Tra i ricordi collezionati per Il mio Tai Chi, spicca quello di Fernando Saunders, bassista che cominciava la collaborazione di Lou Reed nell’autunno 1981 con la registrazione di The Blue Mask: “Penso che quando l’ho conosciuto, Lou avesse dei demoni, c’entrava l’alcol e roba del genere. Ha smesso di bere proprio quando l’ho conosciuto. Proprio poco prima che ci incontrassimo. Mi parlò di tutta la faccenda. Sai, Lou faceva sempre battute, anche sulle cose peggiori. Quando ci siamo conosciuti, parlava spesso con me della vita. Immagino che avesse bisogno di confidare queste cose a qualcuno”. È il momento in cui tutte le maschere sono cadute. L’inversione di marcia è radicale, almeno quanto gli oltraggi che l’hanno preceduta. La questione è semplice, secondo Lou Reed: “Sono molto hardcore. Seguo la palla che rimbalza ovunque vada, e non mi interessa”. In quel momento si trattava di scegliere la sopravvivenza e le arti marziali hanno rappresentato l’occasione per superare gli anni pericolosamente vissuti “sull’altro lato”. Lou Reed: “Alcuni dei miei interessi sono piuttosto scellerati. Avevo in mente cosa volevo, ma non sapevo bene come ottenerlo. Conoscevo tutte le cose che non bisognerebbe fare, ma non quelle che si dovrebbero fare”. Il nuovo corso comprende l’appiglio al Tai Chi come espressione di una disciplina indispensabile a contenere i danni ed è allora che diventa uno strumento di ricerca, un modo per ritrovare un centro permanente di sobrietà e stabilità, un’ossessione senza controindicazioni. New York, sullo sfondo. Dal tetto della casa di Lou Reed si vede l’Hudson. Lui pratica tutti i giorni e l’assiduità della preparazione è segno di una decisione e una fede rinnovate. Il suo approccio è unilaterale e non nasconde l’idea di ristabilire una connessione con il fisico segnato dagli abusi e dalle dipendenze. Non è facile perché, proprio come dice Lou Reed: “Siamo un corpo, un grande tendine. Dobbiamo essere pacificatori di noi stessi”. L’esercizio continuo del Tai Chi si fa rassicurante, e si trasforma in una fonte di rinnovata energia. Lou Reed, prima di tutto, ci crede ed è il suo afflato che trascina tutta una comunità di praticanti come lui. È entusiasta al punto di portarsi il maestro in tour e sul palco come se fosse la cosa più naturale al mondo. Si capisce che il Tai-Chi è una zona franca, dove non intervengono le logiche distorte dell’industria discografica e dello show business e si rivela un’occasione di incontro, di confronto, e di amicizia. “L’arte dell’allineamento” occupa una posizione centrale nella vita quotidiana di Lou Reed e la sua dedizione per il Tai Chi diventa lo spunto per conoscerlo nell’intimità, nei suoi desideri e negli ultimi, strazianti momenti, attraverso i punti di vista diversi di insegnanti, medici, colleghi, complici. Il coro delle testimonianze è ricco e assortito e i testimoni raccolti da Laurie Anderson sono tanti tra cui Iggy Pop, Jonathan Richman, Wim Wenders, i produttori Bob Ezrin e Tony Visconti che sintetizza l’arte dei Tai Chi con “spingere la testa verso il cielo e tenere i piedi saldamente per terra”. È un profilo “obliquo” di Lou Reed, molto acuto: le voci compongono un ritratto con molte sfumature differenti che, se sommate, offrono un quadro realistico degli ultimi anni di Lou Reed, così come lo racconta Anne Waldman in un denso ed elegiaco ritratto: “Lou era un artista straordinario: bello, inebriante, imprevedibile. Aveva una voce originale e un suono distintivo, e sexy. E possedeva molteplici personalità, cambiava costumi e volti e stati d’animo diversi. Lui è l’imbroglione non binario. Gli album sono mondi completi e opere in sé e per sé. Storie, poemi epici”. Se il Tai Chi è una costante, Lou Reed è visto in modo tridimensionale, anche se gli angoli più scomodi, difficili da negare, sono smussati. Associare l’autore di Heroin al Tai Chi è qualcosa in più che contraddittorio, però è anche l’evidenza che il cambiamento ha una sua forza specifica e che la trasformazione è vitale come sostiene Hal Willner: “Lou era un artista in continua transizione, non si fermava mai, era sempre alla ricerca di ciò che veniva dopo”. Lou Reed l’ha reso possibile con la stessa convinzione dedicata al Tai Chi: “Costruisci, costruisci, costruisci. Ecco come”. Inarrivabile.
mercoledì 2 luglio 2025
domenica 29 giugno 2025
Louise Glück
Ararat è un montagna piuttosto ripida da scalare. Soprattutto nelle parti iniziali è difficile intravedere un quadro complessivo, o un senso, nel caso fosse necessario. Spesso Louise Glück, con il suo stile scarno ed essenziale, è lapidaria, senza possibilità di appello. La considerazione in Parlante inaffidabile è quasi un avviso ai naviganti: “Quanto a me, mi sento invisibile: perciò sono pericolosa. Gente come me, che sembra generosa, è menomata, è bugiarda; siamo quelli da rispedire al mittente per amore della verità”. Sono flash che lasciando interdetti, se non proprio confusi. Le scene domestiche e i legami famigliari sono tutti vagliati e limati con una lingua semplice, naturale. Louise Glück è diretta, uno dopo l’altro i versi vanno a comporre un’infinita didascalia che annoda la sottile, impercettibile trama di istantanee da cui filtra il reiterato tentativo di comprendere la natura delle cose. Protagonisti sono i rapporti con la madre, con la sorella, con nipoti e cugini, e con la dimensione sfuggente del padre. I parenti ruotano attorno in continuazione e senza sosta mentre la cornice casalinga è vista con la prospettiva di un microscopio, ma anche con la grazia necessaria per cogliere i dettagli importanti come accade puntualmente in Nuovo mondo: “Come il palloncino di un bimbo che vola via nell’attimo in cui non lo tiene stretto” e si resta “senza rapporto con la terra”. Con il suo peso specifico, l’infanzia, ricostruita dalle minuzie ricamate nel tempo, pur essendo una materia instabile, fugace ed elementare resta l’espressione di qualcosa simile a un rimpianto per non aver potuto “scegliere le persone da amare” come recita un significativo verso di Cerchio marrone. I ricordi si creano e si ricreano e Ararat è un territorio di dolore ma anche di ascesa e di salvezza. Il contrasto è indispensabile ed è compreso nella cadenza molto regolare del ritmo di Louise Glück perché, come scrive in Musica celestiale “l’amore per la forma è un amore per i finali”. Ecco che, con una progressione sensibile, ma inequivocabile, prende corpo una sorta di discorso con alcune linee precise che provano a definire i confini dell’anima. Non ci sono proclami, e pur mettendo in conto il titolo, neanche rivelazioni bibliche. Louise Glück riesce far intravedere quel tema infinito e ingombrante da una posizione privilegiata, illuminandosi con quattro righe di pura ispirazione. Scrive con Il bambino piange: “L’anima è silenziosa. Se mai parla, parla nei sogni”. Si tratta di un’essenza che muta, si trasforma ed è indipendente, proprio come la poesia. A parte la meraviglia, a noi resta solo “esistere nel presente”, suggerimento che arriva da una poesia il cui titolo, Lamento, ne è già l’espressione più completa possibile e immaginabile. Tra le raccolte di Louise Glück, Ararat è forse la più personale e intima, per tutte le sue connessioni con la famiglia vista come un nucleo instabile e vitale. Il livello di introspezione implica anche una certa asprezza perché Louise Glück non fa sconti a se stessa, figurarsi al lettore, e questo finché il silenzio viene assunto come “il segno che forse il debito è stato finalmente pagato” e la conservazione della specie può continuare ad aggrapparsi alle parole, come se non ci fosse molto altro lassù in cima.
