I motivi per cui Pastorale americana merita di essere ricordato come uno dei (pochi) romanzi fondamentali degli ultimi anni sono infiniti ed esulano dalle sue oltre quattrocento pagine perché questo è un libro che ha bisogno di un lettore per esistere. E' una storia che deve essere condivisa, una storia che ognuno di noi ha già dentro perché "non dimentichiamo le cose solo perché non contano, ma le dimentichiamo anche perché contano troppo (perché ciascuno di noi ricorda e dimentica secondo uno schema labirintico che rappresenta un segno di riconoscimento non meno caratteristico di un'impronta digitale)". Dall'alto della sua straordinaria natura Pastorale americana è un clamoroso, possente uppercut a tutta l'involutissima similletteratura che sproloquia di linguaggio, esperimenti, trasgressione ed altre amenità ma che in realtà tergiversa all'infinito per nascondere una realtà di fatto: che non ha niente da raccontare. Philip Roth taglia corto anche sulla magia della scrittura con quattro righe che andrebbero incise sui muri delle scuole e (soprattutto) delle università: “Scrivere di trasforma in una persona che sbaglia sempre. La perversione che ti spinge a continuare è l’illusione che un giorno, forse, l’imbroccherai. Che cos’altro potrebbe farlo? Come per tutti i fenomeni patologici, non ti rovina completamente la vita”. E’ con questa premessa che Pastorale americana racconta la saga delle quattro generazioni dei Levov, famiglia di immigrati che con il sangue, il sudore e le lacrime si è costruita una propria America. Nel raccontare quasi un secolo di vicende famigliari Philip Roth non lascia nulla al caso e sviscera con identica, chirurgica precisione tanto la manifattura dei guanti (l’attività di famiglia) quanto la spaccatura verticale che, ai tempi della guerra del Vietnam, divide i Levov come tutta l’America. Il passo è sicuro, spedito, senza esitazioni e nello stesso tempo armonico e fluente. Philip Roth tiene il lettore sulla corda, lo lascia divertire con le sue divagazioni o con le storie dei singoli personaggi, come se fosse un abile giocoliere delle parole e della scrittura ma alla fine gli sbatte la realtà in faccia o in posti meno nobili. Con un finale urticante e sarcastico che è esattamente agli antipodi dal punto di partenza. Tutto è classico, perfetto, anche standard, se si vuole, ma meravigliosamente nudo e crudo, tanto che l’affresco dell'America, questo fantasma ideale che aleggia su tutto il romanzo finisce sullo sfondo. Il lettore, alla fine, come del resto tutti i protagonisti di Pastorale americana, impara "la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c'è un senso. E quando capita una cosa simile, la felicità non è più spontanea. E' artificiale e, anche allora, comprata al prezzo di un ostinato estraniamento da se stessi e dalla propria storia". Più che un capolavoro, un caposaldo della letteratura (americana e non).
martedì 29 giugno 2010
Philip Roth
lunedì 28 giugno 2010
Richard Brautigan
Carl Hiaasen
Scrivere necrologi tutti i santi giorni forse non è il punto più basso del giornalismo, ma non è nemmeno l'occasione per dare una svolta positiva alla carriera. Un eufemismo per dire che è un vicolo chiuso, se non proprio un capolinea: Jack Tagger, il protagonista di Crocodile Rock, ci è arrivato perché da buon perdente è innamorato della verità, una rarità che è molto scomoda in quello "squallido gioco di interessi che non ha nulla a che fare con l'onesta pratica del giornalismo". Le sue parole, del tutto condivisibili, dipingono bene il paesaggio umano che lo ricorda e che lo insegue perché il caso vuole che debba scrivere il "coccodrillo" (come in gergo sono sempre stati chiamati i necrologi) di James Bradley Stomarti alias Jimmy Stoma, cantante e già leader degli