martedì 31 maggio 2011
Mykle Hansen
Charles Bukowski
Il suo mondo di “ordinaria follia” è più beat dei beat ed è più lost dei lost: Charles Bukowski è un outsider geniale e incontrollabile che si inventa un universo tutto suo dove il sesso (più di ogni altra cosa), le corse ai cavalli, la birra e il vino costituiscono gli elementi standard del racconto, i soggetti con cui costruisce la sua narrativa e con cui sviluppa la sua stessa voce. Le sfumature scandalose, se ancora si possono chiamare così, le espressioni colorite dello slang, la punteggiatura che va e viene secono un’anarchia totale delle pagine rendono Bukowski unico soprattutto per lo stile, per il linguaggio, per il modo di affrontare la scrittura. Uno dei suoi possibili autoritratti, Storie di ordinaria follia ne è pieno, è questo: “Faccio scorrere l’acqua calda, mi immergo nella vasca, stappo una birra, do una scorsa al bollettino delle corse. Il telefono squilla. Lo lascio suonare. Per me, per voi magari no, per me fa troppo caldo per scopare o per parlare con qualche poeta di second’ordine. Hemingway, lui aveva i suoi tori, a me, datemi solo un cavallo. Per me è la prima cosa”. La sua filosofia invece distingue con chiarezza tra le aspirazioni del vincente e l’eterna condizione del loser. Se la vittoria è l’aspirazione nazionale (come scrive all’inizio di Storie di ordinaria follia: “Uno deve riuscire vincitore in America, non c’è niente da fare, non c’è altra via d’uscita, e bisogna imparare a combattere per niente, senza fare domande”) il fallimento e la sconfitta sono gli argomenti preferiti di Bukowski che vivendoli giorno dopo giorno, a modo suo s’intende, ha imparato a riconoscerli a prima vista, tanto da credere di potere insegnare a sua volta la lezione. Eccola qui: “Tutti perdono. Guardateli. Se ne siete capaci. Un giorno alle corse v’insegna più di quattro anni all’università. Se mai insegnassi scrittura creativa, inviterei i miei allievi a recarsi all’ippodromo una volta a settimana e fare almeno una giocata da 2 dollari per ogni corsa. Sul vincente. Non sui piazzati. Chi gioca i piazzati è uno che avrebbe preferito restare a casa, ma poi è andato lo stesso alle corse. I miei allievi diverrebbero senz’altro più bravi a scrivere, anche se molti di loro comincerebbero a vestire in modo trasandato, e dovrebbero magari andar a piedi. Mi ci vedo, insegnante di scrittura creativa”. Chissà il divertimento, ma quello che si propaga da Storie di ordinaria follia è qualcosa che va oltre la scrittura: è un modo irriverente, sfrontato, risoluto e convinto di rimanere ai margini, di godersi la vita con poco e niente, come lo stesso Bukowski confessa: “L’unica premessa era che io non avrei chiesto nulla. E, sopra tutto questo, c’era come una specie di disco che girava e girava, nel retro del mio cervello, e ripeteva sempre lo stesso motivetto: non tentare, non provarci. Una buona norma, direi”. La vera forza di Storie di ordinaria follia e per estensione di Bukowski in lungo e in largo è proprio quella: distinguersi per eccesso di ribasso, accontentarsi di un posto caldo, di una birra fredda e, nella giornata giusta, di un buon cavallo. Il resto è superfluo.
