Nelle
strade di Oakland, California la gang è tutto: vita, morte,
famiglia, opportunità (spesso l’unica). Quando le dinamiche,
regolate dai rigidi codici che s’impongono in lotte senza
quartiere, vengono alterate le ansie si moltiplicano perché “è
sempre così: la paura di ciò che succede ti fa vivere nel terrore
di ciò che potrebbe succedere”. Jess Mowry conosce abbastanza bene
le backstreets per lasciarsi ingannare e in Duri
a morire concentra
la cronaca di uno scontro dagli effetti dirompenti: per difendere il
proprio quarto di territorio, la gang degli Amici (si chiama proprio
così) deve fronteggiare uno spacciatore convinto di poterseli bere
su due piedi. La loro filosofia è spicciola e convincente: “Sì,
il mondo ci prova sempre a tenerti sotto, lo sanno anche i sassi, ma
questo non vuol dire che tu devi mangiar merda solo perché te la
mettono davanti al naso”, ma nella loro guerra di periferia trovano
un ostacolo impensabile e ingombrante. Il gorilla dello spacciatore
invadente è Ty, un tempo uno di loro, uno della gang. La questione
non si può risolvere pensando soltanto a un diverso calibro delle
pistole ed è in quel momento che gli Amici si ritrovano prigionieri
del proprio mondo, a partire dalle parole e dal loro uso perché
“Forse quei rap dovevano far capire al mondo com’erano incazzati
i negri, ma dopo aver gridato diecimila volte di seguito a tutti di
andare affanculo, comprese le loro madri, i loro cani e i loro
criceti, sembravano semplicemente stupidi, come un bambino che ha
imparato una parolaccia e che la ripete a chiunque per vedere la
reazione della gente”. Il tono è questo: uno slang duro, grezzo,
aspro e in debito con Chester Himes, ma del resto non si può rendere
con raffinatezza quello che succede nei ghetti e nelle strade, dove
ogni gang ha il suo vocabolario. Anche nella sua limitata percezione
linguistica, Duri
a morire riesce
a dare una dimensione dell’acuta insofferenza, del disagio e della
desolazione in cui ci si dibatte nei ghetti, immersi in un humus di
quotidiana violenza, che si autoalimenta nell’indifferenza delle
istituzioni. La condizione degli afroamericani è un limite fino a un
certo punto perché come Jess Mowry fa dire a uno dei protagonisti:
“Di’ quel che vuoi, ma secondo me nessuno, di qualunque colore
abbia la pelle, può essere felice in qualche posto se non è felice
ovunque”. Quello che convince in Duri a morire è la sua distanza
dai luoghi comuni e il coraggio di svelare quanto i ghetti siano
anche causa ed effetto di un’autoindulgenza che ha il suo peso.
Come si sente dire ancora in Duri
a morire:
“Se quei rap volevano dire che i negri sono grandi e grossi e che
sanno fottere e fare a cazzotti, allora i negri dovevano imparare dai
vietnamiti che, pur essendo piccoli e pacifici, avevano vinto la
guerra e, a giudicare dal numero dei figli, erano fortissimi a
scopare; non solo, ma sapevano anche amarsi tra loro, oltre a servire
un’ottima carne alla griglia”. Magari Jess Mowry la mette giù
nuda e crudo, ma di ragioni ne ha in abbondanza.
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