Slut Puppies (un gruppo che all'apparenza ricorda i Red Hot Chili Peppers). Da lì, Carl Hiaasen imbastisce un noir frizzante e colorito, con molte sfumature (a tratti persino nella cronaca rosa), non ultima una pungente ironia di fondo e con una notevole proprietà dei linguaggi del pop e del rock'n'roll. La fine tragica di una rock'n'roll star (“La fama aumenta le possibilità di morte. Ma la morte aumenta le possibilità di fama. Questo è un dato di fatto”, da cui si dipana tutta la vicenda, è soltanto uno dei cliché o dei luoghi comuni dello stardom system che Carl Hiaasen assembla, da vero e competente esperto: c'è il previsto e prevedibile comeback di Jimmy Stoma (impedito poi dagli eventi) e il relativo lost album, la canzone magica (ovvero il futuro hit) e molto altro ancora, a dimostrazione di una dimestichezza con un vocabolario che solo in apparenza è superficiale, perché se non altro bisogna saper distinguere tra Black Crowes e Counting Crows. Un gergo e un mondo che Jack Tagger deve imparare a riconoscere nel confronto con Cleo Rio, la moglie Jimmy Stoma (la cui personalità coincide in gran parte con quella di Courtney Love, giusto per rimarcare certe coincidenze) con cui si trova a battagliare fin dalla primissima gestione del necrologio. Attorno a lui un nugolo di personaggi femminili che sembrano fatti apposta per tenerlo sempre sulla corda: una rete di donne che bilancia il primato cinico e spietato di Cleo Rio e che aiuta Jack Tagger a sciogliere l'ingarbugliato enigma della scomparsa di Jimmy Stoma e a ritrovare quelle due o tre cose che servono veramente nella vita e che né la fama né l'ambizione possono supplire. Da leggere senza esitazioni, con il sorriso sulle labbra e un paio di dischi dell’amico Warren Zevon come colonna sonora.
giovedì 24 giugno 2010
Tristan Egolf
Richard Ford
Michael Zadoorian
Steve Earle
Cambiano gli strumenti, dal rock’n’roll alla short story, ma le prospettive di Steve Earle rimangono quelle, solidissime, di un ribelle con molte cause per cui battersi. È un outsider che canta e scrive per gli outsider perché, come spiega con una certa eloquenza, in La valigia rossa: "Quasi tutti viviamo vite tra parentesi, esistenze comodamente racchiuse entro i confini di un’era delineata nettamente. Di tanto in tanto, tuttavia, per pochi sfortunati tra noi, tutto quanto cambia mentre siamo ancora in servizio. Un pezzo della piramide che con cura abbiamo costruito generazione dopo generazione viene estirpato dalla base senza troppi complimenti, e nulla è mai più come prima, si fa tabula rasa e si allestisce il palco per qualcosa di totalmente inatteso". È l’identikit fondamentale dei personaggi di tutti i racconti raccolti in Le rose della colpa: può cambiare la fisionomia, il paesaggio attorno o qualche dettaglio, ma i protagonisti hanno pescato la carta sbagliata nel mazzo, hanno scelto il momento peggiore per fermarsi sul bordo di una strada, si sono ritrovati nella parte sbagliata della città. E’ ovvio che il lieto fine è escluso a priori: all’appello manca solo Billy Austin (l’omonima canzone, su The Hard Way, era già una short story compiuta), però la galleria di loser che Steve Earle mette insieme in Le rose della colpa colpisce per l’amara lucidità con cui le racconta. Non è uno scrittore particolarmente evoluto (sappiamo benissimo che il suo lavoro è un altro), però è sanguigno, diretto e sincero quanto basta anche quando si tratta di affrontare argomenti che hanno più di un risvolto autobiografico. Quando tratteggia il fantasma della tossicodipendenza in Una sorta di elogio funebre ("Harold Mills è morto la scorsa notte, solo nella sua stanza da 75 dollari la settimana al Drake Motel, e io sono probabilmente l’unico coglione di Murfreesboro Road che ne sente la