domenica 29 maggio 2011
Jack Kerouac
Philip Roth
C’è stato un momento nella storia degli Stati Uniti d’America in cui Charles Lindbergh, il leggendario aviatore che attraversò l’Atlantico, godeva di una popolarità enorme e da quel palcoscenico gettò nel panico intere comunità con discorsi ambigui, se non di provate simpatie naziste. Il complotto contro l’America è costruito su un presupposto storico fittizio, Charles Lindbergh eletto presidente degli Stati Uniti d’America, ed è un gioco di specchi deformanti e instabili che vertono attorno a un’incognita. La sua complessità nasce da quel grumo congenito, una temeraria trasformazione della realtà per provare a raccontarne un’altra, o forse sarebbe meglio dire un incubo. Può un pretesto storico frutto della fantasia reggere sulla distanza? Il complotto contro l’America è, per certi versi, un grido di dolore nei confronti di un senso di minaccia incombente. Lo scenario che dipana è frutto della condizione americana agli inizi di questo secolo, una cappa di paranoia e paura. “Il nostro paese è in pace. La nostra gente è al lavoro. I nostri figli sono a scuola” eppure c’è qualcosa che è sempre sul punto di esplodere in quella calma apparente. Sono i particolari della vita quotidiana a scoprire le vere trame del complotto contro l’America, a mostrare come incidono certe tensioni nella vita e nei rapporti di tutti i giorni perché “la storia è tutto ciò che accade dappertutto”. Basta una dichiarazione o un appuntamento ufficiale per scatenare Il complotto contro l’America: “Lo svolgersi dell’imprevisto era tutto. Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo col nome di storia, la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea”. Nella patria dei liberi la condizione è imbarazzante, pericolosa e cupa. La paura invece della speranza diventa l’argomento quotidiano ed è vero che “nessuna infanzia è priva di terrori”, ma su Newark il quartiere dove vive cala un sudario di angoscia. Il destino degli ebrei, in Europa, è segnato e convivere con un presidente antisemita e filonazista è una missione che ha i tratti dell’ordalia. In effetti Il complotto contro l’America è per certi versi un grido di dolore nei confronti di una minaccia costante che riaffiora dal passato, quel passato che non passa mai. L’atmosfera plumbea che si forma pagina per pagina è il tono determinante del complotto contro l’America ed è una visione che nasce per osmosi con la realtà perché anche un scrittore minuzioso e fuori dagli schemi come Philip Roth non è impermeabile e Il complotto contro l’America è un modo per spiegare il presente, e forse il futuro, rileggendo il passato. Con uno sguardo speciale perché “è straziante la violenza, quando scoppia in una casa: come vedere i vestiti su un albero dopo un’esplosione. Puoi essere pronto a vedere la morte, ma non i vestiti sull’albero”. Ecco, cosa fa la differenza.
giovedì 26 maggio 2011
Malcolm Lowry
mercoledì 25 maggio 2011
T. M. Rives
Si sono scomodati paragoni altisonanti per il breve esordio di T.M. Rives, giovane scrittore americano trapiantato in Europa. Qualcosa è giusto (anche se invece di Raymond Carver sarebbe più logico parlare di Richard Ford visto che l’atmosfera rimanda senza esitazioni a Incendi), qualcosa si perde per strada. L’esile trama di Il serpente del grano si regge infatti su un racconto costruito sui dettagli e sulle parole “sbucciate come cipolle” e ha tutta una sua eleganza nel gestire i rapporti e i dialoghi tra i (pochi) personaggi, ammettendo “parole strane, affastellate le une sulle altre in ammassi sgraziati. Sistemate in fila, disposte in modo avventato, finché la frase successiva non esplodeva a cancellare la precedente”. In alcuni passaggi è davvero affascinante e non c'è dubbio che T.M. Rives abbia un talento, magari ancora da definire, nel modificare, avvicinandosi e allontanandosi con il suo obiettivo, i punti di vista. E’ proprio nei suoi lati migliori, ovvero la ricercatezza dei dettagli e la simbologia rettile, che però trova i suoi stessi limiti. Purtroppo l’erpetologo di T.M. Rives ha qualche mancanza o Il serpente del grano va preso in senso metaforico (e qui i dettagli vanno a farsi benedire). Un romanzo è pur sempre fiction, rappresentazione della realtà, interpretazione e visione e su questo non c’è dubbio. Però trattandosi di un personaggio non relativo per Il serpente del grano, le nozioni di cui dispone l’erpetologo chiamato in causa sono limitate, se non proprio lacunose. Uno spicciolo supplemento d’indagine aiuta a capire. La elaphe guttata guttata, questo il nome scientifico del serpente del grano (che a sua volta è una delle tante variazioni dei serpenti dei ratti) una volta catturata o in difficoltà emana, per reazione e per difendersi, un muschio puzzolente. Il dettaglio, nell’economia del racconto, non è relativo: Macey (la figlia) e la madre vivono sole (memorabile lo scambio di battute sulla sorte del padre), in “un luogo immediatamente riconoscibile. L’aria stessa aveva qualcosa di selvaggiamente familiare, il gradevole schiocco di un lenzuolo bianco steso al vento ad asciugare. Intensità e leggerezza” ed è evidente che almeno nella rocambolesca cattura l’abominevole odore doveva saltare fuori e invece è stato dimenticato. Tra l’altro l’erpetologo ci tiene a specificare che quel serpente del grano è tanto innocuo quanto selvaggio, a differenza degli ibridi (una specie piuttosto comune tra gli appassionati) abituati a vivere in cattività, e quindi a maggior ragione, anche quando Macey lo prende dal terrario o nel finale quando viene scacciato, una certa puzza si doveva sentire. Anche altri dettagli di Mitchell Flatch, l’erpetologo destinato a far saltare gli impalpabili equilibri tra madre e figlia non convincono del tutto, ma per chi non è ossessionato dalla precisione (e comunque sono sempre i dettagli che fanno la storia) o dai rettili, Il serpente del grano è una storia da leggere in una sera, bella ma con riserva.
