domenica 27 febbraio 2011
William Burroughs
Jason Starr
sabato 26 febbraio 2011
Hunter S. Thompson
Il telegramma è chiarissimo, elementare e, nella sua sintesi, perfetto: “Corri qui stop c’è ancora posto nel barile del rum stop non si fa un cazzo stop soldi a palate stop si sbevazza tutto il giorno stop si chiava tutta la notte stop corri perché potrebbe durare poco”. La risposta è altrettanto eloquente: “Non ho programmi particolari. Vado lì e mi butto nella mischia. Una bella sbronza tranquilla”. A dispetto dell’incarico per cui s’imbarca per Puerto Rico, un lavoro che ben presto messo in un angolo, H. S. Thompson ha solo l’intenzione di spassarsela, come facevano Hemingway e Fitzgerald, i suoi eroi. Gli basta attraversare la spiaggia e buttarsi nell’oceano per mettere la sua bandiera sull’isola: “Ora mi sentivo meglio, caldo e sonnacchioso e libero come un fringuello. Con le palme che scorrevano veloci e quel solleone che bruciava la strada, ho provato una sensazione che non avevo dai primi mesi in Europa, quel misto di inconsapevolezza e tranquillità scazzata vada-pure-tutto-al-diavolo che ti prende quando il vento si alza e cominci a filare verso un punto sconosciuto all’orizzonte”. La meta, sempre più spesso, coincide con il fondo della bottiglia e un drink dopo l’altro H. S. Thompson s’inventa una guerra civile con se stesso, e se all’inizio le Cronache del rum sono euforiche e sopra le righe, piano piano e sbornia dopo sbornia emerge un fondo di consapevole amarezza. E’ proprio mentre sta per affogare nell’alcol e nella dissoluzione che H. S. Thompson si rivela un grande scrittore. Gli basta un minimo sindacale di lucidità per accorgersi di aver varcato una soglia pericolosa: “Mi è sembrato di vedere qualcosa strisciare sul soffitto e le voci fuori che mi chiamavano per nome. Ho cominciato a tremare e sudare, poi è cominciato il delirio”. Ogni notte diventa sempre più minacciosa (uno dei tanti party finisce con uno stupro), i soldi svaniscono negli ingorghi di rum e mantenere, anche soltanto per un altro giorno, quello scapestrato lifestyle diventa un incubo. Le Cronache del rum riportano, passo dopo passo il diario di un fallimento. L’escalation è emblematica. Prima H. S. Thompson comincia ad avere una vaga percezione del caos in cui si ritrova: “Provavo l’oscuro presentimento che la vita che facevamo fosse una causa persa, che non facessimo altro che recitare, prendendoci per il culo a vicenda in un’odissea senza senso”. Un attimo dopo è convinto che “andiamo tutti verso gli stessi posti del cazzo, facciamo le stesse cazzo di cose che la gente ha fatto per cinquant’anni, e aspettiamo che succeda qualcosa”. L’attesa è una vana promessa perché “le dolci illusioni che ci fanno tirare avanti reggono solo fino a un certo punto” e H. S. Thompson confessa di essere arrivato in fondo: “se quella era la libertà assoluta allora ne avevo assaporata in abbondanza”. Si smentirà, spesso, H. S. Thompson e scriverà di altre “paure e deliri”, ma nelle sue Cronache del rum (siamo soltanto nel 1959) c’è già tutta l’essenza di un grande, folle e geniale outsider.
