Non abbiate paura comincia proprio come finisce, un ciclo che si svolge tutto
nei contorni di una cittadina, o meglio, davanti al palco di una recita
scolastica. Allan Gurganus in person è in platea con l’amica Jemma ed è lei che
lo introduce alla storia della coppia seduta accanto a loro. A sua volta, è
come se mettesse la scena di fronte al lettore: la rappresentazione è lì,
plastica, in tutta evidenza, senza via di scampo. La capacità di Allan Gurganus
di vederla, nel suo insieme, e di mostrarla, è il vero segreto di Non
abbiate paura:
va letto come un lungo piano sequenza che parte da un incidente su un lago del
North Carolina e sconvolge l’esistenza di una ragazza costretta, dopo la
perdita del padre, a dare in adozione il figlio. Il lettore rimane inchiodato
lì a fissare il proscenio mentre i personaggi (che sono sempre gli stessi)
mutano davanti ai suoi occhi. Un sottile rivolo sotteraneo scorre incestuoso,
come se la famiglia (un’idea piuttosto aleatoria di famiglia) fosse
autoreferente e autoindulgente, mentre la ragazza, figlia e madre nello stesso
tempo, assume le sembianze di Nonabbiatepaura e a quel punto, con un nome che
coincide con il titolo, decide di diventare protagonista e di andare alla
ricerca del figlio perduto. Allan Gurganus non nasconde che “le stesse storie
travolgenti delle tragedie greche si consumano in qualche traversa delle nostre
cittadine dove si pagano le tasse” e ci spolvera sopra quel tanto di modernità
digitale da rendere Non abbiate paura realistico e credibile. L’incrocio nella
rete, in un mondo invisibile più che virtuale, la ricerca l’uno dell’altra
attraverso documenti sepolti nel tempo, ormai inutili (ai più) e invece tracce
di un passato che non passa mai, di un passato comune, di qualcosa che rimane,
celebra un legame tra madre e figlio, tra figlio e madre, che supera le
barriere del tempo, delle convenzioni, delle distanze e persino della stessa
famiglia, e si materializza attraverso una percezione extrasensoriale. Il
paradosso è l’anima della storia di Non abbiate paura, e per estensione di
tutti i suoi personaggi, destinati a entrare “in un tempo in cui gli anni
rubati finalmente si sublimavano in particolati, restituendo loro istanti veri,
usabili”. Come utilizzare quei dettagli è anche l’ossessione di Allan Gurganus
che è “già a immaginare centinaia di modi in cui si potrebbe raccontare a
qualcuno una simile saga. Così tanti interrogativi nascosti. Prima devi mettere
insieme i fatti certi. Una volta afferrati, ti possono offrire un nuovo modo di
vedere le cose. Dopo esserti documentato, ti ci devi addentrare con la
fantasia, cogliere almeno una frazione del prezzo e del premio”. I passaggi
essenziali, alla fine, sono due: “Per essere capita e ascoltata, una storia
dev’essere prima raccontata” dice con convinzione Allan Gurganus e sembra una
banalità, ma è proprio il senso, molto istruttivo di Non abbiate paura perché poi “invece di
disapprovare, qualcuno potrebbe decidere, se ci riesce, di cercare di amare
tutta questa materia viva”. Ecco, Allan Gurganus ha seguito il consiglio di
Anton Čechov (“Fidati dell’abbondanza, e basta”) e ha scelto un modo curioso,
un insolito punto di partenza e di osservazione, ma da lì in avanti è tutto in
discesa. Notevole.