mercoledì 25 giugno 2025
Elijah Wald
Da New York a Newport, contano i luoghi e i tempi a definire la rapida svolta impressa dall’arrivo di Dylan. A guardare bene sono soltanto quattro, cinque anni, dal 1961 al 1965, ma succede di tutto. Nei caffè del Village domina la scena folk che si intreccia con il movimento per i diritti civili e contro l’onnipresente minaccia della guerra nucleare. Prima di lui, ci sono Woody Guthrie, Ramblin’ Jack Elliott, Dave Van Ronk, Eric Von Schmidt, Joan Baez e Pete Seeger che ha il ruolo di anfitrione in una scena in movimento a cui Dylan ha attinto e restituito in termini di popolarità. Questo è il substrato in cui appare come se fosse venuto dal nulla, circondato da un’aura misteriosa che lui stesso ha contribuito a creare, che si alterna al fascino della musica folk che, come spiega Elijah Wald era “dovuto al fatto che fosse imbevuta di realtà, di storia, di esperienze profonde, di miti antichi e sogni incrollabili. Non si trattava di un suono o di un genere specifico, ma di un modo di comprendere il mondo e radicare il presente nel passato”. È importante ricordarselo: la ricerca dell’autenticità e della purezza si scontra con le rapide metamorfosi di Dylan, perché, come è successo spesso nella sua storia, è dentro e nello stesso tempo è già fuori. Tra Washington Square e Newport la distanza è relativa, ma Dylan ha già accelerato. Scrive Jon Pankake: “Lo trovai terribile, ma ne fui affascinato. In passato era stato inibito come tutti noi, ora ululava e saltellava a destra e a manca. Prima di lavorare sulla tecnica, aveva lavorato sulla libertà”. Il racconto è minuzioso, ricco di dettagli e di testimonianze ed è comunque molto scorrevole: Elijah Wald riesce a mantenersi in equilibrio tra la ricostruzione degli eventi e dei personaggi e le analisi critiche, per esempio, spiegando molto bene l’influenza dell’arrivo dei Beatles e della British Invasion, come precedenti di quello che succederà a Newport dove il contrasto tra pop, folk e rock’n’roll diventerà palese proprio con Bob Dylan. Siamo già nel 1965 e un’annotazione di Elijah Wald fa pensare: a Newport, Dylan non mostra il futuro (gli strumenti elettrici sono soltanto un pretesto, il più appariscente), ma si mostra come custode del passato. Questa idea pare contraddittoria, ma contiene alcuni elementi che meritano un supplemento di riflessione. In effetti la musica di Dylan risiede lì, pur con tutti i distinguo del caso, e c’è già tutta una serie di segnali nell’aria frizzante, dalla Paul Butterfield Band a Richard e Mimi Fariña, movimenti notturni e sollecitazioni imprevedibili, che anticipano la svolta. L’apparizione di Dylan è un happening, una macedonia di questioni tecniche, ambientali ed esistenziali irrisolte. Secondo Elijah Wald “senza dubbio, Dylan stava esagerando. Per lui, la presenza di una band era una forma di comunicazione, ma anche un guscio protettivo”. È un dettaglio all’interno di un movimento d’insieme, visto dall’alto e dall’interno, con tutte le contraddizioni e le idiosincrasie, dalla leggenda dell’ascia di Pete Seeger alle reazioni del pubblico, a partire da quella, feroce, di Alan Lomax. La composizione delle diverse prospettive è un’opzione valida, ma giocoforza resta incompiuta, anche se diventa chiaro che “il problema non erano soltanto gli strumenti elettrici, ma una convergenza di diversi livelli di conflitto: la musica pop contro la musica tradizionale, il confezionamento commerciale contro le creazioni della comunità, l’evasione dalla realtà contro l’impegno sociale”. È una linea di demarcazione tra epoche differenti e quel preciso momento è diventato “un simbolo comodo e irresistibile, riciclato in innumerevoli documentari fino a diventare un cliché. Il motivo per cui la sua eco continua a risuonare è che, anche se avvenne in un momento storico ben preciso, il conflitto che rappresenta è eterno”. Il vero contrasto andato in scena è una frattura tutta americana che vede da una parte “l’ideale democratico e collettivo di una società di pari che collaborano per il bene comune; dall’altra, quello della libertà del singolo individuo, che non deve sottostare ai vincoli di regole e usanze”. A quel punto Elijah Wald sottolinea che siamo ormai tra “l’ambito di competenza della storia e quello della leggenda” e da lì in poi le cose vanno veloci, troppo veloci: “i tempi stanno cambiando”, Newport resta un ricordo e Dylan se ne va verso orizzonti impossibili.