venerdì 25 febbraio 2011
Paul Harding
giovedì 24 febbraio 2011
Steve Erickson
mercoledì 23 febbraio 2011
Colum McCann
James Crumley
Tutti i personaggi di James Crumley camminano spediti sempre dalla parte sbagliata della strada e della vita, in cerca di guai come se fossero l'aria da respirare tutti i giorni. La sua visione è nerissima, non soltanto per le consolidate atmosfere noir in cui ha mostrato tutta la sua maestria, ma perché ci tiene a precisare la psicologia dei suoi perdenti, destinati a farsi “prendere per i fondelli in un incubo fatto di morte e di un vento gelido che soffia su una tomba aperta”. Sono le parole che scrive nelle primissime pagine del suo (sottovalutato) esordio, Uno per battere il passo. Una storia di guerra e di amicizia, di cameratismo e di follia, di grandi propositi (perché “un guerriero ha il dovere di sognare”) e di inevitabili dissoluzioni, Uno per battere il passo racconta il legame tra il sergente Jacob Slagsted Krummel, proveniente da una famiglia di guerrieri, e Joseph Jabez Morning, un folksinger a cui hanno cambiato la chitarra con un fucile ovvero un soldato con troppe utopie fin troppo a disagio in una dimensione in cui “gli ordini non hanno niente a che vedere con la razionalità: stanno lì per essere impartiti ed assolti, e non bisogna cercare un senso in tutto ciò”. Per tre quarti, Uno per battere il passo racconta la vita monotona e sbracata in una caserma filippina e le folli escursioni in città, in cerca di un oblio che arriva a forza di birre e puttane e dell’illusione che “tutto è possibile nell’oscurità che precede il mattino”. Una lunga escalation che sfocia nell’ultimo quarto di Uno per battere il passo che si apre con un brevissimo ed esplosivo squarcio nella guerra del Vietnam dove il gruppo guidato da Krummel e Morning viene trasferito agli albori del conflitto, con una micidiale e bruciante descrizione di un conflitto a fuoco con i vietcong che entra di diritto nella storia. L’esperienza è la stessa che segna per sempre ogni veterarno perché, come ricorda il Jacob Slagsted Krummel, “tutti i guerrieri finiscono per rientrare a casa, ma non ero certo di come o di quando la battaglia fosse finita, e non riuscivo più a distinguere il giorno dalla notte”. Quel buio perenne, privo di contorni, senza memoria è la ferita più nera da cui Uno per battere il passo non riesce a distogliere lo sguardo. Con una conclusione che chiarisce alla perfezione la natura e l’essenza stessa della scrittura di James Crumley: “Lo so. Voi preferireste sentirmi raccontare del terrore, dei polmoni che sembravano spaccarsi in due in cerca di una boccata d'aria, dell’impercettibile ma ormai permanente tremore che faceva traballare le mie mani, dei vortici di follia che si impadronirono del mio cervello, o della diarrea che mi sgocciolava lungo una gamba. Ma voi, questo aspetto della storia, lo conoscete già a memoria. Feci quello che feci. Due uomini morirono, altri due rimasero in vita, forse. Non bisogna andare a cercare alcuna logica in tutto ciò. Il terrore ed il tremore non sono una giustificazione; l’azione non ha nulla a che vedere con la ragione; ed i morti sono morti”.
martedì 22 febbraio 2011
Francis Scott Fitzgerald
domenica 20 febbraio 2011
James Jones
Nell’erba di Guadalcanal, una delle più sanguinose battaglie della seconda guerra mondiale, i soldati si trovano di fronte a nemico nascosto nella florida natura tropicale. Di fatto è invisibile e agli uomini a cui è stato ordinato di stanarli non resta che salire sulle colline, una dopo l’altra, passo dopo passo, per andare incontro alla propria morte e per portarla al nemico. L’attacco frontale voluto dal comandante americano si rivela un massacro e solo la disobbedienza di un ufficiale permetterà di conquistare le posizioni giapponesi, dove i soldati riverseranno tutta la furia della vendetta. La guerra è una questione complicata e James Jones ne rappresenta una delle versioni più dettagliate che si conoscano. I particolari della vita quotidiana dei soldati incastrati nei tormenti della giungla che devono resistere a tutto per poi morire davanti a una mitragliatrice giapponese sono eloquenti nel ricostruire la devastante