lunedì 30 marzo 2015
venerdì 20 marzo 2015
Nickolas Butler
Quattro amici, raddoppiati dalle rispettive consorti,
fidanzate mogli o ex, si inseguono nel recinto di una cittadina del Midwest. Si
sposano, si separano, si tradiscono e tirano avanti in un modo o nell’altro:
c’è Lee, la rock’n’roll star in cerca d’ispirazione e di se stesso, poi Kip, il
self made man di turno, e Henry, che non se ne è mai andato e Ronny, sfortunato
eroe dei rodeo. Ci sono Clohe, Beth, Felicia, Lucy, partono e ritornano e si
scambiano le vite, sovrapponendo desideri, ambizioni, fallimenti e ricordi, un
sacco di ricordi. La suddivisione delle voci dei personaggi, per quanto
schematica, è pratica e funzionale nell’ondeggiare della storia che non ha
particolari sussulti, almeno fino alla parte conclusiva, rocambolesca e un po’
confusa, perché quando diventa “tutto reale, molto plausibile”, Shotgun
Lovesongs
sfuma in una breve coda melanconica. Nickolas Butler mantiene una certa
sobrietà nell’assemblare le diverse esistenze, solo che le identità rimangono
sfuggenti. I lineamenti sono
descritti al minimo sindacale, dal solido Henry (“Il segreto è una buona
colazione e calze robuste. Ma più di quello, conta essere felici. E ancora più
di quello, conta lavorare sodo”), alla titubante Beth, dall’intraprendente Kip
e infine all’enigmatico Lee, nell’addentrarsi di Shotgun Lovesong e nell’accavallarsi dei
ruoli, ma alcune lacune diventano via via sempre più ingombranti. Verso la
metà, la narrazione comincia a ripetersi e ad arrancare: l’atmosfera è sempre
in sospeso tra la commedia e il dramma, senza cedimenti in nessuna delle due
direzioni, ma anche senza approfondirle. Pesa più di tutto, vista anche
l’importanza che riveste per Shotgun Lovesongs, l’assenza della musica e
delle canzoni di Lee: rimangono indefinite in un contesto che sembra
comprendere “echi di Bob Dylan o Neil Young, permutazioni del loro lavoro” e i
Guns N’Roses, quando poi tutti ascoltano l’ordinaria amministrazione country
& western di Garth Brooks. Se è pertinente (eccome) l’evocazione di Can’t
Help Falling In Love, l’identità musicale di Lee rimane tra parentesi, e non è un
difetto da poco. Potrebbe stare tra 14 Songs di Paul Westerberg o Heartbreaker di Ryan Adams, ma
sarebbe stato bello scoprire cosa c’è in Shotgun Lovesongs, il suo più grande
successo e nello stesso tempo il suo disco più rappresentativo. Invece rimane
lì sospeso in mezzo all’heartland ed essendo anche il titolo del romanzo, resta
l’interrogativo riguardo al “fatto di esserci sentiti come se fossimo separati
da tutto quello che conoscevamo, come se fossimo migliori del posto che ci
aveva fatti. Eppure, allo stesso tempo, essere innamorati di tutto quello”.
Tutto quello che rimane è Little Wing il Wisconsin, “out there in the middle”
per dirla con James McMurtry, una smalltown dove tutti si conoscono e che è il
vero palco di Shotgun Lovesongs perché “l’America, per, me è gente povera che suona musica,
gente povera che condivide il cibo e gente povera che balla anche quando tutto
il resto nella loro vita è così triste e disperato che sembra non debba esserci
alcuno spazio per suonare, mangiare o abbastanza energie per ballare”. Ci si
accorge troppo tardi che “la vita era successa”, e quando avviene, il romanzo è
già passato e le sue tracce sono sbiadite, come le orme nella neve dei suoi
confusi protagonisti.
venerdì 13 marzo 2015
Saul Bellow
E’ incredibile come Saul Bellow
riesce a dar forma al racconto, allo stile, al senso ultimo della sua scrittura
anche nell’ambito fragilissimo di un’intervista o “un frammento di memoriale”
stando alla definizione di Norman Manea. E’, in effetti, un scorcio
autobiografico molto dettagliato che si distribuisce in tutti i rami della
famiglia Bellow, dall’ottobre 1917 in poi, con l’arrivo in America (e a New
York in particolare) a cui non risparmia una delle sue caustiche analisi: “Una
delle cose che bisogna dire degli Stati Uniti è che ti garantiscono il
privilegio, sebbene tu sia un idiota, di esserlo senza provocare grossi danni”.
La parte più sincopata dell’intervista, dove le domande di Norman Manea e le
risposte di Saul Bellow tendono a sovrapporsi, è proprio quella attorno alla
vita a New York e al percorso di avvicinamento e comprensione all’America, per
entrambi non privo di ostacoli. E’ una parte affascinante, dove affiora la
formazione e spuntano i legami letterari di Saul Bellow, poi Norman Manea, che
gode della sua fiducia per non dire di un certo grado di familiarità, lo
incalza, su temi specifici, l’esilio, la fede, le rivoluzioni e le guerre, non
ultima (anzi) l’identità dell’artista e la valenza del suo lavoro in mezzo a
tutto ciò: “Per uno scrittore come te, la cosa più importante è il modo in cui
l’arte accoglie l’ambiguità. Il modo in cui insisti per lasciarla penetrare”.
