgersene lo stesso Allen Ginsberg:
“Tutti noi accalappiati dal mondo, mentre cerchiamo di arraffare amore cibo
gloria e poesia, la fredda poesia d’amore della gloria. E il mondo così
piccolo, il trapasso così rapido, la pioggia grigia, la ruga intorno all’occhio
della tomba”. Irraggiungibile.
lunedì 10 dicembre 2012
Leonard Cohen
E’ incredibile come Leonard Cohen trasformi la
poesia in un linguaggio per parlare con se stesso, per riempire il diario della
sua vita perché “la poesia non è altro che informazione. E’ la costituzione
della nazione interiore”. Morte di un casanova in particolare si nutre
di una leggera anarchia dove la finzione suprema erutta in slang da bassifondi,
in particolare quando guarda verso ragioni pratiche (e non è impossibile
assecondarlo quando dice con Un proletario: “Gli esseri che si aggirano intorno a
questo tavolo hanno già rovesciato il mondo e poi ve l’hanno nuovamente
infilato su per il culo esattamente com’era prima”), anche se poi privilegia
liriche elaborate e sensuali, il suo personale work in progress. La poesia
raccolta in Morte di un casanova non è mai definitiva: si evolve in pagine di
prosa, in canzoni (come è risaputo), in un flusso inarrestabile di emozioni
convogliate, sillaba dopo sillaba in una forma instabile. Le poesie, a loro
volta, diventano preghiere, invocazioni, avvisi ai naviganti, fogli di
taccuino, rimasugli di sogni descritti una volta per essere dimenticati per
sempre (“Lo spirito s’è fatto carico di un po’ del lavoro sporco” scrive in Il
sogno)
e quella che in Dopotutto l’innamorato chiama “la falsa voce dell’armistizio”,
una specie di lingua che spiega come mai “l’amore contempla tutto”, peraltro
azzerata dal titolo Sono contento di essere sbronzo. Eccessivo,
contradittorio, spudorato come un’operazione a cuore aperto (lo ammette con L’altare: “Il cuore di un
traduttore che ha cercato di rendere in un linguaggio corrente gli ordini
superiori della pura energia, che non ha negato la propria inclinazione
all’obbedienza”), Morte di un casanova, è il cahier de doléances di un “amico
della neve” che usa le parole come un rabdomante per cercare qualcosa che
ancora non gli appartiene. L’ambizione è tenace, la presenza è forte, i versi
battono un ritmo serrato, dando spazio a toni dalle tinte forti: “Io sono la
voce che tu hai messo da parte perché era troppo rabbiosa ma quello che ho o ho
avuto da dire è tutto quello che avrai o avrai mai avuto”. Una confessione pura
e semplice raccolta proprio in Morte di un casanova: “E così è andata la
storia ma chi avrebbe detto mai che non ce ne frega niente che non ci riguarda
più. Come fare un viaggio sulla luna o un pianeta sconosciuto: non ha proprio
senso andarci se si deve andar così lontano”. Pur risalendo al 1978, Morte
di un casanova
sembra adattarsi in modo naturale e coerente alle recenti disavventure di
Leonard Cohen dove, e non è un caso, nei suoi legami amorosi è finito di tutto,
dalla sua percezione dell’arte al conto in banca. In prospettiva Il prezzo
di questo libro
anticipa e sublima : “Volevo finirla, ma non volevo finire: la mia vita
nell’arte. Avevo impegnato la mia salute più profonda per riuscirci. Il lavoro
andava ben al di là di questo libro. Adesso lo vedo. Mi vergogno di chiedervi
dei soldi. Non che voi non abbiate pagato di più per ottenere ancora meno. E’
così. Continuate a farlo”. Continuiamo, eccome.
venerdì 7 dicembre 2012
Susan Sontag
Più che un saggio sul potere delle immagini, Davanti
al dolore degli altri
è un vademecum per vivere questi incredibili tempi moderni, in cui la realtà
sembra essere sospesa in un limbo tra rappresentazione, finzione e una
percezione distorta dall’information overload. Con estrema lucidità e
una background coltissimo e rigoroso, Susan Sontag cerca di descrivere, di
comprendere, di spiegare il senso di impotenza, di disperazione e di
incredulità che viviamo nel trovarci di fronte a immagini atroci e senza senso.
“Assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una
caratteristica ed essenziale esperienza moderna, risultato complessivo delle
opportunità che da oltre un secolo e mezzo ci offrono quei turisti di
professione altamente specializzati noti come giornalisti. La guerra è ormai
parte di ciò che vediamo e sentiamo in ogni casa” scrive Susan Sontag ed è
proprio la guerra il disastro peggiore perché è anche il più attraente. Davanti
al dolore degli altri
si costruisce una solidissima credibilità proprio scavalcando i luoghi comuni e
Susan Sontang ammette, senza paura di essere smentita, che “la guerra era, e
continua a essere, la più irresistibile, e pittoresca, delle notizie. (Insieme
a quei suoi preziosi sostituti che sono gli eventi sportivi internazionali)”.