essenza della guerra. Dove non bastassero le elaborate descrizioni di James Jones ci pensano i soldati, in prima persona a spiegare una condizione agghiacciante: “C’erano troppe precauzioni da prendere. Un uomo non poteva badare a tutto per difendersi. Era tanto facile ammazzarsi per caso quanto essere uccisi dalla volontà del nemico”. James Jones va anche più in là, nel senso che scoperchia i risvolti psicologici di ogni soldato (quello che ha lasciato a casa, quello che perderà per sempre, quello che è già morto e non lo sa), i conflitti con ufficiali arroganti e indifferenti e un pezzo dopo l’altro prendere forma una visione completa dell’assurdità della vita militare che trova una sua ragione di essere, alla fine, nell’indispensabilità dell’eroismo. Come spiega senza tanti fronzoli anche uno dei protagonisti della Sottile linea rossa: “uno dei rischi della vita militare era che ogni vent’anni, puntuale come un orologio, quella parte della razza umana alla quale appartenevi, quali che fossero la sua politica o i suoi ideali nei riguardi dell’umanità, andava a impegolarsi in una guerra, e poteva toccarti di combatterla”. Come in ogni grande ritratto della guerra vissuta e vista da dentro, anche La sottile linea rossa traccia un perimetro molto chiaro tra realtà e fantasia in cui prende forma la guerra. Prima di tutto, c’è la realtà: “Era un’orribile visione: tutti facevano la stessa identica cosa, tutti incapaci di fermarla, tutti devotamente e fieramente convinti d’essere dei liberi individui. Si espandeva fino a includere un gran numero di nazioni, milioni di uomini, che facevano lo stesso su migliaia di colline in tutto il mondo. E non finiva lì. Continuava. Era il concetto, il concetto?, il fatto, la realtà, dello stato moderno in azione”. Poi c’è il comprensibile tentativo di sfuggirgli visto che “ognuno viveva secondo una finzione rigorosa. Nessuno, in realtà, era ciò che pretendeva di essere. Era come se ciascuno avesse inventato una storia su di sé, e poi fingesse con tutti di esserne il protagonista”. Un piccolo escamotage per chi non ha più difese e sa che là, in mezzo all’erba, lo aspetta l’inevitabile.
mercoledì 16 febbraio 2011
Charles Williams
martedì 15 febbraio 2011
Jim Carroll
Gay Talese
Gay Talese racconti i gatti di New York come se fossero “rain dogs” e potrebbe sembrare l’argomento dell’ennesimo, bizzarro storyteller, invece è uno scrittore capace di dare un senso specifico al suo ruolo e alla sua scrittura, fiction o non fiction che sia perché, come dice lui stesso nella conclusione di Frank Sinatra ha il raffreddore, “ho sempre creduto, e ho sperato di dimostrarlo con i miei sforzi, che bisognerebbe prestare attenzione alla gente comune anche nella letteratura che non è di finzione, e che, senza cambiare i nomi e falsificare i fatti, gli scrittori dovrebbero produrre quella che qui chiamo letteratura della realtà”. Il gusto per il dettaglio, sia che si tratti del il piccolo particolare che rende credibile ogni racconto, sia che si tratti di scelte definitive nell’impostazione della scrittura trasforma il suo modo di vivere il giornalismo che è punto di partenza nonché destinazione finale. Le fondamenta, su cui sarebbe utile riflettere ogni tanto, sono quelle di un’attenzione non comune ai soggetti, agli incontri e ai ritratti che Gay Talese spiega così: “Non ho mai scritto di nessuno per cui non nutrissi un minimo rispetto, e questo rispetto è evidente nello sforzo che esprimo nella scrittura e nell’impegno per cercare di comprendere ed esprimere i punti di vista dei soggetti della storia e delle forze sociali e storiche che hanno contribuito a formare il loro carattere, o la loro mancanza di carattere”. Per descrivere un mancato appuntamento, quello con Frank Sinatra, che non volle rivorgergli la parola, come un incontro epico, e senza inventarsi nulla, ci vuole tutta “l’arte del praticare”, la capacità di attraversare e leggere attraverso New York, “una città di cose che passano inosservate” e una visione che è “ispirata alla curiosità, è sostenuta dall’essenza delle persone e dei posti che mi sono lasciato alle spalle, la gente trascurata, quella che non fa notizia”. La sua