mancanza. Ma è anche vero che sono l’unico a sapere che se n’é andato"), Steve Earle sembra guardare nel buio dei suoi anni più cupi e lo fa senza moralismi, senza ipocrisie e fa ammettere candidamente al protagonista della short story che nemmeno andrà al funerale dell’amico che ha visto portare via sotto un lenzuolo perché "Nessuno di noi, le creature che hanno conosciuto Harold qui sulla statale, ci andrà, perché i funerali, come si suol dire, sono fatti per i vivi e noi siamo già morti. Stiamo solo aspettando il nostro turno". Crudo, realistico e durissimo, anche quando affronta l’episodio, a sfondo razziale, di Taneytown (che è la short story da cui è nata l’omonima canzone di El Corazon): un ragazzo di colore scende giù in città, si trova nei guai e per difendersi uccide un coetaneo bianco. Riesce a dileguarsi e a tornare nella sua valle, mentre gli abitanti di Taneytown trovano un colpevole (nero, ovviamente) e lo linciano al posto suo. Non manca un riferimento esplicito al rock’n’roll e al music business di Nashville: in Billy The Kid, Steve Earle narra la storia del più straordinario disco che sia mai uscito dagli studi della città. Billy The Kid, questo il nome del songwriter che l’aveva inciso, stava vivendo il suo sogno fino a quando il destino non ha cambiato radicalmente la sua strada. Il finale ha due tempi: il primo, s’intuisce subito, è tragico; il secondo è agrodolce e molto, molto pertinente a ciò che il music business è diventato oggi. Scopriteli da soli e seguite il consiglio di Steve Earle quando vi farà da anfitrione a Nashville: "Fatevi un giro nel Music Row. Se avete la patente, abbandonatevi a quelle stradine a senso unico, e vedrete che non farete altro che girare in tondo. Vedrete ciò che si vedrà dal vostro parabrezza: vetro e mattoni, asfalto e cemento. Se siete a piedi potrete avvicinarvi al marciapiede, a quel luogo dove la musica è ed è sempre stata. Se camminate lentamente, potreste addirittura imbattervi in un brutto bar imbiancato e col tetto piatto quasi invisibile all’ombra dei giganti che gli sono spuntati da entrambi i lati. Fermatevi a bere una birra. Datevi un’occhiata intorno. Non è niente di che, ne convengo. Però concedetegli lo stesso una chance. Ascoltate il jukebox. Potreste sentire gli echi di ciò che questa città è stata un tempo". Le rose della colpa (di cui segnaliamo anche Il testimone, La danza del giaguaro e La rimpatriata) non fanno altro che espandere quello che già avevamo intuito ascoltando Steve Earle: con ogni probabilità non sarà mai un grande scrittore, ma è e resta, su disco e su libro, uno splendido storyteller. Forse è anche meglio così perché, come confessa platealmente in L’Internazionale, "Mai innamorarsi di uno scrittore, chéri, specie se di talento. Gli scrittori si vantano delle loro imprese amorose, in pubblico come in privato. Vai a letto con uno di loro, e tutti i suoi amici verranno a fare la fila alle sue spalle. Se poi ti innamori di lui, come prima cosa ti spezzerà il cuore, e quindi trasformerà il tuo dolore in inchiostro per macchina da scrivere. A quel punto comincerai a vivere nel terrore del giorno in cui verrà pubblicato. Conviene di più amare un pessimo scrittore, che si porterà i tuoi segreti nella tomba. O, meglio ancora, un rivoluzionario. I rivoluzionari sì che sanno mantenere i segreti. Devono. Per loro è questione di vita o di morte". La differenza, per Steve Earle, è tutta qua: le sue canzoni, le sue short stories (che vivono in simbiosi e si trasformano le une nelle altre per osmosi) sono state più di una volta la sua ultima chance. Anche solo per questo, Le rose della colpa merita un posto speciale accanto ai suoi dischi e vicino ai libri di quegli scrittori che sanno che la storia è tutto, ma la vita di più.