venerdì 20 giugno 2025
Matti Friedman
Nell’autunno del 1973, mentre è sono in corso gli attacchi dello Yom Kippur, Leonard Cohen lascia moglie e figlio sull’isola di Hydra per raggiungere il fronte. Spinto e attratto da una forza atavica si imbarca per andare laggiù dove c’è l’azione, dove si svolge la storia. Il suo primo commento è una cartolina dai cieli sopra il Mediterraneo: “Noi viaggiatori eravamo giunti in cerca della guerra, un intero aeroplano”. Le motivazioni di questo “incredibile tour”, al di là delle radici ebraiche, sono imperscrutabili: Leonard Cohen viveva un momento limitato e contraddittorio e le intenzioni del suo viaggio era tutt’altro che definite, viste che non si era portato nemmeno una chitarra. Scriverà Sylvie Simmons nella sua voluminosa biografia: “Nelle settimane successive Leonard (Cohen) viaggiò su camion, carri armati e jeep alla volta di avamposti, accampamenti, hangar, ospedali da campo, qualsiasi posto in cui ci fossero dei soldati, e si esibì per loro fino a otto volte al giorno”. Non si tratta di veri e propri show, ma di piccoli happening improvvisati. Si ritrova con un pubblico di ragazze e ragazzi in divisa sfiniti, prostrati e addolorati che ascoltano le sue canzoni seduti nella polvere, con i mezzi corazzati sullo sfondo, illuminandolo con le torce in dotazione. Situazioni imprevedibili, a tratti surreali che Matti Friedman riesce a ricostruire con tatto e misura: l’atmosfera di pericolo e fragilità che avvolge ogni singolo momento è palpabile. Poi, come qualsiasi cosa riguardi Leonard Cohen, è tutto indefinito, sfumato, sospeso tra la realtà e i lampi dell’immaginazione e del desiderio. Le parole fanno fatica a manifestarsi, i soldati lo guardano con rispetto e partecipazione, ma senza possibilità di condividere la speranza per un futuro che per molti di loro non arriverà proprio. È un alieno e Matti Friedman amplia un po’ la visuale e attorno alla presenza di Leonard Cohen individua le vicende di giovani che stanno combattendo e hanno davanti un destino drammatico. Scrive che “la musica di Cohen era l’eco di un mondo più vasto, non apparteneva alla realtà in cui vivevano loro”. Amos, allora un pilota di cacciabombardiere Skyhawk, sembra rispondergli come l’eco di un tempo lontanissimo: “L’esperienza, per come la ricordo, fu quella di dimenticare tutto ed entrare in un altro mondo, un mondo in cui non c’eravamo tutti noi sempre di corsa, non c’erano i morti, non c’era la paura”. Quando Leonard Cohen si ritrova, solo, nel Sinai, scopre un luogo dove il suo spirito irrequieto sembra accomodarsi. Gli spazi senza orizzonti sono una prova, una delle tante, ma per il tormentato poeta “il deserto è stupendo e per un attimo o due pensi che la vita abbia un senso”. Se secondo Suzanne Vega Il canto del fuoco è “una descrizione affascinante e intensa”, è anche perché Matti Friedman si prodiga per colmare gli spazi lasciati in sospeso e i lunghi intervalli di silenzio che distinguono ogni mossa di Leonard Cohen. Trovano così posto le testimonianze sul campo, le voci dei caduti e dei sopravvissuti, gli echi terribili delle notizie dalle battaglie e quelle piene di dolore, a casa. Leonard Cohen attraversa tutto come un pellegrino penitente, senza chiedere nulla, cantando le canzoni come se fossero preghiere, accontentandosi di dormire sulla sabbia e di mangiare le razioni dell’esercito. Scrive Lover Lover Lover, canta Bird On The Wire che assume un senso particolare pensando ai ragazzi che volano nei cieli notturni appesi a un filo, ma nella sostanza è solo un viandante che condivide la frugalità dei pasti, la vastità del deserto e la tragica realtà della guerra confidando, ancora una volta, nell’utilità delle parole e nella grazia della musica.
lunedì 16 giugno 2025
Ishmael Reed
C’è il groove e c’è l’intenzione di fermarlo perché ha un potere assurdo, difficile da codificare: è incontenibile, gioioso e di giorno in giorno si moltiplica senza sosta. Le istituzioni, le società segrete, le chiese riconosciute, persino i marines, provano in tutti i modi a contrastare le ondate ritmiche, gli effetti incontrollabili delle danze, le mutazioni di usi e costumi, il riappropriarsi di un’identità e la sua proliferazione nei quartieri delle maggiori città e in tutta la nazione. La direttiva è esplicita e univoca: “La gente dovrà comportarsi meglio o non sopravviverà. Smetterla con questi balli, con questo casino, con la soddisfazione di bassi appetiti carnali. Abbiamo bisogno di fabbriche, scuole, fucili. Ci servono dollari”. Ovvio. Conotro il disturbo della quiete pubblica, lo schema è ricorrente e risaputo: il conflitto latente ha le sue radici storiche e politiche e bisogna partire, ancora una volta, dalla schiavitù, ma Ishmael Reed non si attiene mai alle linee di demarcazione sottintese dal romanzo in sé e inventa un mosaico di parole che rispettano soltanto la corrente sincopata del linguaggio. Se è vero che l’America “è il paese dove qualcosa ha successo in proporzione al modo in cui è presentata”, Ishmael Reed rilancia in senso divergente ed esponenziale. È tutto slang, anche a discapito della logica e comprese nel caos generale le forme tipografiche non convenzionali che concorrono a fare di Mumbo Jumbo un caso più unico che raro. La natura stilistica è senza dubbio originale ed esplosiva, con salti, iperboli, digressioni o semplici deviazioni. Le possibilità non sono molte: o ci si lascia andare nel flusso trascinante della mistura di Ishmael Reed senza sindacare su logiche e significati o si rimane incastrati alla ricerca di un senso che è difficile identificare. La trama di Mumbo Jumbo è uno scheletro che balla ascoltando il riverbero antico dei tamburi di Congo Square così come i volteggi spiritati dei sassofoni di John Coltrane. Tra templari, androidi parlanti, cannibali, sette e religioni, connessioni politiche ed equilibri occulti, New Orleans e Harlem, investigatori e giornalisti, trafficanti e artisti, Zora Neale Hurston e Langston Hughes, è spettacolo senza un coesione apparente, ma che mostra quello che siamo diventati perché è la rifrazione di una realtà complessa ed evanescente nello stesso tempo. L’insieme è inafferrabile, ma contiene tutti gli elementi della presunta modernità, in particolare uno sciame turbolento di informazioni, un virus linguistico pericoloso e sfuggente, la cui ambiguità si riflette nello svolgersi di Mumbo Jumbo. È facile stupirsi nell’inseguire Otis Redding piuttosto che Freud e Jung e, nel contesto caleidoscopico di Mumbo Jumbo, trovarlo normale perché in fondo “non c’è tempo per spiegazioni”. Succede perché prevale l’alternarsi di personaggi in continuo movimento che “inseguono se stessi. Lo chiamano destino. Progresso. Noi lo chiamiamo spettri. Gli spettri delle loro vittime che salgono sulla terra dell’Africa, del Sudamerica, dell’Asia”. Quello che cresce non chiede permesso e Ishmael Reed conferma che in origine “non apparteneva a nessuno. Le parole non si potevano pubblicare ma la melodia era irresistibile”. È il jazz con tutta la sua forza a trascinare Mumbo Jumbo con le presenze di Scott Joplin, Charlie Parker, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Fats Waller, Bix Beiderbecke, Paul Whiteman, Cab Calloway, Bessie Smith, Clarence Williams e, non a caso, il Cotton Club che diventa l’epicentro di tutto.
