mercoledì 30 marzo 2011
William Least Heat-Moon
martedì 29 marzo 2011
Chaim Potok
“Mi meraviglia che sopravviviamo ai nostri inizi” dice David Lurie nelle primissime pagine di In principio e già apre un varco sulla sua storia, mentre vive l’infanzia e il complicato percorso per lasciarla in quel crocevia etnico e culturale che era il Bronx a cavallo delle due guerre. E’ un bambino normale, che un piccolo incidente (bisogna ricordarla questa parola perché torna spesso e perché “esiste qualcosa che non sia un incidente?”) ha reso piuttosto cagionevole di salute e solitario. Uno dei suoi primi resoconti è abbastanza esplicito nel raccontare la semplicità della sua vita quotidiana: “Andavo a scuola. Mi ammalavo, ma non troppo spesso. Di tanto in tanto mi capitava un incidente, ma nulla di serio. Il mio mondo si era fatto saldo e stabile e io mi ci trovavo a mio agio. Gli insegnanti mi davano dei libri da leggere a casa e mi lasciavano sognare a occhi aperti durante le lezioni”. C’è una distanza enorme tra i suoi inizi e quelli degli adulti che lo circondano che “sembravano persi in ricordi privati”, tanto che gli pare persino di “essere l’unica persona sveglia al mondo”. L’ortodossia della comunità ebraica a cui appartiene, e le cui prassi sono raccontate in modo eccezionale da Chaim Potok, incide fino a un certo punto. C’è qualcosa che David Lurie non riesce a collocare, forse per istinto o per un’intuizione e non è la gente a cui appartiene, perché quella “entrava e usciva dalla tua vita e non sapevi mai che fine faceva”, ma le storie. Nelle storie che gli raccontava la madre funzionava tutto a meraviglia: “gli uccelli avevano dolci voci umane, i cani erano fedeli ai padroni, conducevano i bambini fuori dalla fitta foresta, non scavavano mai buche nella terra né sporcavano mai i sentieri usati dalla gente, e il vento era fatto dei corpi degli angeli che si muovevano invisibili nel nostro mondo. Mi raccontava solo storie a lieto fine. Non mi raccontava mai storie di incidenti, di malattie o di morte”. Un giorno di pioggia del 1929, David Lurie vede una fotografia che ritrae una quarantina di uomini con pistole e coltelli nella foresta. Un’armata Brancaleone pallida con una bandiera sbiadita. E’ un’epifania che lo porterà a confrontarsi con le proprie radici così come a comprendere che “fuori, il mondo era nero di orrore” e, nonostante i secoli nei secoli, “è sempre lo stesso. Non importa dove accade, è sempre lo stesso orrore, lo stesso strazio, la stessa incapacità di reagire”. Nella sua condizione, la scoperta che gli ebrei venivano uccisi, che gli ebrei dovevano difendersi, diventa un gradino in più da superare, un “incidente” molto più ingombrante e difficile da collocare nel suo sgusciare dall’infanzia. Vorrebbe una “fotografia silenziosa”, senza promesse di odio o di vendette, ma gli altri, gli adulti sembrano non sentirlo nemmeno. Gli rimane il rifugio della lettura perché “il mondo era visibile mentre leggevo. Era importante che fosse visibile, così da vedere come la lettura lo trasformava”. E’ lo stesso processo, vitale e importante, che rende In principio unico e importante.