martedì 22 giugno 2010
Patti Smith
Stewart O'Nan
venerdì 18 giugno 2010
Jim Thompson
Tra i narratori più amati dal mondo variegato dei songwriter e delle rock'n'roll band, Jim Thompson non è mai stato altrettanto ricambiato dall'universo degli intellettuali e della letteratura. Nonostante una trentina di romanzi, compreso questo Bad Boy che altro non è se non la sua autobiografia. Leggendolo, non è difficile capire perché: Jim Thompson è sempre stato un cristallino outsider, naturalmente incapace di vivere la mondanità letteraria e di assecondarne i tempi e i metodi, tutt'altro che felici. Il Bad Boy si è scelto percorsi esistenziali marginali, se non proprio proibitivi, cambiando mille lavori, vagabondando in continuazione attraverso l'America, costruendosi un linguaggio duro, diretto, affilato come un coltello a serramanico. Unico, e altrettanto spietato, come segnala in modo molto preciso Pino Cacucci nella postfazione di Bad Boy: "Jim Thompson è attratto morbosamente dal perverso meccanismo che produce e materializza la paranoia. Un bozzolo di allucinazioni e manie di persecuzione che avviluppa lentamente il protagonista, senza lasciarci alcuna scappatoia, perché è lui e solo lui che può raccontarci cosa vede e cosa sente". A maggior ragione in Bad Boy dove narratore e protagonista coincidono con la stessa persona, e la storia è raccontata con un ritmo che non lascia mai un attimo di respiro: dall'infanzia ("Potrei parlare a lungo degli aspetti spiacevoli del vivere con i parenti, di abitare in una cittadina pettegola dove tutti sanno tutto della tua condizione e hanno poco altro di cui parlare. Ma ho meditato e rimuginato in altri libri, e anche fuori dai libri; qui mi limiterò a dire che esistono. Insieme a tutto il resto, spesso però sono riuscito a passare anche momenti meravigliosamente divertenti") all'età adulta ("Ogni notte, mentre rimuginavo sveglio nel letto, giuravo che avrei reso il giorno seguente diverso da quello appena trascorso. Ma dopo mi trovavo a trascorrerlo esattamente nello stesso modo del precedente. Tornavo alla burlesque house a sostituire la maschera, a vendere caramelle, a girare per le quinte con le ragazze del coro, sprecando ore d'oro che, una volta andate, non sarebbero mai più tornate") attraverso mille peripezie, l'autobiografia di Jim Thompson si legge come se fosse un'avventura spietata e senza morale. Il ritratto concreto e reale di qualcosa che il Bad Boy in questione, nonostante tutto, chiama ancora vita.
giovedì 17 giugno 2010
Peter S. Beagle
Di viaggi “coast to coast” si è nutrita all’infinito la narrativa americana e per molti basta e avanza il biglietto di sola andata. La “lunga strada da fare” di Peter S. Beagle è un caso a parte. Peter e l’amico Phil partono da New York, destinazione San Francisco, seguendo (molti anni prima di William Least Heat-Moon) le “strade blu”, le vie secondarie nelle mappe americane che allineano, come in una catena di visioni, una “smalltown” dopo l’altra. La scelta dello scooter è dovuta un po’ al fatto che i soldi sono quelli che sono (pochi) e un po’ al fatto che almeno per una buona metà dei viaggiatori quella traversata non è senza meta o scopo. Peter è atteso da Enid, sua futura moglie, e da un pargolo in arrivo. Phil, che lo segue senza esitazioni, ha solo il viaggio che diventa un rito di passaggio, quasi il presagio di un’amicizia che finirà e con essa anche tutto un tempo. “Ognuno porta sempre con sé ciò che desidera” e per una buona metà della “lunga strada da fare” non è facile scrutare nelle emozioni e nelle suggestioni che anima Peter e Phil. I due viaggiatori hanno molto da fare. Cantano, dipingono, prendono appunti. Devono far fronte alle necessità degli scooter, alle intemperie, agli enigmi degli incontri (specie quando è la polizia a beccarli) e devono inventarsi il pane quotidiano perché “vedere il mondo e suonare la chitarra è un duro lavoro”. La narrazione è una collezione di piccoli episodi, un diario di arrivi e partenze, di paesaggi che scorrono infiniti (“Se guardi abbastanza a lungo anche il paesaggio più spoglio, puoi trovarci i colori più straordinari: rosso fuoco, grigio argentato, rosa sopra ogni tronco d’albero, o improvvisi fili d’erba che sembrano quasi bianchi”) e di una percezione che ha il sapore di una consapevolezza ancora acerba (“Ci fermiamo prima del tramonto perché si prova una strana solitudine guidando una cosa così