narrazione del minimo quotidiano con il massimo dell’arte dello scrivere mette in simbiosi il giornalismo e la narrativa in un modo più unico che raro, anche se Gay Talese non nasconde particolari segreti, anzi si confessa in modo piuttosto genuino: “Venivo da un piccola città, e le mie percezioni erano alquanto provinciali. Provavo un senso di meraviglia per tutto ciò che gli altri trovavano normale. Pensavo valesse la pena di scrivere del consueto, degli avvenimenti quotidiani che facevano parte della routine di un individuo medio”. La dedizione al common man, anche quando si chiama Frank Sinatra o Joe Di Maggio, è il suo elemento primordiale e la spinta, l’ispirazione “l’unica qualità essenziale è la curiosità, e la forza di evadere e di conoscere il mondo e le persone che conducono vite straordinarie o che occupano posti oscuri”. Qualcosa che vale come una vocazione che Gay Talese dispensa con entusiamo perché “ci sono storie dappertutto, sotto i nostri occhi, alla nostra portata”. Basta liberarle dalla realtà: il bello, e il difficile, deve essere proprio quello.
giovedì 10 febbraio 2011
Edward Bunker
lunedì 7 febbraio 2011
Charles Bukowski
La raccolta di racconti A sud di nessun nord, insieme alla ristampa Taccuino di un vecchio sporcaccione (che gli fruttò diecimila dollari di anticipo dalla City Lights) segnò una prima, importante svolta nella carriera di Charles Bukowski. L'outsider, incomprensibile e scorbutico, cominciava ad essere riconosciuto per uno stile, disordinato e iconoclasta finché si vuole, ma comunque unico. Nonostante tutto (le letture pubbliche sempre più affollate, gli assegni, le proposte editoriali) il Buk, come ribadirà spesso e volentieri, con una coerenza immacolata, insisteva nel posizionarsi ai margini della società, come scriveva in Un vero uomo, uno dei racconti più intensi e incisivi di A sud di nessun nord: “Come può dirvi chiunque, io non sono un brav'uomo. E' una parola che non conosco. Ho sempre ammirato il cattivo, il fuorilegge, il figlio di puttana. Non mi piacciono i bravi ragazzi coi capelli corti la cravatta e il buon posto. Mi piacciono gli uomini disperati, gli uomini con i dentri rotti e il cervello rotto, gli uomini che si sono rotti. Mi interessano. Sono pieni di sorprese e di esplosioni. Mi piacciono anche le donnacce, puttane ubriache con la bocca piena di bestemmie con le calze molli e la faccia stravolta dal mascara. Mi interessano di più i pervertiti che i santi. Con i barboni riesco a rilassarmi perché sono anch'io un barbone. Non mi piacciono le leggi, la morale, le religioni, le regole. Non mi piace farmi plasmare dalla società”. Come lui, tutta la progenie picaresca dei suoi personaggi colti in quelle zone crepuscolari dell'esistenza dove è difficile capire, per usare parole sue, dove è andata storta e dove è andata diritta. Sempre inchiodati ai marciapiedi o a lavori impossibili in cui “ci si stancava e veniva voglia di smettere e poi ci si stancava tanto che ci si dimenticava di smettere, e i minuti non finivano mai e si viveva in eterno dentro un minuto, senza speranza, senza via d’uscita, intrappolati, troppo stravolti per smettere e senza un posto dove andare se si smetteva”. Date queste coordinate, ogni racconto è un microcosmo a sé dove il caso e la storia si abbracciano in modo caotico nello sproloquio della scrittura di Charles Bukoswki che ammetteva, con il suo tipico e onesto candore di avere il “il cervello in tumulto contro la vita e il destino”. Il particolare e personalissimo flusso di coscienza dei racconti di A sud di nessun nord trova un’eccezione tragicomica con Storia di una bandiera viet cong dove l'ineffabile Buk, raccontando uno stupro, in un colpo solo mette alla gogna tutta la cultura hippie. Ricordando comunque che, come tutti, anche il loro destino era accettare e subire il volto di una nazione, detto con le parole del Buk, “cazzi acidi, come si suol dire, questa è l'America. Non volevamo molto ma non riuscivamo ad avere nemmeno il poco che volevamo. Cazzi acidi”. Senza cattiveria, e con il solito ghigno divertito stampato in faccia, A sud di nessun nord è l’apologia del fuorilegge e una bussola per tutti gli outsider.