lunedì 28 marzo 2011
Ralph Ellison
venerdì 25 marzo 2011
Victor Gischler
Nel nome della città, Coyote Crossing, c’è già il grumo denso e pensoso che Victor Gischler nasconde nella frenesia degli effetti speciali della sua scrittura. Nel gergo del border il coyote è la guida, si fa per dire, che conduce gli immigrati dal Messico verso il Norte ed è attorno a un traffico di disperati che si sviluppa tutta la Notte di sangue di Coyote Crossing perché Victory Gischler è divertente, caotico e giocoso nel superare i confini tra western e noir, come nota Don Winslow, ma è anche attento a non sfuggire la realtà. Per cui nella Notte di sangue di Coyote Crossing oltre alla desolazione dell’immigrazione illegale, l’atmosfera è delineata da un paesaggio è “white trash”, un sottoproletariato con poche o nulle speranze, se non la fuga dalla smalltown dove tirano a campare, tra lavori di infima categoria (il massimo, sembra di capire, sarebbe spararsi due ore di strada al giorno per andare a fare l’operaio in un’industria di fertilizzanti) ed esistenze ai margini della legalità. Se poi in un ambiente che è sempre sull’orlo della crisi di nervi si immettono la criminalità organizzata e gli sceriffi corrotti la miscela si accende da sola per autocombustione. A farne le spese è Toby, un loser da quattro soldi con un passato da chitarrista in mediocri rock’n’roll band (anche la musica che segue del resto non è il massimo: Weezer, Garbage, Blind Melon sono i nomi che s’incontrano strada facendo) e un presente di aspirante sceriffo, padre di famiglia e concubino di una minorenne, giusto per completare il quadro. Un impiastro che riesce a cavarsela, almeno dal punto di vista ideale, con una punta di inevitabile fatalismo, espresso così: “C’è chi viene reso più forte dalle avversità, così come dalle delusioni e dalle sciagure, e c’è chi diventa più stronzo. Sono i casi della vita e nessuno ne è immune, che sia una vecchia o una messicana infuriata o un aiuto sceriffo part-time. Fai girare la ruota, e prendi quello che arriva”. Victor Gischler scrive con il senso dei fumetti o più in generale delle immagini in testa ed è un susseguirsi di colpi di scena senza un attimo di respiro perché Toby Sawyer dopo aver subito per gran parte della Notte di fuoco a Coyote Crossing decide che è ora di restituire colpo su colpo. In realtà, un vero loser non sceglie mai e infatti la svolta arriva per inerzia se non proprio per stanchezza perché c’è un limite anche a fare da punching ball per una famiglia di bifolchi inferociti. La progressione è un tourbillon di inseguimenti, sparatorie e continui rovesci di fronte con Toby Sawyer protagonista assoluto e sempre nel centro del mirino. Tutto l’armamentario dei cliché delle storie d’azione, dall’assedio del suo trailer prima e della stazione di polizia ai fucili a pompa, è preso da Victor Ginschler che poi lo ricicla, lo rimescola e lo frulla a una velocità anfetaminica. L’effetto è tale che, pur senza particolari ambizioni letterarie, si resta incollati dalla prima all’ultima pagina dove, come richiesto dallo stile, arriva un finale impeccabile.
mercoledì 23 marzo 2011
James Sallis
martedì 22 marzo 2011
Sherman Alexie
Nell’elenco di narratori nativi che per voce di uno dei personaggi di Indian Killer appare nelle prime pagine del romanzo (Simon Ortiz, Roberta Whiteman, Luci Tapahonso, Elizabeth Woody, Ed Edmo, Jeannette Armstrong) potrebbe starci benissimo anche Sherman Alexie, se non fosse che è proprio lui uno tra i più conosciuti. Merito soprattutto di Reservation Blues e di Lone Ranger fa a pugni in paradiso, due libri in cui sogni e visioni della cultura nativa si sovrappongono al paesaggio (urbano, decadente) di un’America incapace di venire a patti con il suo passato. Anche Indian Killer non si discosta molto da quelle ambientazioni: Sherman Alexie sfrutta tutte le possibilità dell’immaginazione e della scrittura per attraversare con naturalezza, e come per magia, i tempi e gli spazi tra illusioni, personaggi onirici, riti tradizionali e la realtà. In più c'è un serial killer (l’ennesimo, verrebbe da dire) che scalpa le vittime, rigorosamente visi pallidi, e firma