lunedì 9 giugno 2025
Anne Rice
A New Orleans è “come se la notte fosse durata mille anni” ed è dove i vampiri hanno avuto terreno fertile, attingendo all’immane martirio della schiavitù, un’ombra pesante che aleggia sulla città e su tutta l’America. Se questo è l’ambiente che li ha ospitati, le origini sono molto più complesse, tanto è vero che il lugubre interpellato, Louis de Pointe du Lac precisa subito: “Ci sarebbe una risposta molto semplice. Ma non credo di aver voglia di dare risposte semplici”. Ben presto, l’intervista si trasforma in un lunghissimo monologo dove vengono espresse tutte le particolari condizioni esistenziali dei vampiri. Si rivelano esseri tribolati, malinconici, feroci e prigionieri di una decadenza infinita. Le architetture che di volta in volta abitano e affrontano riflettono la loro identità, l’afflizione che coltivano lungo una falsa eternità e va detto che i vampiri sono una realtà molto complicata. Intanto non sono reali, appartengono a una dimensione parallela, non priva di contraddizioni e di paradossi e Intervista col vampiro in questo è una specie di vademecum dettagliatissimo che va oltre gli aspetti più spaventosi perché, “uccidere non è un atto qualsiasi” e “non si tratta solo di rimpinzarsi di sangue”, ovvero l’atto che li distingue “è l’esperienza di un’altra vita, della perdita di quella vita, attraverso il sangue, lentamente; è rinnovare il ricordo della perdita della mia propria vita”. In cerca della genesi dell’enigma, Louis, accompagnato da Claudia, una bambina che lui e Lestat hanno trasfomato in vampiro, lascia New Orleans per addentrarsi nell’Europa centrale. È un viaggio atlantico ed è anche una sorta ritorno a casa, ma in Transilvania, i miti e le leggende che popolano i villaggi non risolvono il mistero, anzi, lo rendono ancora più acuto. L’angoscia di Louis e la sete di conoscenza di Claudia si scontrano con “la stessa solitudine, la stessa condizione senza speranza. Tutto sarebbe andato avanti come prima, sempre, sempre”. Nelle lunghe e cupe giornate dei Carpazi, capiscono che “non c’era tempo, non c’era ragione”, ma non si arrendono. La meta successiva è Parigi dove si scontrano con una comune vampiresca, piuttosto ambigua vista l’indole solitaria, e ritrovano Lestat che muore e risorge più volte, e ritornerà ancora nella sanguinosa saga di Anne Rice. Mentre il racconto si dipana con atmosfere che ricordano i dipinti di Bruegel, Dürer e Bosch che nell’Intervista col vampiro rappresentano “le ultime vestigia dell’umanità”, nel legame tra Claudia e Louis diventa difficile stabilire cosa sia l’amore per i vampiri (per cui è tutto un assoluto), al punto che lui confessa: “Rimpiango solo di non essere stato più attento alla trasformazione”. Si scopre così che i anche vampiri hanno una sensibilità, e sanno notare “un fiammifero acceso nell’altra stanza, un’ombra che balza all’improvviso alla vita, quando luce e buio si animano dove non c’erano che tenebre”. Intervista col vampiro ne indaga a fondo l’essenza elencando tutta una simbologia legata a generazioni di vampiri che si susseguono e si alternano nel protrarre nei secoli una desolazione infinita. Sì, si comprende l’intensa sofferenza ma alla fine la natura dei vampiri è quella che è, e lo scoprirà anche l’improvvido intervistatore. Condannati “a un tempo vuoto ed eterno” a cui non c’è consolazione, “nessun segreto, nessuna verità, solo disperazione”, sono una tragica deviazione, o forse “solo un’illusione, causata da quel luogo assolutamente selvaggio che era la Louisiana”, dove, infine, ritornano tutti. Sono molto umani, ma “gli uomini erano capaci di una malvagità di molto superiore a quella dei vampiri”, e su questo non c’era dubbio fin dall’inizio.