piccola come uno scooter quando viene buio. Il freddo inizia a radicarsi nei nostri corpi come un fiore notturno e ci sentiamo soli, come se l’altro non fosse lì e non avessimo nessun posto dove tornare, più smarriti di quanto la lontananza da casa renda plausibile”). Gioca il suo ruolo anche il fatto che è la primavera del 1963: molte speranze e molti sogni stanno ancora germogliando, l’autunno è ancora lontano e Peter e Phil hanno la sensazione di seguire una moltitudine di compagni di viaggio, almeno fino a quando qualcosa tra loro non s’insinua, ed è per sempre. “Perché ti sei messo a pensare al dopo così all’improvviso? Che cos’è, un piccolo sabotaggio della quinta colonna?”, si chiedono quando ormai il viaggio è giunto ad un punto di non ritorno. Il “dopo” è il vero capolinea del viaggio attraverso l’America quel dopo in cui “si esauriscono le canzoni da cantare, i giochi da fare, le poesie da ricordare, gli interrogativi sulla vita sessuale. Si comincia a pensare a se stessi e alle proprie ragioni e le domande crescono lentamente dentro di te, come le zanne di un cinghiale”. La primavera degli scooter sfiorisce e viene la stagione dei rimpianti, delle diatribe, dei rancori e delle malinconie. Viene il “grande freddo”, e buonanotte ai suonatori.
John Kennedy Toole
mercoledì 16 giugno 2010
Kurt Vonnegut
martedì 15 giugno 2010
Don DeLillo
Richard Matheson
La casa spiritata e/o maledetta che poi in infinite versioni letterarie e cinematografiche (a buon mercato) offrirà il fianco a tutti i luoghi comuni e ai cliché (del genere) qui parte da un assunto che è persino filosofico. L'incipit e la breve introduzione iniziale, che in realtà è a tutti gli effetti un prologo, non vanno dimenticati, anche se sembrano corpi estranei al romanzo vero e proprio. Con Richard Matheson, però, certi dettagli che sembrano fuori posto sono invece funzionali a entrare nella storia perché, come in questo caso, non c'è posto migliore di una casa infestata da fantasmi per scoprire la differenza tra vita e morte o meglio tra non vita e non morte. Una sorta di limbo, una terra di nessuno o meglio un purgatorio, vista la caratteristica ferocemente peccaminosa degli spettri che non riescono ad andarsene. La trama, che in altri mani finirebbe qui, con Richard Matheson diventa invece una tela, comunque già molto fitta, su cui aggiungerci pennellate di colore intenso. L'interplay tra i quattro personaggi principali (ectoplasma del padrone di casa escluso) sembra fatto apposta per far emergere con determinazione i caratteri e la loro rivoluzione nel corso della storia: l'atteggiamento scettico e razionale a tutti i costi dello scienziato diventa, paradossalmente, illogico davanti alle evidenti deformazioni del tempo, dello spazio e della natura umana; l'indole mite, remissiva, quasi innocente della moglie (l'unica a entrare nella casa per caso) diveniva via via risolutiva; le posizioni religiose di uno dei due medium sembrano all'inizio una fonte di forza, ma piano piano diventano sempre più ricettive nei confronti degli animal spirits della casa, proprio per la loro natura evocativa; e infine, la solitudine del medium che torna nella casa, che sa già a cosa va incontro, è la solitudine di tutti quanti. Forse anche del fantasma che è relegato tra quelle mura dense di depravazioni, devastazioni, omicidi e cannibalismi. Questi contrasti, tra uomini e donne, vita e morte, giorno e notte, fede e scienza sono l'elemento che supera il carattere fantastico della storia e ne costituiscono l'architettura portante. Sono molti gli elementi scientifici, per esempio, che Matheson dissemina ma non a giustificare la storia, quanto piuttosto proprio a aumentare le differenze, a muovere e a movimentare i personaggi, a alzare i toni e il ritmo. Anche tra gli spiriti c'è uno scontro violento (o forse no) ma questo tocca al lettore scoprirlo: La casa d'inferno è una riflessione tra dentro e fuori, tra fede (in senso molto lato e non solo religioso) e scetticismo, non è solo un luogo, popolato di fantasmi o di energia residua (a seconda dei punti di vista) e che ha qualche affinità con l'Overlook Hotel di Shining (Stephen King ha sempre detto che Richard Matheson è stato uno dei suoi maestri) una fabbrica di brividi, ma anche (e soprattutto) uno snodo claustrofobico che racconta le meraviglie e gli orrori della mente, dell'immaginazione e dei suoi parti, che sono sempre travagliati.