gli omicidi con due penne di gufo insanguinate. Ma non finisce tutto qui: attorno alla figura dell’Indian Killer si muove una folla di personaggi spesso ambigui (se non proprio ambivalenti) che sembrano tracciargli un percorso, offrirgli motivazioni, forse anche indicargli chi sarà il prossimo bersaglio. Trattandosi di un thriller (anche se con uno sfondo polemico molto in rilievo) è naturale non sbilanciarsi oltre, anche se un appunto su John Smith, il personaggio a cui ruotano intorno un po’ tutte le vicende di Indian Killer è necessario: il suo nome non vuol dire niente (con John Doe è tra i più diffusi negli Stati Uniti), di origini native è stato adottato ancora neonato (la bellissima scena iniziale) ed è un coacervo di contraddizioni, di paure e di passioni che potrebbe benissimo essere l’impersonificazione di una metafora per tutti gli indiani d’America. Agli appassionati di rock’n’roll sarà ancora più facile trovarsi a proprio agio con Reservation Blues (il fantasma di Robert Johnson che si aggira in una riserva non è qualcosa che si legge tutti i giorni), ma è chiaro che anche nel confronto con uno stereotipo della fiction (e purtroppo anche della cronaca) quale è il serial killer, Sherman Alexie ne esce convincente perché non perde il gusto di articolare le sue storie attraverso un linguaggio capace di esprimere emozioni, sensazioni ed idee anche dentro il ritmo (serrato e implacabile) di Indian Killer. Narratore con il gusto dell’incastro tra passato e presente, tra eventi storici e romanzeschi, non perde occasione per rivelare, sotto mentite spoglie, la complessa dimensione sociale e politica dei nativi americani ma senza lasciarsi invischiare in prese di posizione ideologiche o in pericolose distinzioni etniche. Sherman Alexie sembra raccontare le sue storie con tutti i mezzi che l’immaginazione concede alla sua scrittura e l’effetto è davvero notevole perché le visioni e gli stati di alterazione di Indian Killer alla fine non sono altro che un riflesso deformato della realtà. Efficace.
domenica 20 marzo 2011
John Cheever
giovedì 17 marzo 2011
Reif Larsen
Le mappe dei miei sogni si rivela un viaggio troppo lungo perché se l’idea di partenza, quella di un piccolo hobo che parte alla scoperta del mondo dopo averlo disegnato e/o immaginato nei suoi diagrammi, è brillante e arguta, nel suo evolversi diventa sempre più introspettiva e autorefenziale. Nonostante la centralità di un episodio violento, dalle tinte fosche ed enigmatiche, Le mappe dei miei sogni sono costellate di variazioni sul tema ed estrapolazioni criptiche che alla prima battuta sono affascinanti, alla seconda fanno riflettere, alla terza generano qualche inevitabile perplessità e alla quarta, cioè alla fine, suonano noiose. Il livello della scrittura è elevato e come se non bastasse l’inedito contorno iconografico è prezioso, ma in sé svela anche i limiti e l’approssimazione della storia. A dodici anni T.S. Spivet non ha soltanto una fervida immaginazione, ma anche una visione filosofica del mondo visto che, nonostante la giovane età, aveva già imparato che “la rappresentazione non deve essere confusa con la realtà, anche che, in un certo senso, lo scarto è ciò che rende le rappresentazioni così significative: la distanza tra una mappa e il territorio che descrive ci lascia lo spazio per respirare e capire in quale punto ci troviamo”. La distanza è fondamentale e la sua personalissima cartografia cerca di colmarle in ogni direzione: con il padre (un vero e rude cowboy) e con la madre (una scienziata con cui dovrebbe avere qualche affinità in più e che invece sente algida e lontana) nonché con il fratello, ucciso da un incidente con un’arma da fuoco. Per un bambino, per quanto prodigioso, sono troppe le coordinate da far combaciare e Le mappe dei miei sogni sono piene dei suoi fallimenti, tanto che ben presto se ne accorge pure lui: “C’è qualcosa, nella misurazione della distanza tra un qui e un là, che ridimensiona il mistero di ciò che si nasconde nel mezzo, e per un bambino con una limitata esperienza empirica il mondo ignoto che poteva celarsi tra il qui e il là poteva essere terrificante. Come molti