martedì 24 maggio 2011
Norman Mailer
lunedì 23 maggio 2011
Jess Mowry
domenica 22 maggio 2011
Madison Smartt Bell
venerdì 20 maggio 2011
Stephen King
L’arrivo dell’apocalisse secondo Stephen King viene attraverso un virus letale, un’influenza che non lascia scampo, e riduce l’America come a “un’enorme scatola di latta buttata via, sul cui fondo rotolassero solo alcuni piselli dimenticati”. In un paesaggio piombato in un’era primitiva, desertica e disperata si muove la consueta folla di personaggi manovrata dall’abilità di Stephen King che a ognuno di loro riesce ad attribuire una storia ben precisa. Basta prendere Larry Underwood, songwriter che al momento del disastro stava vivendo ben altri tormenti nella sua vita e nella sua carriera che Stephen King descrive così: “La sua mente ricominciò ad andare alla deriva, rimuginando gli avvenimenti delle nove settimane o giù di lì, ancora cercando di trovare una specie di chiave capace di chiarire tutto quanto e di spiegare come fosse possibile che uno sbattesse contro un muro di pietra per sei lunghi anni, suonando nei locali notturni, incidendo nastri di prova, esibendosi dove capitava, tutto questo insomma, e poi di colpo sfondasse, nel giro di nove settimane. Tentare di vederci chiaro era come cercare di inghiottire una maniglia. Ci doveva essere una risposta, pensò, una spiegazione che gli permettesse di respingere l’idea orribile che tutta la faccenda fosse stata un capriccio, un semplice scherzo del destino, per dirla con Bob Dylan”. Dylan, non a caso con Shelter From The Storm, è citato nelle epigrafi introduttive di L’ombra dello scorpione con Bruce Springsteen (una bellissima citazione del finale di Jungleland) e dei Blue Oyster Cult (la classica Don’t Fear The Reaper) e con le citazioni, tra gli altri, di Paul Simon e Chuck Berry: è un’apocalisse impregnata di rock’n’roll dall’inizio alla fine, perché proprio a partire dalla musica e dalle canzoni Stephen King, bisogna ricordare che siamo nel 1978, spiega che “tante cose erano cambiate, tante cose erano fuori posto”. L’aspetto rivelatorio del romanzo va cercato, oltre che nelle odissee dei singoli protagonisti, anche e soprattutto nella sostanza della sua trama. Quando “il peggio è accaduto. Almeno, nei libri, quando succede è finita, qualcosa almeno cambia”, come scrive Stephen King. In L’ombra dello scorpione non basta l’apocalittico sterminio (con contorno di malefiche e metafisiche figure) a far ritrovare uno spirito comune e condiviso ai sopravvissuti che invece, andando a pescare negli infiniti arsenali dell’esercito americano pensano bene di darsi battaglia. Fin qui, e siamo già alle battute finali, L’ombra dello scorpione è fedele alla natura folle e suicida del genere umano (il vero virus che sta devastando un intero pianeta) poi Stephen King fa intervenire uno dei suoi prediletti outsider, Pattumiera, un ragazzino cresciuto tra i rifiuti, a cui l’apocalisse ha consegnato le chiavi per soddisfare le sue spiccate tendenze piromani. E’ uno sgangherato deus ex machina che risolve L’ombra dello scorpione con un accecante bagliore e qui, almeno, “la verità si limita a un sorriso”, ma la visione di Stephen King è lucida e potente, anzi: biblica.