domenica 13 giugno 2010
Hunter S. Thompson
Il titolo potrebbe ingannare perché il potere della parola sesso rischia di spostare l'attenzione dall'argomento principale, ovvero la politica nella sua massima espressione: in campagna elettorale. Ad affondare nella melma di contributi (più o meno legali), convegni, discorsi, alte morali e colpi bassissimi che vanno di pari passo è "uno sboccato giornalista fuorilegge provvisto di aspri concetti riguardo a stili di vita, applicazione della legge e realtà politica in America". Autodefinizione di mister Hunter Stockton Thompson medesimo che in Meglio del sesso si rivela il cronista più adatto a raccontare la corsa alla presidenza degli Stati Uniti che incoronò per la prima volta Bill Clinton. Il ritmo è sincopato, nevrotico, anfetaminico e le illustrazioni sono un'ulteriore divagazione sul tema (esilarante il fotomontaggio con Bill Clinton trasformato in Hunter Stockton Thompson) ma Meglio del sesso è estremamente più lucido rispetto alle deviazioni psichedeliche di Paura e disgusto a Las Vegas e più concreto di Hell's Angels nell'analisi di un fenomeno che non è solo politico. E' un libro che parte a tutta velocità ("La prima legge per il controllo del proprio territorio è di non stare mai per niente al mondo sulla difensiva. Stare sull'offensiva. All'attacco, e siate innocenti, naturalmente") e non rallenta fino alle ultime pagine (con quegli inverosimili consigli allo staff di Bill Clinton che a distanza suonano piuttosto sinistri) con il buon vecchio Doc scatenato come non mai: ne ha davvero per tutti e, a differenza dei soporiferi commentatori nostrani, il linguaggio che usa è chiaro, tagliente, senza possibilità di equivoco. Una prima definizione tratta dall'esperienza vissuta in prima persona, per esempio: "La politica è un affare davvero disgustoso, o la va o la spacca, e non sai mai veramente da che parte sei, specialmente quando vinci". Una seconda, giusto per non scontentare nessuno: "Devi essere un persona molto ignobile per riuscire a farti una risata durante una campagna elettorale. Lì non c'è niente di peggio della paranoia". E' naturale poi che un sorriso venga spontaneo, sia per le bufale in puro gonzo style (la parabola La vecchia e il serpente, nelle primissime pagine) sia per quell'attitudine alla battuta e al sarcasmo, quel volersi sentire in continuazione al centro del mondo che è tipico di Hunter Stockton Thompson. Però in Meglio del sesso c'è una rappresentazione della tragicomica promiscuità tra politica, informazione e spettacolo che suona terribilmente realistica. Bel colpo, Doc, ma se volevi divertirti davvero dovevi farti un giro in Italia.