bambini, io non ero mai stato là. Ero stato a malapena qui”. Quando intercetta una telefonata da Washington per cui i suoi disegni si meritano un premio dello Smithsonian fugge a bordo di un treno per raggiungere l’agognato riconoscimento. Fin qui tutto funziona a meraviglia, almeno se si conoscono le eccentriche collezioni di Harry Smith o soltanto qualcuna delle canzoni dai Basement Tapes di Bob Dylan, poi il viaggio, che dovrebbe essere una rivelazione diventa un elenco di annotazioni e voli pindarici che funzionano a scartamento ridotto. Arrivati al giro di boa della metà e in modo significativo nello nello scenario urbano delle periferie di Chicago, sembrano accorgersee anche lo stesso Reif Larsen e, per lui, T.S. Spivet che dice: “ero rimasto solo, perduto nella solitudine sfilacciata di quella città senza fine”. Una sensazione condivisa dal lettore, nonostante i fuochi d’artificio urbani e gli ultimi, ovvi tentativi di sorpresa del finale.
martedì 15 marzo 2011
Alistair McLeod
lunedì 14 marzo 2011
Sam Shepard
domenica 13 marzo 2011
Louise Erdrich
mercoledì 9 marzo 2011
Paul Beatty
Originario di Los Angeles, fin dal suo esordio, Paul Betty ha mostrato di conoscere a fondo le realtà dei ghetti, l'evoluzione delle metropoli e soprattutto la storia dei rapporti razziali in America che emerge violentemente in tutte le pagine de Il blues del ragazzo bianco. Titolo ironico e tagliente perché Gunnar Kaufman, il protagonista principale, è nero senza via di scampo (il racconto del suo albero genealogico fino ai bisnonni e bisavoli è esilarante e drammatico nello stesso tempo), vive a Hillside, Los Angeles, un quartiere ad alto rischio, per dirla con un eufemismo: i poliziotti girano con il nome di Babe Ruth (il celebre campione del baseball, a scanso di equivoci) inciso sugli sfollagenti, all’entrata delle scuole medie ci sono metal detector, le gang spadroneggiano e a undici anni non è poi così strano avere una pistola infilata nei calzoni. In questo avamposto del medioevo prossimo venturo Gunnar Kaufman scopre le sue amicizie e le sue vocazioni, il basket e la poesia, nonché il lato oscuro dell'America (il romanzo è ambientato nei primi anni Novanta, all'epoca del pestaggio di Rodney King, del successivo processo e dei cruenti scontri di Los Angeles) che traduce così: “Sono stati cinquecento anni deliziosi, ma è tempo di andare. Stiamo abbandonando la nave America che affonda, alleggerendo il suo carico lanciando le nostre storie fuori bordo, gettando in mare il presente e tirando in secco il futuro. L’America nera ha abbandonato i suoi bisogni in un mondo dove le aspettative sono illusioni, ha rifiutato di sviluppare ideali e tradizioni in una società che applica i principi senza principio”. Nella sua esuberanza giovanile Il blues del ragazzo bianco soffre di una certa prolissità, ma è facile credere sia dovuto ad un eccesso di entusiasmo: Paul Betty scrive e racconta sempre sul filo del rasoio tra sarcasmo e ironia, tra farsa e tragedia, partendo da una realtà per niente poetica per arrivare a competere con i grandi narratori afroamericani. Per presentarlo qualcuno ha scomodato i nomi (sempre bianchi) di Tom Robbins e Kurt Vonnegut mentre Paul Beatty forse sogna L’uomo invisibile di Ralph Ellison e scrive (bruciante, slang, ritmico) come Chester Himes: non si tratta di un’affinità razziale, ma di un modo elastico, poliedrico di intendere il linguaggio, la storria, l'arte stessa dello scrivere e del narrare. Tra le righe Paul Beatty cita Céline, Amiri Baraka (già LeRoi Jones), John Dos Passos e poi scrive: “Mi venne in mente che forse le poesie sono come i raffreddori. Forse avrei sentito arrivare una poesia. Avrei percepito un peso sul petto e mi sarebbero venuti gli occhi umidi e la febbre, e alla fine un fischio nelle orecchie avrebbe annunciato il profilarsi di versi eterni”. Divertente, caustico, caotico Il blues del ragazzo bianco è anche una specie di sottile, laconica presa di posizione: ci sono pochi modi per uscire dal ghetto (quale che esso sia) e le poesie non sono seconde a nessuno, almeno fino a quando personaggi come Gunnar Kaufman andranno a scriverle sui muri.
