La vera protagonista di Bullet Park è la bizzarra normalità della provincia americana, o della provincia tout court. Coppie che dibattono e vivono “una forma di amore”, a volte come se fosse “un dilemma cosmico prodotto dai rivolgimenti della storia e della natura”, spesso ridotto a una sorta di meccanismo tutto collaudare perché “non ci si innamora”, il più delle volte “ci si reinserisce nell’amore”. Di conseguenza, famiglie sempre sull’orlo di un collasso emotivo, tra la confusione delle notizie del giorno (“E certe volte i giornali non fanno che confondere ancora di più le idee. Continuano a pubblicare foto di soldati morenti nella giungla o nel fango accanto alla pubblicità di pellicce di zibellino o di anelli con smeraldo da quarantamila dollari. Parrebbe quasi puerile sostenere che in quel modo è come se il soldato fosse morto per la pelliccia o per l'anello, ma ecco sempre là, giorno dopo giorno, soldato morente e anello”) e i giorni in cui arrivano le notizie che cambiano la vita. Tante strade, tante piccole case di periferia, tanti volti e altrettante storie che John Cheever racconta con una scrittura densa e limpida nello stesso tempo, ricca di dettagli e di superbi incastri, cesellati con raffinatezza artigiana, ma anche scorrevole, come una ballata o uno standard jazz. E’ un laboratorio suburbano ricreato in modo magistrale. Attorno alle vite di Eliot Nailles e Paul Hammer si snocciola una periferia delle emozioni e dei sentimenti che è nello stesso tempo causa ed effetto della conformazione topografica. Il linguaggio ne è una diretta conseguenza: “La ragione era dovuta al fatto che, all’epoca in cui sono ambientati i fatti di cui sto scrivendo, la società era diventata talmente motorizzata e mobile che tutti i vari mezzi e segnali di comunicazione tipo fari, luci di posizione, frecce e tergicristalli erano ormai diventati parte essenziale del modo di comunicare”. Non senza piccoli spunti polemici e concretamente reali, che affiorano taglienti tra le righe del bucolico Bullet Park: “Parlano di libertà e indipendenza più di chiunque altro, ma riforniscono di denaro, armamenti e tecnologia chi annienta la libertà e l'indipendenza di chi la rivendica. Io ho in odio la menzogna e la falsità, e se ci si ritrova in un mondo così pieno di bugie, suppongo che si abbiano tutte le ragioni per essere depressi. E' un dato di fatto che io non possiedo tutta quella libertà e indipendenza come vorrei davvero”. Un civilissimo appunto non insolito per John Cheever anche se, più in generale, il tono è impressionista, tiene conto di minuscole necessità e dialoghi irrilevanti, eppure lo fa con una grazia e insieme una sicurezza tale da restituire alle anonime vite di Bullet Park un’appropriata dignità. Almeno sulla carta, ovvero nell’innata natura di un bel romanzo, dove la scrittura può ancora garantire un minimo di comprensione e di umanissima compassione. Un grande libro, Bullet Park, e un autore, John Cheever, che è sempre utile riscoprire (e rileggere).
Nessun commento:
Posta un commento