La risposta di Saul Bellow è così articolata e diffusa che, a conti fatti,
occupa gran parte del resto del colloquio. Prima bisogna risalire, come
premessa, al discorso tenuto in occasione in occasione del Nobel dove diceva
che “esiste un’altra realtà, quella vera, che abbiamo perso di vista. L’altra
realtà ci manda sempre dei suggerimenti che, senza l’arte, non saremmo in grado
di cogliere”. Il confronto si sposta sul piano pratico, sull’applicazione
concreta delle percezioni e delle loro traduzioni e da lì i passaggi successivi
si incastrano uno dopo l’altro. Dice infatti Saul Bellow rispondendo
all’ennesima sollecitazione di Norman Manea: “Nella scrittura, tutte queste
domande su quello che è e non è vero, su quello ci puoi e non puoi credere
diventano reali, e senti di avere l’obbligo di trovare una risposta, per così
dire, di modellarle con la tua coscienza artistica. E’ una strana posizione in
cui trovarsi, ma è così”. E’ una sensazione che Saul Bellow ha ribadito anche
in altre occasioni, quando ha spiegato che “scrivere è un modo come un altro
per organizzare il caos, per dare ordine al disordine”. Con Norman Manea il dialogo
è più aperto e approfondito e Saul Bellow appare molto sincero quando dice che
“da quando ho aperto gli occhi su questo mondo, ho avuto l’impressione che
fosse schiavo di un’idea di ordine che però in realtà non ha mai funzionato per
nessuno”. Se la letteratura o l’arte tout court possa essere un valido
tentativo per farsene una ragione non si sente nemmeno lui di assicurarlo, né
dal punto di vista dello scrittore (“Nei libri riesco davvero a mettere tutta
una serie di cose strane, ma sotto una luce divertente. Alla fine viene fuori
così”), né dal punto di vista di chiunque (“Sai, non ti rendi mai conto di
com’è stata folle la tua vita finché non la racconti”). Trattandosi di una
sorta di lascito Saul Bellow confessa a Norman Manea che “è così che faccio
tornare i conti, prima di andarmene” e all’imponderabile domanda sul futuro,
risponde serafico: “Al momento sto riflettendo su cosa fare. Sto ripensando
alle cose, e leggendo”. Un maestro.
lunedì 9 marzo 2015
Colum McCann
In volo sopra l’Atlantico, un
aereo di legno e di tela accompagna una lettera verso la fine di un’epoca, e
l’inizio di un’altra, “la distanza finalmente annullata”. La minuscola
corrispondenza è il misterioso elemento di un viaggio nel ventesimo secolo che
ondeggia avanti e indietro, risale al 1845 e arriva fino ai nostri giorni ed è
punteggiato dagli incontri e dagli incroci nel tempo e nello spazio, lungo le
coste tra America e Irlanda, tra fiction e realtà, perché “le nostre vite sono
spesso catapultate all’interno di lunghe orbite migratorie”. Questi tracciati
s’intersecano con gli eventi e i personaggi storici, che vedono, tra i più
importanti, il viaggio di Frederick Douglass in un’Irlanda povera e buia e gli
sforzi di George Mitchell nel processo che portò all’accordo del venerdì di
Pasqua nel 1998. Per la prima volta nella sua vita, Frederick Douglass venne
trattato “non come un colore, ma come un uomo”, solo che deve confrontarsi con
la miseria e la carestia prodotte da quell’occupazione che Colum McCann
definisce “autocolonialismo”. Un fantasma che riappare più di cent’anni dopo,
quando George Mitchell, “man of peace” americano insiste con “la necessità di
non smettere mai e poi mai di ripetere ciò che è già stato detto”, fino alla
firma degli accordi. Le contraddizioni del “secolo breve”, “come le nostre vite
vengono intrecciate dalle guerre, così il mistero ci tiene uniti”, dai due
conflitti mondiali alla secessione americana ai “troubles” irlandesi si
riflettono nella vita di una folla di personaggi il cui unico sogno è “giungere
a destinazione”, ma devono scontrarsi con gli eventi storici che cadono dal
cielo come una pioggia inaspettata, nonchè con “il mondo intero in costante
movimento. Sempre di fretta. Le leggi ineluttabili della nostra autoimportanza.
In quanti siamo lassù in questo esatto istante? A guardarci dall’alto,
sparpagliati nel confuso e sfocato panorama qui in basso? Che strano osservarsi
riflesso nel vetro, quasi fosse contemporaneamente dentro e fuori. Il ragazzino
che osserva l’uomo ridiventato padre sorpreso tanto per cominciare di essere
lì. La vita, e il suo talento nel distribuire gli imprevisti sempre che nulla
giunga mai a compimento”. Colum McCann è uno scrittore che ha un suo
particolare tatto, ormai riconoscibile, nel trattare temi esplosivi. E’ una
specie di artificiere della parola e del racconto che sa disinnescare e rendere
agibili anche le contorsioni più pericolose perché “è sempre una grossa
tentazione, raccogliere la schiuma che nottetempo si è formata sul mondo: quale
sommossa ha scosso la città, quale elezione è stata truccata, quale povero
barman si è ritrovato a spazzare sui cadaveri”. Così, proprio come la busta che
ha solcato l’Atlantico rimane un messaggio nascosto al riparo delle guerre per
un secolo, TransAtlantic resta
sospeso tra una sponda e l’altra, naviga a vista e Colum McCann è sorpreso, più
di tutto, per “come il linguaggio a volte ci diserti, per come il futuro
riservi domande che dovevano essere poste in passato, per come le parole ci
possano sfuggire così facilmente, abbandonandoci lì, alla loro ricerca”.