martedì 17 maggio 2011
Andre Dubus
Le Voci dalla luna raccontano di una famiglia trasparente come un vetro scheggiato. Si vede tutto e da Richie, il figlio più piccolo, a Joan, la madre più lontana, la sincerità è regalata, quasi ovvia, come se nessuno avesse più nulla da nascondere. Per comprendere il quadro bisogna però seguire le fratture e sbirciare nelle crepe che separano gli uni dagli altri o negli esili frammenti che ancora li tengono uniti. E’ quando Richie scopre che suo padre Greg vuole sposare Brenda, già moglie di suo fratello maggiore, Larry che il traballante ecosistema della famiglia Stowe si mostra in tutta la sua umana, troppo umana fallibilità. Richie, che è un ragazzino fedele e devoto e vorrebbe trovare spazio alla sua vocazione, confessa a padre Oberti il suo disagio ed è lì che affiorano le prime parole importanti di Voci dalla luna, perché il prete gli risponde: “Pensa all’amore. Loro sono due persone che si amano, ed è faticoso per loro come lo è per gli altri. E anche se è sbagliato, è lo stesso amore”. C’è tutto il romanzo di Andre Dubus in questa frase perché come scriveva Peter Orner nella postfazione, Voci dalla luna “è una meditazione appassionata sulla natura della fede e dell’amore”. Da sempre argomenti complicati e infiniti, e sembra proprio Richie l’unico a viverli con la giusta sensibilità e anche con quel necessario filo di poesia. Greg, Larry e tutti gli altri vorrebbero avere ancora la sua età, nonostante la birra e la pancia e come nota Andre Dubus attraverso i pensieri della madre “Dio mio, c’era qualcosa in questo essere ragazzi che la vita domestica e la civiltà stessa non riuscivano a toccare, e spesso potevano diventare pazzi o esasperanti, ma quando perdevano questa componente, i ragazzi come gli uomini, erano spenti”. Scrittore tormentato e raffinatissimo, Andre Dubus usa le frasi come strisce di nastri adesivo per fissare momenti di tempo che distingue soprattutto con rumori e silenzi: una porta che sbatte, la sirena di una fabbrica, il raschiare del vento, l’assenza improvvisa delle parole in una discussione. I suoni, le Voci dalla luna, tracciano confini, tra padre e figlio, tra marito e moglie, tra amante e amanti. I silenzi sono infiniti, le persone complicate perché lottano contro se stesse. Soltanto Joan, la madre di Richie, l’ex moglie di Greg, riesce a coltivare scampoli di una giusta serenità: infatti rimane sola, con le spalle verso la notte, ad ascoltare “Billie Holiday ed Ella Fitzgerald, Brubeck ed Ellington e Charlie Parker ed Ella Fitzgerald, John Coltrane e Sarah Vaughan”. Ben altri suoni, che assapora mentre modella “la propria tristezza in qualcosa di forte e bello”. Ci sta che, alla fine, è anche la più saggia quando spiega a Larry che “il nostro compito non è vivere grandi vite, il nostro compito è capire e portare avanti le vite che abbiamo”. L’altro ordine, quello di Andre Dubus, è indirizzato agli scrittori e ai lettori: “Non bisogna vendere, non bisogna battersi per un manoscritto. L’unico debito che abbiamo è verso noi stessi e verso quelle storie che ci parlano da quel luogo in cui si trovavano fino a che noi non le abbiamo scritte”. Da leggere e rileggere, spesso, meglio se in una notte d’estate (le Voci della luna si sentono di più).
domenica 15 maggio 2011
Chris Kraus
“Aldous Huxley ha fatto un trip di otto ore con la mescalina. Simone Weil ha fatto un trip di vent’anni con il concetto e la casualità”: bastano una trentina di parole per piombare nel maelstrom di Aliens & Anorexia. Cercando di far prendere forma a un film, Gravity & Grace, la cui strampalata agenda è alla base del romanzo, Chris Kraus cita Flaubert, Deleuze, Guattari, Burroughs, Sartre, Patti Smith, Keith Richards, Artaud, Paul Theroux, V.S. Naipaul, Michel Foucault, Aldous Huxley, Karl Marx, Georges Bataille, Kenneth Rexroth, George Buchner, David Cronenberg. Scrive a Walter Benjamin (“Caro Walter Benjamin prendere LSD nel sud della California non è come si fumava hashish a Marsiglia nel 1939”), vive l’anoressia (“Mettere in dubbio il cibo è mettere in dubbio tutto”) inseguendo Simone Weil, sviluppa e annoda le riflessioni sulle emozioni, sulla filosofia, sulla letteratura, sulla vita. Il metodo è un cut-up & fold in che aggancia messaggi di posta elettronica, citazioni letterarie e filosofiche, pagine di diario, frammenti di storia pescati nella rete, divagazioni ellittiche, dialoghi e monologhi coltivati nell’acidità della solitudine. In questa cacofonia di voci la domanda fondamentale di Aliens & Anorexia emerge dal rumore di fondo come una frustata: “La gente come immagina la propria vita?” e la risposta per Chris Kraus non è mai una, e non è mai semplice. “Non appena i nostri sogni sono sul punto di svanire noi decidiamo di metterli in scena” scrive come se stesse tastando una via nel buio, provando tutte le direzioni, a volte in modo goffo e traballante, a volte in modo sorprendente e geniale, però sempre con una generosità più bulimica che anoressica perché “raccontare una storia è un atto d’amore. Il narratore va diretto alla mente di colui che ascolta, in profondità, o offre serenità e ordine dove non ci sarebbero. La fiaba non nega il caos dell’universo. Offre piuttosto una chance, la possibilità che, in un modo tutt’altro che perfetto, sia possibile fare qualcosa di buono”. Né moderno, né postmoderno, Aliens & Anorexia viaggia in un presente scandito dai tempi impossibili dello zapping televisivo o delle navigazioni in rete ed è altrettanto frenetico, frammentario, caotico, un continuo fuoco d’artificio, che lascia tracce indelebili per piccole porzioni di secondo, finché Chris Kraus giunge “alla conclusione che non si poteva più fare affidamento sulle fiabe alle quali si era creduto, e non ce n’erano di nuove a sostituirle. Le cose non vengono fuori. Vanno in pezzi”. A differenza della dispersione di molti bricoleur che sono arrivati a David Foster Wallace senza passare dal via, Chris Kraus riesce a guardare oltre le scintille e le luminarie della scrittura e della lingua e tenta di comprendere “l’ombra” e “la grazia”, e chissà vorrebbe esserne anche parte. E’ per questo che Aliens & Anorexia ha un concetto particolare di bellezza e lo regge come può: svelandolo, nascondendolo (del resto non viviamo in una belle époque, se mai ce n’è stata una).