Rick Bass
La tentazione è sempre forte per tutti: rinunciare alle comodità della cosidetta vita moderna (ma anche alle frustrazioni) e provare a tornare a vivere più vicino alla natura, ai suoi ritmi. L'illustre precedente, Henry David Thoreau (il cui fantasma aleggia in ogni singola pagina di Un inverno nel Montana) funziona un po' da guida anche per Rick Bass: con la sua compagna si sceglie un ritiro austero, freddo e difficile tra i boschi del Montana con l'obiettivo principale di recuperare una differente dimensione di vita quotidiana e, poi, di cavarne qualcosa di simile ad un diario. L'esperimento riesce alla perfezione (tanto che la coppia decide di stabilirsi definitivamente in Montana) ma attraverso un percorso che implica una sorta di rinascita, persino, come lascia intuire uno ei passaggi più importanti di Un inverno nel Montana: "Può essere davvero meraviglioso scoprire di trovarsi in errore, di essere ignorante, di non sapere nulla, neanche l'abc. Devi ricominciare. E' come la neve che ogni anno cade per la prima volta. Non fa alcun rumore, ma è la forza più possente che tu conosca. Poi, ad inverno inoltrato, gli alberi scricchioleranno, scoppietteranno e si spalancheranno. Cose che si spalancano, si apprendono. Imparare come stanno davvero le cose". La wilderness americana, è del tutto relativa, a questo punto: pur non essendo un capolavoro di narrativa, Un inverno nel Montana è uno di quei libri sempre più rari che alle follie metropolitane, alla velocità e al rumore, oppone la lenta coltivazione dell'osservazione, il rispetto del silenzio, la gioia della scoperta di piccoli riti quotidiani e grandi eventi stagionali, la necessità di ritrovare una confidenza e un equilibrio con i paesaggi esteriori e, con ogni probabilità, anche con quelli interiori. Così, tra una miriade di nuove incombenze pratiche (tagliare la legna, evitare che gelino le tubature, ambientarsi in una comunità schiva e burbera) e rilevanti intuizioni esistenziali ("Quassù sto scoprendo delle cose su me stesso, cose che da tempo avrei dovuto sapere, ma non è andata così. Credo che si riveli non tanto una personalità complessa quanto un'anima semplice, ma è l'unica che possiedo, e sono lieto di averla qui, lontano dalla città") Rick Bass finisce per innamorarsi della valle e del suo inverno, ma anche di un inedito modo di vedere la vita rendendo Un inverno nel Montana un piccolo gioiello per chi viaggia a velocità ridotta e con gli occhi ben aperti.
James Lee Burke
Hubert Selby Jr.
Scritto in sei lunghi anni, sbattendo parole sui tasti "ogni cazzo di notte", Ultima fermata a Brooklyn è un romanzo che si è tramandato nel tempo, dalla scoperta entusiasta di Allen Ginsberg (era il 1964, la prima volta) e William Burroughs attraverso Lou Reed fino alla rilettura di Henry Rollins, diventando uno dei classici oscuri e fondamentali della letteratura americana. L'Ultima fermata a Brooklyn è il capolinea dove si addensano, una sull'altra, esistenze disperate, vite fottute, speranze rovinosamente fallite, notti che sono soltanto fondi di bottiglia. Hubert Selby Jr. ci arriva con il suo bel carico di rimpianti e di dolori: prima marinaio, poi steso in un letto per dieci anni, proprio sotto i lampioni sente la necessità di mettere tutto nero su bianco, di non perdere un'occasione importante per dare un senso alla sua vita. L'unica, in fondo: "Ho conosciuto per tutta la vita la gente di cui parlo nel mio libro, e per un certo periodo, fino ai ventun anni, ho vissuto anch'io quell'esistenza. Non guardavo quella gente. Ci stavo in mezzo. Solo molti anni dopo capii che era questo l'argomento di cui dovevo scrivere. Qualcuno doveva ben descrivere tutto quell'orrore". Travestiti, ladruncoli, operai, marinai, Tralala, Goldie e Georgette, disperati di ogni forma e natura: Ultima fermata a Brooklyn è la bibbia dei bassifondi, il vademecum fondamentale per comprendere l'inferno metropolitano, l'angoscia dell'America, proprio a partire dal linguaggio caustico, dalla punteggiatura violentata, dalle frasi tagliate dai neon. Volutamente intenso, forzato, duro: "Credo che rispecchiamo la nostra più profonda identità nel vocabolario che usiamo, e nel modo in cui impieghiamo quel vocabolario, il ritmo del discorso, l'accostamento fra le parole, fra le sillabe". Parecchi anni dopo, diciamo una ventina, Hubert Selby Jr. sarebbe tornato ad riesplorare il microcosmo di Ultima fermata a Brooklyn con il Canto della neve silenziosa. Una piccola luce, forse, una volta sopiti i fantasmi del passato, delle censure, dell'indifferenza dei letterati caldamente ricambiata da Hubert Selby Jr.. A lui interessava molto di più qualcuno in grado di capire, apprezzare e vivere i suoi romanzi. Chi li legge: "Voglio sottoporre il lettore a un'esperienza emotiva. L'ideale è che la sembianza della frase sia così intensa che il lettore neppure abbia bisogno di leggerla. Nel senso che esce dalla pagina e la si assorbe, per usarla, voglio dire". Troppo attuale.