venerdì 6 giugno 2025
James Sallis
L’odissea umana di Lew Griffin, protagonista della serie che comprende anche Il calabrone nero e La mosca delle gambe lunghe, segue, in questa tappa, le tormentate vicende di una bambina, nata prematura e già tossicodipendente. Baby Girl McTell, questo il nome della piccola sfortunata, è figlia di Alouette la cui madre è LaVerne, intima e profonda amica di Lew Griffin. È proprio la scomparsa di Alouette che lo porta a scoprire l’esistenza di Baby Girl McTell attraverso i paesaggi torbidi e umidi del Delta che sono un ostacolo non indifferente, come riconosce lo stesso Griffin: “Da queste parti non si sopravvive se non si è disposti ad adattarsi. E a tenere duro”. La sua esperienza, parte da lontano, quando cercava di interpretare al meglio il ruolo di detective, ma ormai si è sovrapposto a James Sallis, visto che nel frattempo è è diventato insegnante e scrittore. Non un percorso semplice, anche perché torna a sfiorare quel passato che non passa mai: “Me n’ero andato in città, a New Orleans e mi ero fatto una vita; non una vita di cui vantarsi, ma pur sempre una vita tutta mia, e mi ero tenuto alla larga da quei posti. Da un sacco di altre cose, in verità. E adesso erano tutte lì ad aspettarmi”. Così, mentre Lew Griffin è incastrato tra un crossroad e un juke joint, con le canzoni di Sonny Boy Williamson e Robert Johnson che risuonano nell’aria, tutto un mondo gli si sgretola attorno perché, come dice in uno dei passaggi più significativi de La falena, “la vita che viviamo, i manufatti che realizziamo non sono che un trasparente, uno strato posto sopra chissà quanti altri strati: alcuni destinati a rivelare, altri a nascondere”. Lew Griffin, in questo romanzo intenso e drammatico, attraversa tutti, i livelli della disperazione e della redenzione, andando a cercarsi i guai quando i guai non trovano lui perché poi in fondo il vero problema è “il tempo, che ti ruba la vita e ogni buona intenzione”. Capita persino al suo fraterno amico, Don Walsh, uno che ha combattuto a testa alta nelle strade di New Orleans ma che non ha retto tra le quattro mura della sua famiglia. La sua storia scorre parallela a quella di Baby Girl McTell, di Alouette e di LaVerne come una variazione dello stesso animo blues di Lew Griffin. Se Alouette guarda con qualche titubanza verso il futuro (“Non sono in grado di fare previsioni a lunga scadenza. Lo vorrei, certo, ma è proprio che non posso, che c’è qualcosa che ancora non quadra”) e James Sallis pare parlare per tutti i suoi personaggi quando dice che “forse, dopo tutto, per quanto possiamo parlare di cambiamenti, di redenzione o di crescita personale, per quanto possiamo essere dipendenti da terapeuti, fedi religiose o droghe (legali o no) che alterano la percezione, siamo costretti a ripetere gli stessi, identici gesti per tutta la nostra vita, rivestendoli di panni diversi, come bambini che giocano, così che possiamo fingere di riconoscere quegli stessi gesti guardando negli specchi”. Per Lew Griffin diventa evidente che “il fardello che ci carichiamo sulle spalle finisce per spingerci a fondo. Nella migliore delle ipotesi, ci tiene fermi dove siamo”. A James Sallis non resta notare che il viaggio è uno solo: “Dentro il passato, senza tregua, Kierkegaard aveva ragione: la nostra esistenza, siamo in grado di comprenderla (se mai lo facciamo) solo guardando all’indietro”. Non è l’unica citazione di alta qualità: richiama anche le letture di Conan Doyle, George Perec, Gore Vidal, Thomas Bernhard, Jonathan Swift, James Baldwin, Raymond Queneau, Robert Pirsig, Tennessee Williams e Chester Himes a cui ha dedicato La falena. Notevole.
martedì 27 maggio 2025
Carl Hiaasen
Miami, un mondo a parte di congetture e intrighi e uno snodo tropicale fin troppo caotico, anche per gli standard di Carl Hiaasen. Se un certo grado di disordine è fisiologico e da mettere in conto, c’è qualcosa in più come notava, con la consueta lucidità, Joan Didion in Miami, contemporaneo di Miami Killer: “Le superfici, a Miami, tendevano alla dissolvenza”. Un bel punto di vista. Siamo tra il 1986 e il 1987, anni torbidi e turbolenti che sono stati davvero un crocevia di complotti, tensioni e violenze che Carl Hiaasen risolve in una parodia agrodolce, sarcastica e irriverente. I protagonisti di Miami Killer hanno l’abitudine di scomparire nell’ombra o nelle paludi: si tratta di un miscuglio di giornalisti, poliziotti, detective, terroristi, turisti e disadattati di ogni genere e specie. I personaggi principali sono Brian Keyes, già giornalista e investigatore privato, e Skip Wiley, un tempo suo collega ed editorialista che si è reinventato ribelle, un “uomo geniale e appassionato che trasformava la fantasia in realtà”. Lo dice Jenna, enigmatica femme fatale, amata da entrambi, che “aveva innescato la scintilla”. Il triangolo è spigoloso e nel gruppo stralunato e combattivo di Skip Wiley sono rappresentati di alcuni tratti distintivi della popolazione di Miami e delle contee limitrofe: un mastodontico ex giocatore di football, un esule cubano, un misterioso seminole. Sono una bella congrega di fissati, ma fanno fatica a restare uniti, nonostante l’obiettivo dichiarato: respingere l’invasione dei turisti e ripristinare l’identità perduta dell’ambiente selvaggio delle coste della Florida. Una missione dai nobili intenti, condotta con mezzi e azioni goffi e crudeli, compreso l’assalto a una nave da crociera con i serpenti lanciati dall’elicottero, una leggenda metropolitana sempre utile, nonché il rapimento della reginetta del momento, Kara Lynn Shivers, che avviene nel corso della più importante sfilata cittadina, con la colonna sonora di Light My Fire dei Doors. Dove può portare tutto ciò, Carl Hiaasen non lo lascia intravedere: si limita a seguire le movenze dei suoi personaggi che sembrano sfuggire anche al suo controllo. Nella baraonda, sono tutti maldestri e fuori posto, come se l’esilio di migliaia e migliaia di cubani fosse contagioso: le relazioni sono tutte pericolose e Miami è uno stagno dove, secondo il principio fisico di azione e reazione, si generano effetti incontrollabili. Ognuno ha la sua teoria e una posizione da difendere e si muove nelle aree devastate della città come se fosse in cerca di un destino che non arriva mai. Anche Carl Hiaasen pare perdersi nel trambusto generale, tra attentati dinamitardi, trappole, fughe e segreti e misfatti che si moltiplicano in un clima umido e irrespirabile. È così che Miami Killer ha il ritmo sincopato dei riff degli Stones (puntualmente citati in una scena memorabile con Sympathy For The Devil) e procede a salti e sobbalzi, ma anche nel suo caracollare disordinato, mette il dito nella piaga della commistione tra stampa, istituzioni, politica, e affari che del resto vediamo e sentiamo tutti i giorni, e non solo in Florida.