giovedì 5 maggio 2011
Joan Didion
mercoledì 4 maggio 2011
Tim Severin
Moby Dick è senza dubbio una delle metafore più avvincenti e monumentali della storia della letteratura, una specie di Odissea rivista e riletta nel tempo. E’ questo il punto di partenza dei viaggi Sulle tracce di Moby Dick perché Tim Severin ci tiene a spiegare (e anche se la citazione è un po’ lunga serve a capire il senso del libro) che Moby Dick è “un mito assolutamente moderno. E da qui doveva partire la mia ricerca: avrei iniziato dall’uomo la cui immaginazione aveva dato vita a Moby Dick, cercando di vedere la balena attraverso i suoi occhi, e poi avrei confrontato le mie scoperte con gli uomini che ancora oggi vanno a caccia di queste grandi creature marine. Se fossi stato fortunato, e se il sentiero scelto era quello giusto, sarei stato in grado di capire se davvero era esistito un grande capodoglio bianco che attaccava le navi in mare aperto. Ma quello che speravo, oltre ogni ragionevole aspettativa, era che una meraviglia delle profondità di tal fatta potesse esistere ancora. Avevo solo una vaga idea di quanto lontano la mia ricerca mi avrebbe portato: non solo attraverso il mari, ma anche nelle vastità delle conoscenze di Melville e nel patrimonio orale sulle balene custodito dai coraggiosi pescatori con i quali ho avuto la fortuna di navigare”. Viaggiatore coraggioso e spericolato (ha viaggiato con i nomadi mongoli e ha solcato il Pacifico su una zattera di bambù) Tim Severin si è reincarnato in capitan Achab e ha ripercorso le mille e mille miglia marine inseguendo il mito di Moby Dick e la realtà dei grandi cetacei, dei pescatori, degli oceani e della navigazione. Sulle tracce di Moby Dick è comunque molto più di un diario di bordo: le indicazioni di Herman Melville (puntualmente citato ad ogni inizio capitolo, a partire dall’esortazione fondamentale: “Cavatevi gli occhi per cercarla, ragazzi: guardate bene se vedete acqua bianca: se vedete anche sono una bolla, segnalate”) non servono soltanto a seguire le linee segrete lasciate dall’ultima grande balena bianca, ma a capire il senso, le dinamiche, la natura stessa di quell’infinito romanzo che è Moby Dick e a dare le giuste coordinate a quello che è anche un viaggio nel tempo. Con le sue fotografie, i suoi disegni, un tono narrativo chiaro e suggestivo Sulle tracce di Moby Dick è anche un gran bel modo per interpretare la letteratura, classica e moderna che sia: indagare sul campo, viaggiare, scoprire paesaggi, uomini e storie è pur sempre meglio che marcire in biblioteca. Sulle tracce di Moby Dick ci si perde nell’oceano Pacifico e dopo un po’ anche la distinzione tra la balena del mito e i cetacei della realtà va sfumandosi tanto è vero che nel cuore del suo reportage, Tim Severin si lascia andare ad una semplice constatazione: “Se oggi la balena scomparisse, l’uomo sarebbe più povero, da tutti i punti di vista”. Basta conoscere soltanto un po' Herman Melville per accorgersi che dietro queste due righe non c'è soltanto un sentimento ecologico e/o zoofilo, ma l’essenza stessa del mito di Moby Dick.