Don Winslow
martedì 8 giugno 2010
Colum McCann
C'è una scena atroce, nelle prime pagine abitate dai Figli del buio, che non lascia dubbi sulla natura e sull'essenza stessa di questo romanzo: agli inizi del secolo scorso, una squadra di operai che sta lavorando nel ventre di New York viene risucchiata da un vuoto d'aria e proiettata, con conseguenze immaginabili, nell'Hudson, il fiume che per Brooklyn è già oceano. Episodio (storico) già raccontato altrove da E.L. Doctorow, ma che nel romanzo di Colum McCann, classe 1965, origini irlandesi evidentissime, residenza a New York, affiora come una parabola biblica da cui poi si dipana una complessa saga famigliare. Le radici dell’albero genealogico dei Figli del buio affondano in una città, New York, che era soltanto un porto d'arrivo per tutti gli immigranti del mondo e non quella realtà cosmopolita (con tutte le sue ombre e luci) di oggi. E’ in uno scenario di infinita povertà, che si sviluppa la storia della famiglia Walker, che arriva fino ai nostri giorni con Clarence Nathan detto anche Treefrog. Tutti gli altri dettagli è meglio scoprirli direttamente dalla lettura di I figli del buio che del resto è agevole e ricca: Colum McCann è un narratore già molto maturo a cui non servono effetti speciali o particolari deformazioni linguistiche per attirare l'attenzione. Sono la costruzione della storia, le ossessioni dei suoi personaggi, il paesaggio metropolitano (visto sotto e sopra) a creare quel duraturo rapporto di fiducia che distingue la lettura di I figli del buio. Di più, l’odissea famigliare degli Walker interpreta l'umore di una povertà endemica e scandaglia i bassifondi, non solo perché Treefrog vive negli anfratti di New York ma perché, metaforicamente, tutta un'altra società è emarginata in quei gironi danteschi. Finalmente, quindi, uno scrittore giovane che non racconta le sue prime pulsioni adolescenziali, il suo diario sgrammaticato o i programmi che vedeva in televisione con la mamma e il papà, ma quella metà oscura del nostro mondo che in pochi provano a riconoscere. Colum McCann non non si trastulla con effetti e macabre descrizioni, ma va subito al sodo, descrivendo l'ambiente (storico e sociale) con lucidità e con cognizione di causa. Attraversa tutto un secolo di storia americana (o più precisamente: newyorchese): parte sempre dai bassifondi (o ancora più in giù, come si è visto) e attraversando il tempo e il complesso tessuto etnico di New York ricostruisce un quartiere, una città, un mondo guardando dal basso e ivi restandoci. Lo slogan dei Figli del buio infatti è: "Si viene al mondo con niente e lo si lascia con ancora meno". Non a caso Treefrog è il nipote di Nathan Walker (uno degli operai coinvolti nell'incidente sotterraneo) è, e siamo arrivati ai nostri giorni, un homeless che vive esattamente nelle stesse gallerie scavate a costo della propria vita dal nonno e dai suoi colleghi. Tra questi due estremi generazionali si svolge tutta la storia dei Figli del buio che Colum McCann narra con un linguaggio semplice ed accorto nello stesso tempo e con il gusto della precisione storica che collima con l'invenzione letteraria, la fiction. Ed è una sorpresa, in fondo: in tempi di grandi nulla, di generazioni incognite, di non scrittori e di scrittori abulici, ecco un narratore che ha il coraggio di scavare nella (propria) storia per cavarne uno grande romanzo blue collar. D'accordo, il termine è più adatto al rock'n'roll, ma a certe profondità le darkness on the edge of town sono uguali per tutti e già il coraggio di raccontarle merita tutta l'ammirazione possibile.