giovedì 15 maggio 2025
Joan Didion
È come infilarsi in un labirinto. Non è un libro scritto da Joan Didion: ritrovato soltanto nel 2021, poco dopo la sua scomparsa, il Diario per John è composto per una buona metà dalle valutazioni e dai commenti del suo analista all’interno di un intricato dialogo che comprende lei, lui, il marito, a cui sono dedicate le trascrizioni, e persino le opinioni del medico della figlia Quintana. Il Diario per John è il lato oscuro che L’anno del pensiero magico aveva in qualche modo ha superato: laddove la sofferenza veniva sublimata, qui è un’operazione segreta a cuore aperto, e ancora in corso, le cui finalità restano ambigue. Le discussioni di Joan Didion ruotano attorno a una questione spinosa, e irrisolta, la dipendenza di Quintana. I tentativi della famiglia di aiutarla sono tanti, ma “ogni via porta con sé dei dubbi”. I colloqui si ripetono per tre anni, dal 1999 al 2002, in cerca di un’opportunità per tutti, ma il più delle volte la sensazione è quella strisciante di un conflitto senza soluzione che induce Joan Didion a ripensare anche al proprio tempo: “Era una riflessione generale su a che punto eravamo delle nostre vite, sul desiderio di lavorare di più su qualcosa che valesse la pena e meno sul superfluo”. Essere felici è una decisione e lei ammette che “così sto io adesso” di fronte a tanta angoscia, e a quello che, passo dopo passo, pare un vicolo cieco. Il confronto con il dottor MacKinnon da una parte e con il marito dall’altra è serrato e continuo, anche se non porta a nessuna conclusione concreta. La trascrizione è accurata e minuziosa e si ha l’impressione che la scrittura, almeno nel caso specifico del Diario per John, costituisca uno strumento di autodifesa e un’occasione riservata per considerare “il tirare le somme della propria vita, a cosa era valso vivere, quale eredità si lasciava”. La sofferenza dei genitori è una palude ed è evidente che gli strumenti intellettuali e culturali di Joan Didion, per quanto enormi, non risultino adeguati. La rappresentazione della sua incapacità di affrontare con i termini giusti il subbuglio generato dagli stati di alterazione alcolici di Quintana è esemplare: “Pensavo venisse dalla retorica di frontiera che mi era stata inculcata da piccola. Molla le valigie, scarica il pianoforte, i libri, il baule di palissandro della nonna, o non arriverai a Independence Rock in tempo per raggiungere la Sierra prima che inizi a nevicare”. L’impatto è drastico, emotivo e tragico (compresi un suicidio e un omicidio in famiglia) e la ricerca delle responsabilità la porta a confessare la sua esigenza di avere un controllo, su tutto: “Non c’è dubbio che sia sempre stata esageratamente apprensiva. Le ragioni della mia apprensione possono non essere importanti quanto il semplice fatto che lo sono stata”. Nei tentativi di trovare un appiglio a cui aggrapparsi Joan Didion conferma di avere “una capacità altamente sviluppata di compartimentalizzare”, ma assecondando le logiche incalzanti di MacKinnon deve rassegnarsi a una sorta di resa incondizionata: “Credo di aver messo a fuoco solo ora di non essermi mai preparata, di non essere per qualche motivo riuscita a prepararmi, ad avere questa età, a ritrovarmi dove sono”. Attraverso le paure, le malattie, le incomprensioni e la fatica di intravedere un barlume di serenità, le esigenze di Joan Didion si fanno così più limitate, al punto di confidare nel Diario per John: “Spesso mi veniva da pensare che sarebbe bastato prendersi una settimana libera. Non sentirsi sotto pressione, riordinare la casa, sistemare i fogli al loro posto”. Non è mai stato così, eppure anche in questi appunti confidenziali e privati, Joan Didion si chiede quali congiunzioni sia meglio usare: come se le stesse fuggendo qualcosa e una virgola, o un punto o una parola potessero cambiare qualcosa, ma poi resta soltanto dolore, acuto e illimitato.
mercoledì 14 maggio 2025
Garibaldi M. Lapolla
“L’America è il posto giusto”, ma è tutto da dimostrare. È un sogno e un progetto, una meta e un miraggio, una città da costruire e un oceano da attraversare. È l’idea del duro lavoro che risolve tutto, è l’occasione per “mettere a posto le cose”. Per Agnese, che è al centro di una spirale che comprende la chiesa, la famiglia, la comunità, il viaggio dall’Italia ha anche il valore di una riparazione. Attorno a lei il Fuoco nella carne avviluppa un coacervo burrascoso di amanti e/o spasimanti che comprendono Gelsomino, padre del figlio Giovanni, il marito Michele, il socio in affari Antonio, persino il dottor Grace, medico le cui attenzioni vanno un po’ oltre i doveri professionali. La processione di figure maschili, compreso il padre Gesualdo e il fratello Luigi, è solo il background delle movenze di Agnese che, fin dall’angosciosa traversata, è un polo magnetico che, nello stesso tempo, attrae e respinge. I suoi exploit riflettono lo spirito del luogo che, con un gran dispendio di energie, lei è convinta di interpretare così: “Siamo in America. Qui le cose non sono le stesse. Qui conta il tuo lavoro... Quello che fai... Quello che sei”. Lapolla estende la sua percezione alla scrupolosa descrizione dei bassifondi di New York e delle condizioni estreme di fame, povertà e fatica degli emigranti. La città sta crescendo in verticale e verso l’alto, la vita nella strade è orizzontale, e durissima. La volitiva Agnese, con o senza soci tra gli uomini, avvia imprese edilizie e di gestione dei rifiuti. L’obiettivo di avere “una casa tranquilla, la pace della routine, l’aspettativa di un affetto sincero” si risolve dentro relazioni tempestose dagli esiti concatenati e drammatici. È vero che “il futuro è lungo” e nel Fuoco nella carne si intravede già in due personaggi secondari, estremi e contrapposti: l’enigmatico Paul Vaniglia con la sua offerta di protezione e Gino Birrichino, votato al sacro ruolo dell’arte. Antichi riti, nuovi processi, realtà ancestrali e moderne si confondono in un tessuto sociale fluttuante mentre “le vecchie abitudini si erano arrotolate come serpenti, addormentati al caldo sole della buone sorte in America”. Man mano che procede, la narrazione di Fuoco nella carne si infittisce con flashback, riflessioni e cambi di prospettiva che spesso si sovrappongono, mentre un’ombra di stende sul miraggio dell’America, che già brulica di fantasmi. Il vocabolario di Lapolla è aspro, masticato, infarcito di espressioni dialettali e di bestemmie, come se ci fosse una parte arcaica e selvaggia che è resistita all’esodo iniziale. Il Fuoco nella carne “è un’energia che consuma e unisce i personaggi principali, alimentata dal bisogno di appartenenza, riscatto, amore e vendetta” scrive Erika Silvestri (che compie un piccolo miracolo di traduzione) e a New York i compaesani sono “animali in trappola”. Gli elementi melodrammatici che conducono al finale, con un incendio che brucia sullo sfondo, movimentano Fuoco nella carne e mai titolo fu più appropriato: è un romanzo generoso capace di rappresentare al meglio la frizione tra la cultura americana dei self made man e il misero bagaglio degli immigrati europei. Protagonista tra gli scrittori italoamericani della prima metà del ventesimo secolo, compresi Bernard DeVoto, Pietro Di Donato, Luigi Donato Ventura o Vincenzo D’Aquila, la voce di Garibaldi M. Lapolla esprime una lingua non filtrata, non edulcorata, spesso abrasiva che segue l’andamento traballante e imprevedibile di una canzone. È uno strano ibrido: crudo, naturale, fotografico e in bianco e nero e la sorpresa di una scrittura vicina al gergo e alle intonazioni dei quartieri dei dagos contiene tutta la volontà di affermazione e di riscatto che hanno contribuito alla nascita di una nazione con tutte le sue contraddizioni, nessuna esclusa.