giovedì 3 febbraio 2011
John Steinbeck
“C’era una volta una guerra, tanto tempo fa, poi vennero altre guerre e altri modi di fare la guerra, tali che coloro che ne furono travolti ne eludono il ricordo” ed è qui che John Steinbeck interviene in qualità di reporter a seguito dell’esercito americano nella seconda guerra mondiale. Il suo racconto è vivido, sferzante e “responsabile”, come ripete con una certa frequenza John Steinbeck. Del resto, l’argomento è complicato almeno quanto surreale e John Steinbeck non concede nulla alla classica intossicazione degli inviati di guerra: non lascia spazio né all’adrenalina né all’assuefazione, viaggia con i soldati o racconta i radi dei bombardieri con lo stesso tono neutro e un po’ malinconico dei piloti attorno alle loro birre o dei marinai sulla tolda delle navi. John Steinbeck è più votato a proteggere l’idea di trasmettere una visione della guerra che a “coprire” le gesta belliche. Il suo disincanto è totale, palpabile, inconfondibile: eroismi, valore, coraggio e altri elementi epici dei combattimenti sono mantenuti ai margini, fuori dalla fotografia. Il suo diario racconta di guerrieri sporchi, sudati, stanchi, annoiati e ormai incapaci di collegarsi al proprio tempo perché “gli uomini che stanno in battaglia a lungo non sono normali. In seguito sembrano reticenti, ma forse non ricordano molto bene”. D’altra parte “i corrispondenti erano gente strana, bizzarra ma responsabile. Gli eserciti, per loro natura, dimensioni, complicazione e comando indulgono agli errori, errori che possono essere spiegati oppure trasformati in resoconti ufficiali”. A John Steinbeck interessano molto di più le emozioni, le storie, le piccole magie e le tante superstizioni dei soldati che nella sua ricostruzione trovano persino una logica ben precisa dato che “se la follia disorganizzata di cui facevamo parte aveva un intoppo, non soltanto era previsto, ma faceva parte di una più vasta strategia dalla quale immancabilmente sarebbe scaturita la vittoria”. La cronaca della conquista, se così si può chiamare, di Ventotene è esemplare, da questo punto di vista: John Steinbeck la mostra attraverso gli occhi dei soldati e, da grande narratore, riesce a spiegare con grande chiarezza le dinamiche tra le catene di comando, i piani per l’attacco e per la difesa e poi la resa finale. Tutto in un’atmosfera ipnotica, che plasma con grande accuratezza l’idea di un oblìo necessario a sopravvivere, che John Steinbeck inquadra così: “Forse è giusto e perfino necessario dimenticare i disastri, e le guerre sono di sicuro disastri cui la nostra specie sembra incline. Se potessimo trarne un insegnamento, sarebbe utile tener vivi i ricordi, ma purtroppo non abbiamo questa capacità”. Lo si capisce fin dal titolo che servirebbe uno sforzo mnemonico, dato che “ogni guerra è sintomo del fallimento dell’uomo come animale pensante” e visto che “ora da molti anni respiriamo paura e ancora paura, e la paura non conduce a nulla di buono. I suoi figli sono la crudeltà e l’inganno e il sospetto che germogliano nelle nostre regioni oscure. E come stiamo avvelenando l’aria con gli esperimenti nucleari, così ci avveleniamo l’anima con la paura, uno stupido canceroso terrore senza volto”. E’ così: C’era una volta una guerra, e c’era una volta un grande scrittore che ha capito tutto.