L’interrogativo trova una sua definizione nella sfumatura finale di TransAtlantic, crepuscolare e non priva di una sua delicatezza: è
un piccola via d’uscita e insieme una coda enigmatica per un bel romanzo, con
uno stile semplice e diretto, per quanto non allineato nelle questioni che
lascia lì, tra un cielo e un mare che sembrano specchiarsi l’uno nell’altro.
lunedì 2 marzo 2015
Alice Munro
“La
vita non è mai abbastanza” ed è per quello che esiste la letteratura, sembra
suggerire Alice Munro. Le opzioni che si susseguono in Il sogno di mia madre sono fatte apposta per confermare il suo
motto. La varietà delle forme narrative contenute, da Una donna di cuore, che è quasi un breve romanzo a Cortes
Island, una brevissima
short story, dalla linearità di Le bambine restano alla complessità di Il sogno di mia
madre, è resa uniforme
dal tema ricorrente nei racconti di Alice Munro: donne che se ne vanno,
oppresse da quello che in Giacarta
chiama “il peso materno” o per provare “la sensazione di pacato trionfo” nel
rendersi conto di essere sole, come scrive in Ricca sfondata. Più di tutto, è “un’idea che ha a che
fare con il non dover proseguire, non dover tornare a casa” e il più delle
volte si traduce nell’inventarsi “uno spazio per sé, una fuga interiore”. Un
proprio tempo, che pare essere ricalcato nelle continue deviazioni imposte da
Alice Munro: spesso e volentieri schiva l’ordine cronologico e si concede
flasback, ricordi, divagazioni, persino il rincorrere dei motivi di un antico
gioco infantile, su cui costruisce tutto Salutate il mietitore. Il capolavoro di questa scomoda
architettura, in sé una lettura molto stimolante, è proprio Il sogno di mia
madre in cui, con la
colonna sonora del Concerto per violino di Mendelssohn, sovrappone più e più piani di indagine,
alzando in continuazione il livello e “l’onore
di una scrupolosa attenzione”. L’altro estremo è ben rappresentato da Le
bambine restano, la cui
protagonista, Pauline, racchiude in sé un po’ tutti i caratteri dei personaggi
di Alice Munro. Pauline ha un rapporto diafano e superficiale con il marito,
appesantito dalla presenza di un suocero molesto. Mentre sono tutti insieme in
vacanza, con le due figlie piccole, Pauline, tra le mille incombenze
casalinghe, scopre “un’affinità di sensazioni” con il regista di una versione
dilettantesca del mito di Orfeo, in cui lei, neanche a dirlo, deve interpretare
Euridice. Il desiderio è una marea inarrestabile e il suo compimento sarà più
inevitabile che entusiasmante (“La procedura non conosce poi tante varianti, a
dispetto di quanto si dice. Contatti di pelle, gesti, la resa”). La fine della
storia è lancinante, com’è prevedibile fin dal titolo, perché, come scrive
Alice Munro, “eppure, che dolore. Da portarsi appresso e farci l’abitudine fino
a quando è solo del passato che si soffre e non di qualsiasi presente
possibile”. E’ il prezzo da pagare e la partenza di Pauline comincia da molto
lontano visto che “proveniva da una famiglia dove le cose si prendevano
talmente sul serio che suo padre e sua madre avevano divorziato”. E’ il
costante ribaltamento di ruoli e posizioni tra madri e figlie, donne e bambine
che anima la narrativa di Alice Munro insieme alla sua straordinaria capacità
di cogliere piccoli dettagli tra “prati
e cespugli, steccati, giardini e alberi, tutti coperti di mucchi e cuscini di
neve, ancora non livellata o scomposta dal vento. Il bianco di quella neve non
feriva gli occhi come quando ci batteva il sole. Era il bianco di neve sotto un
cielo sereno poco prima dell’alba. Ogni cosa era ferma”. D’accordo che, come
diceva qualcuno, la neve è sopravvalutata, ma quando Alice Munro riesce a
colmare la differenza tra i riflessi con il sole ormai alto e invece, all’alba,
dove la luce è più gentile, anche il Nobel diventa relativo.
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