martedì 6 maggio 2025
Lou Reed
Fuori dal mainstream, urticante fino alla fine, Lou Reed non è mai stato un interlocutore facile, ritenendo l’intervista una forma di comunicazione non molto distante dalla tortura. Eppure nei confronti diretti, ha saputo manovrare tra domande e risposte concedendosi ampi spazi per rivelare la sua personalità. Un “uomo complesso”, come dice Patti Smith nel suo “coccodrillo”, e non c’è dubbio, ma era anche “curioso, a volte sospettoso, un lettore vorace e un esploratore di suoni. Un oscuro pedale per chitarra era per lui un altro tipo di poesia”. Fin qui ci siamo e seguono gli incontri più ingombranti, quelli con Lester Bangs e William Burroughs. Con tutta la simpatia e la complicità possibili per Lester Bangs il suo tentativo di affrontare Lou Reed sullo stesso piano suona, a posteriori, abbastanza fallimentare. Di certo, quell’approccio, siamo nel 1975, mostra tutti gli anni che ha, e alla fine è anche giusto ricordare che Lester Bangs accettava la realtà che aveva di fronte: “Lou Reed è il mio eroe principalmente perché sta dalla parte. Di tutto ciò che di più strambo potrebbe mai venirmi in mente. Il che, probabilmente, non fa altro che dimostrare la limitatezza della mia immaginazione”. L’appuntamento con William Burroughs, mediato da Victor Bockris nel “bunker” di New York si risolve in uno scambio di battute nel nome della reciproca ammirazione e con gli ossequi a Jack Kerouac e Samuel Beckett. Non bisogna essere per forza accondiscendenti e Lou Reed non lo era, ma David Fricke, che almeno cerca di restare nel seminato, l’intervista ha più senso. Siamo nel momento di New York ed è chiaro che Lou Reed ha smesso di giustificarsi per aver elevato e condiviso i drammi e i bassifondi dell’esistenza. Il colloquio telefonico con Neil Gaiman, per come viene raccolto e descritto, merita di essere segnalato come una svolta nell’ambito del rapporto di Lou Reed con le interviste. Neil Gaiman riflette intorno a Between Thought And Expression, il libro dei testi e il box antologico. e Lou Reed riesce ad accordarsi e ad aprirsi, spiegando con chiarezza le sue intenzioni: “Capita di scrivere canzoni che sono semplice divertimento, il testo non potrebbe sopravvivere senza la musica. Ma per la gran parte delle cose che faccio, l’idea era quella di provare ad applicare uno sguardo da romanziere, e, nella struttura del rock’n’roll, provare ad aggiungere quel tipo di scrittura, così che chi ama farsi coinvolgere a quel livello potesse avere quella scrittura ma anche il rock’n’roll”. E sul finire della telefonata, confessa: “Ho tentato più che potevo di creare situazioni in cui io potessi prosperare. E questo è un dovere che sento: rimanere fedele al talento e far sì che possa esprimersi e prosperare”. Tutto bello e facile con Paul Auster, con cui ha collaborato per Smoke e Blue In The Face. Il dialogo è serrato e amichevole, uno finisce le frasi dell’altro. Paul Auster lo incalza: “Io penso che scrivere ti mantenga giovane. Ogni arte mantiene le persone attive, perché non smette mai. Continui a farlo finché crepi”. Dal canto suo Lou Reed conviene e ribadisce: “E c’è anche da dire che non ti fai dissanguare e prosciugare da un lavoro che non ti lascia esprimere, se quella è la cosa che ti fa respirare!”. Più ostica l’intervista con tale David Marchese: è un battibecco continuo ed è difficile non schierarsi con Lou Reed, che ci mette meno di un secondo a tirare fuori il suo lato scostante e ostile. Però, tra un silenzio e un alterco, riesce a definire le sue aspirazioni: “Hubert Selby. William Burroughs. Allen Ginsberg. Delmore Schwartz. Riuscire a ottenere quello che hanno ottenuto loro, in così poco spazio, con parole così semplici. Pensavo che riuscire a fare quello che erano riusciti a fare questi scrittori traslandolo su batteria e chitarra sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Avrei fatto strike. È un pensiero semplice. Non c’è niente di complicato in me. Sono la persona più regolare che ci sia”. Diciamo che, nel complesso, Lou Reed è stato un grande, i suoi intervistatori un po’ meno: Passeggiando sul lato selvaggio è un ritratto parziale, uno spezzone di una storia che ha ancora molto da rivelare, ma a suo modo funzionale perché traccia un profilo in modi differenti, spesso contrastanti. Resta l’ultimo, breve scorcio con Farida Khelfa, dove celebrando “il suono del vento, il suono dell’amore” ammette: “Nel rock’n’roll servono solo tre accordi, ero molto fortunato, era molto facile”. Ci siamo persi qualcosa? Eravamo rimasti che ne bastavano due (con tre siamo già nel jazz).