Già quest’associazione, visto cosa succede negli stadi, fa riflettere non poco,
poi nel forbito e ricchissimo discorso di Susan Sontag appare un frammento di
Henry James, centellinato con cura perché “in letteratura nulla è dovuto al
caso o alla fortuna” che illumina la condizione di chi, davanti alla terribile
scena di un massacro di Sarajevo, New York, Falluja, Madrid, Londra, Aleppo
rimane ammutolito: “In mezzo a tutto questo, utilizzare le parole di cui
disponiamo è ormai difficile quanto far fronte ai nostri stessi pensieri. La
guerra ha logorato le parole; si sono indebolite, deteriorate”. Rimangono le
immagini che scorrono senza poterle fermare e sono sempre oggettive e cambiano
in continuazione prospettiva e ci fanno
sentire soli Davanti al dolore degli altri perché, come nota con
una sensibilità non indifferente Susan Sontag “a mancarci è l’immaginazione,
l’empatia: non siamo riusciti a fare nostra questa realtà”. Viene spontaneo
chiedersi a chi serve, a chi giova proiettare senza sosta la ricostruzione (che
poi, come ben analizza Susan Sontag, spesso confina nel falso e nel grottesco)
di immagini crudeli e spietate e se “esiste un antidoto contro l’eterna
seduzione esercitata dalla guerra”. Qualche suggerimento Susan Sontag ha ancora
il coraggio di darlo, a partire dalle precondizioni in cui matura questa
sensazione di aver sempre le spalle al muro, dato che “in una cultura
radicalmente riorganizzata dai valori del mercato, la pretesa che le immagini
siano stridenti, clamorose e rivelatrici appare più che altro un segno di
elementare realismo e di fiuto per gli affari”. Cambierà tutto, non cambierà la
guerra ed è per questo che Davanti al dolore degli altri dovrebbe essere
adottato da ogni scuola.
martedì 4 dicembre 2012
John Cheever
Leggi qualcuno che sembra conoscerti a fondo, ed è il suo
diario, non il tuo: Una specie di solitudine è un libro che sanguina. Prendete
il mio corpo e il mio spirito sembra dire John Cheever rivelando la grandezza
di uno scrittore che si spoglia senza esitazioni davanti a uno specchio che in
realtà è una finestra spalancata sul mondo. Angoscia, passione, gioie e
tormenti: gli ups & downs di
John Cheever si susseguono senza soluzione di continuità, con un’aderenza alla
vita quasi morbosa e con una percezione che fluttua di giorno di giorno perché
“sembra che spesso quello che scambiamo per dolore o dispiacere sia la nostra
capacità di porci in un rapporto vitale con il mondo, con questo paradiso quasi
perduto. Certe volte ci svegliamo e ci accorgiamo che la lente che ingrandisce
l’eccellenza del mondo e della sua gente si è rotta”. Sempre molto acuto e
tagliente nel definire i profili dei suoi personaggi, John Cheever riversa le
stesse attenzioni a se stesso e trasforma i diari racconti in Una specie di
solitudine in una
sorta di romanzo crudo e drammatico. Una sofferenza enorme (in gran parte
dovuta al gin e al whisky), i controversi rapporti con le dimensioni
famigliari, l’assidua e il più delle volte infruttuosa ricerca di “una vita di
impossibile semplicità” e la continua rivendicazione di quella che John Cheever
chiama “la legittimità della diversità” e che non sembra riferirsi solo alla
sfera sessuale, sono i temi che si intrecciano e si sovrappongono nello
sviluppo di Una specie di solitudine. Dalle pagine, anche nei passaggi più duri, aspri e
disperati, emana un’incredibile energia con con John Cheever alimenta la sua
scrittura. Anche qui il rapporto è tutt’altro che lineare: avido lettore, ci
sono giorni in cui teme il confronto con i colleghi e amici (Saul Bellow,
Norman Mailer, John Updike e Vladimir Nabokov i più citati) e che nutrono il dubbio del fallimento (“Lo
stile della mia scrittura sarà sempre in certa misura prosaico”) e altri in cui
la necessità e l’indispensabilità della scrittura gli è più chiara perché
“scrivere è l’alleato di molte cose splendide, la fede, la curiosità e
l’estasi, e di molte cose brutte, imbrogliare, disegnare immagini oscene sulle
pareti dei bagni pubblici, assentarsi dalla partita di baseball per scaccolarsi
il naso in solitudine”. Senza alcuna precauzione, senza alcun inutile pudore,
John Cheever raschia la sottile pellicola che nello stesso tempo lega e separa
l’uomo e lo scrittore e condivide le sue confessioni più sentite, intime e
profonde tanto nei passaggi più significativi la prima persona singolare
diventa plurale. A quel punto John Cheever ci è più vicino che mai e non è
difficile riconoscersi nello stesso riflesso quando dice che “abbiamo quasi
tutto quello che desideriamo e di cui abbiamo bisogno eppure il nostro sentire
è saturato dal senso di disincanto, come un filamento elettrico che si riempie
di luce. Forse è solo che intravediamo la possibilità del fallimento oppure che
abbiamo bevuto troppo sabato sera”. Una specie di solitudine è un libro che puzza di vita,
quella vera.
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