martedì 8 marzo 2011
Ronald Everett Capps
Charles Portis
“La gente non riesce a credere che una mocciosa di quattordici anni è capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre, ma a quei tempi non sembrava tanto stravagante, anche se devo ammettere che non capitava tutti i giorni”. C’è già l’intera storia del Grinta nel suo incipit: il resto è da leggere (o da vedere) tutto d’un fiato, senza grandi pretese e con grande piacere. Charles Portis scrive in un modo molto piano, con un senso pratico delle immagini, delle scene d’azione (non deve essere un caso se Il Grinta è diventato un film per ben due volte) e mettendo sul piatto una versione del paesaggio del West che non concede molto alla mitologia ed è piuttosto impregnato della violenza della “frontiera” a cui aggiunge una dose abbondante di ironia. La trama è elementare e a senso unico perché si articola nella terra di nessuno tra vendetta e giustizia, un terreno piuttosto fertile nella frontiera americana, con contorno di furbizie e ricatti e trattative e grilletti facili: il viaggio intrapreso dalla piccola Mattie per vendicare l’assassinio del padre è l’iniziazione alla natura selvaggia del West e insieme alla mutevolezza della forma dei legami, sottoposti a tradimenti, colpi di testa, menzogne ma anche improvvisi slanci di generosità e coraggio. Anche perché le figure dei fuorilegge tendono a confondersi, non sono mai definite, si muovono come ombre su una linea indefinita. Lo stesso Grinta ha un passato turbolento e oscuro (e non sempre dalla parte giusta) come oscura e turbolenta è la storia del West, che Charles Portis mostra di conoscere a fondo e in modo non banale. Molti dettagli, a partire dai filamenti storici della guerra di secessione, il caos primordiale da cui sono nati gli Stati Uniti d’America, fino ai particolari, precisi e minuziosi, del funzionamento delle armi e del loro inevitabile uso, per non dire del melting pot e della wilderness, sono cesellati in modo raffinatissimo nel viaggio del Grinta, di Mattie e del ranger LaBoeuf senza togliere nemmeno un battuta al ritmo serrato del racconto. La cui evoluzione è sì naturale e, in prospettiva, persino ovvia nel contesto dei luoghi comuni del West, ma non è priva di colpi di scena. È vero che sono i segugi a seguire le piste, a reggere i cavalli e a tenere le armi a portata di mano, ma poi è sempre il fato, un miraggio o un errore a introdurre un nuovo salto nel vuoto. Fino al gran finale che è movimentato, spettacolare, con tutti i protagonisti in condizioni epiche tra cariche a cavallo, tiri di precisione, crotali e duelli mortali. Molto di più non si può aggiungere perché il romanzo, nonostante ormai si sappia più o meno tutto, contiene non pochi elementi di sorpresa. Bisogna dire però che, finita la caccia all’uomo, la breve e malinconica coda riporta l’attenzione agli show del Wild West, con sceriffi e fuorilegge ridotti a fenomeni da baraccone, destino che hanno condiviso con altre leggende americane e ricorda la fine impietosa di un mito duro a morire.