In una delle sue preziose lezioni John Gardner spiegava che “lo scrittore non deve solo essere capace di comprendere le persone diverse da lui, ma deve subirne il fascino. Deve avere sufficiente stima di sé da non sentirsi minacciato dalla diversità, sufficiente calore umano e comprensione, sufficiente interesse per l’imparzialità di cui ha bisogno per apprezzare persone diverse da lui, e infine deve avere, secondo la mia opinione, una sufficiente fiducia nella positività della vita, tale da poter non solo tollerare ma anche celebrare un mondo di diversità, conflitti, contrasti”. È una definizione che introduce alla perfezione La generosità della balena, dove Denis Johnson affronta esistenze che si sono spinte ai margini, o vi sono state relegate. È come vedere i protagonisti di Jesus’s Son vent’anni dopo: c’è una sofferenza condivisa fra tutti i personaggi dei racconti, come se avessero un debito primordiale da rispettare, come se non conoscessero le regole di un gioco a cui sono costretti giocare o come se il loro destino fosse sabotato. Denis Johnson sa interpretarli con una superba padronanza del linguaggio, dei tempi, dell’organizzazione delle trame e con un una particolare sensibilità per soluzioni insolite e spiazzanti. Le immagini sono crude, taglienti, essenziali, ma il quadro psicologico dei protagonisti è completo e accurato, tanto che sembrano orientarsi senza alcun aiuto nei labirinti in cui sono finiti e dove “il flusso della vita si ingarbuglia e si sgarbuglia in un istante, come lo schiocco di un nastro teso”. La sequenza dei racconti è una raffica di esperienze durissime: un epistolario a senso unico da una comunità terapeutica costituisce la struttura di Lo Starlight sulla Idaho, mentre la confessione di Bob lo strangolatore spalanca le porte di vite spezzate dal carcere e dalle droghe. Se l’eroina era il leitmotiv in Jesu’s Son, qui dominano le allucinazioni dell’LSD e la decadenza alcolica di Darcy Miller, lo scrittore al centro di Trionfo sulla morte. Abbandonato a se stesso in un ranch in mezzo al Texas, era l’autore di un brillante romanzo, Sempre l’uomo sbagliato, titolo che ricorda come i personaggi di Denis Johnson abbiano tutti un nome e ne usino un altro. Un altro poeta in affanno, Marcus Ahearn, ci conduce invece nel gioco di specchi di Doppelgänger, poltergeist. Il racconto comincia, di fatto, l’8 gennaio 2001, quando Mark (Ahearn) riesuma la bara del fratello di Elvis e prosegue da Graceland a New York inseguendo l’idea secondo cui il colonnello Parker avrebbe ucciso Elvis quando è tornato dal servizio di leva. Tutta una mitologia e un’antologia di luoghi comuni che Denis Johnson rielabora sullo sfondo dell’apocalisse: associare Elvis e l’11 settembre ha quel tanto di perfido nel rielaborare le teorie del complotto e qui va ricordato ancora una volta quello che scriveva Don DeLillo in Rumore bianco, ovvero che “tutti gli intrighi tendono alla morte. È la loro natura. Intrighi politici, terroristici, amorosi, narrativi, intrighi nei giochi infantili. Ogni volta che intrighiamo ci accostiamo alla morte. È come un contratto che devono firmare tutti, chi intriga come coloro che sono i bersagli dell’intrigo”. L’unico personaggio che pare districarsi in questa ragnatela di questi racconti è Bill Whitman. In La generosità della balena che convive con “la persistenza dei vecchi rimpianti, i nuovi rimpianti, gli insuccessi che riescono a ripresentarsi in forme sempre originali” e c’è qualcosa nel cognome da tenere d’occhio, perché quella di Denis Johnson, nell’insieme, è “una fotografia di rovine americane”. Scomoda, ma necessaria.
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