lunedì 5 maggio 2025
Henry Miller
Parigi e New York sono i poli verso cui rimbalza la Primavera nera di Henry Miller: l’idea di una città che si sdoppia nell’altra in un turbinio sfrenato di sogni e poemi, di volti e di orinatoi, di vagabondaggi ed esplorazioni, è una celebrazione che la trasforma in uno specchio e il suo riflesso è una sentenza: “Ciò che non è in mezzo alla strada è falso, derivato, vale a dire: letteratura”. Vicoli e angoli di Parigi sono il primo territorio delle avventure di Henry Miller ed è già consapevole che “puoi conoscere ogni strada di Parigi e non conoscere Parigi, ma quando hai dimenticato dove ti trovi e la pioggia cade lieve, all’improvviso vagando senza meta giungi alla strada per la quale sei passato tante volte nei tuoi sogni e per questa strada stai passando anche ora”. È una geografia particolare, quella che si riproduce nella sua voce senza pudori, in un flusso infinito che si fa ancora più voluttuoso nei ritratti di New York. Dai porti ai grattacieli fino alle hall degli alberghi, una miriade di personaggi spuntano all’improvviso, ma “i ragazzi che hai adorato quando la prima volta sei sceso in strada restano con te per tutta la vita”. La direzione del tempo è biunivoca: il passaggio del testimone a Brooklyn da Walt Whitman e a Coney Island verso Lawrence Ferlinghetti, ricorda che ci sono progenitori e successori, anche se poi Primavera nera è dominata da una “Scarsa visibilità: previsioni per il Bronx, l’America, il mondo moderno tutto. Scarsa visibilità accompagnata da grossi scrosci di risa. Nessuna nuova stella all’orizzonte. Catastrofi... Solo catastrofi”. Parigi è lontana e Henry Miller è persino profetico quando osserva il suo paese: “Vedo nell’America l’origine dei disastri. Vedo l’America come una nera maledizione sulla faccia della terra. Vedo subentrare una lunga notte e vedo quel fungo che ha avvelenato il mondo inaridirsi alle radici”. È una constatazione double face che lo tocca nel profondo: “Come uomo del continente americano, non riuscivo a credere che esistesse un posto sulla terra dove un uomo potesse essere se stesso”. La costruzione mentale coincide con la scrittura, come se fosse uno strumento per definire una personalità, o con la pittura (“Il disegno è una semplice scusa per il colore”), nessuna distinzione tra arte, vita e follia e mentre “ogni cosa si sbriciola e rovina, ogni cosa scintilla, oscilla, vacilla, barcolla”, diventa un’occasione per “vivere i propri desideri, darvi fondo nella vita, tale è il grande disegno dell’esistenza”. Henry Miller in Primavera nera si dimostra uno scrittore infinito, nel senso che non si ferma mai: in tutti i volti che si susseguono, una ben stramba umanità, ritrova un po’ di se stesso ed è una ricerca complessa e istintiva, ogni deviazione pare definitiva, ma ogni istante è provvisorio perché, ammette: “Insomma, sono come un uomo che si sveglia da un lungo sonno e scopre di aver sognato”. È un tempo, un momento irripetibile (“Ho tale e tanta fretta di riversare fuori i miei pensieri che li supero di corsa nel buio”) che Henry Miller pare recepire con tutti i sensi, traducendoli con lo strumento improprio della scrittura: Primavera nera apre un varco nella capacità di trasfigurare gli aspetti personali in deviazioni universali e generali tanto che “ogni capitolo del libro che è scritto nell’aria addensa il sangue; la sua musica assorda l’ansia scatenata dell’aria esterna. La notte cade come il rombo di un tuono, mi deposita a terra, sulla strada dei pedoni che alla fine non porta in nessun posto, ma è allegramente circondata da raggi lucenti lungo i quali non si può tornare indietro né sostare”. Questa è l’unicità di Henry Miller, che poi troverà conseguenze e maggiori espressioni in seguito, ma che in Primavera nera ha una sua peculiare istintività e intensità. La scrittura è un processo irreversibile, un moto perpetuo che non lascia scampo, un tour de force che implica un tutto. Tumultuoso e disinibito, Henry Miller si (e ci) proietta altrove con il suo gesto: “Scrivo dal nulla ogni giorno. Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io, tra costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e plasmare nuovi mondi”. Visionario, a Parigi come a New York.
mercoledì 30 aprile 2025
George Saunders
Bengodi o Il declino delle guerre civili americane, la prima raccolta di racconti di George Saunders, nasce in circostanze precarie raccontate così nella nota introduttiva: “Più che altro usavo qualunque racconto stessi scrivendo all’epoca per arrivare a fine giornata e infondermi un briciolo di controllo e padronanza. Erano una fonte segreta di sostegno. Se al mattino riuscivo a buttare giù qualche frase azzeccata il resto della giornata migliorava”. A dispetto delle condizioni, lo spirito è pungente e irriverente come pochi o nessun altro: George Saunders sa divertire, ma anche scrutare a fondo le idiosincrasie di un mondo sulla soglia di una crisi di nervi. Le short story di Bengodi sono spiazzanti, spesso caustiche, le frasi si avvitano una con l’altra, le condizioni dei suoi protagonisti sono sempre estreme, e lo stile è una sorpresa perché una volta che, per sua stessa ammissione, si è lasciato alle spalle le imitazioni d’ordinanza di Hemingway e Carver, George Saunders ha trovato una direzione originale, per quanto ancora in via di sviluppo. Bengodi è giusto un inizio che viene presentato dallo stesso autore persino con una certa modestia: “Benché questo libro sia breve e ci siano voluti sette lunghi anni per scriverlo, benché sia smozzicato, zoppicante e, sì, anche cupo e forse a tratti morboso, ricordo gli anni in cui è stato scritto come i più ricchi e magici della mia vita, pieni di speranza e di amore e aspirazioni, e della soddisfazione di essere riuscito, finalmente, a realizzare qualcosa”. In Bengodi si presentano alcuni soggetti ricorrenti dalle frustranti dinamiche aziendali in 180 chili di amministratore delegato o di Scaricando dati per la signora Schwartz, e già i titoli sono rappresentativi, ai parchi a tema (che torneranno subito in Pastoralia), una vera e propria ossessione. Non sfugge il simbolismo che delimita il perimetro di Terra della Guerra Civile in grave declino, Il fabbricaonde insicuro o La fallita campagna di terrore della disgraziata Mary. I personaggi sono incastrati a vario titolo in ruoli asfissianti e si trovano ad affrontare condizioni proibitive e prove allucinanti, comprensive in qualche caso della coabitazione di ingombranti fantasmi. Ogni riferimento alla caotica realtà quotidiana della fine del ventesimo secolo non è per niente causale e per George Saunders ogni racconto è un laboratorio linguistico dove vengono fusi luoghi comuni e gerghi specialistici, e i dialoghi diventano labirinti e fuochi d’artificio. Grazie al ritmo martellante e incisivo, Bengodi espande una sorta di Disneyland in acido sull’intera America e se, a tratti, è anche eccessivo e grottesco, in qualche modo risulta profetico quando dice che: “C’era la guerra civile ma le stelle brillavano come cristalli”. Era soltanto il 1996 e, tornando all’introduzione, George Saunders ha aggiunto un corso accelerato di approccio alla scrittura, e molto di più, quando dice: “Un libro è proprio questo: un tentativo fallito che, ciò nonostante, è sincero, sudato, ed emendato il più possibile, date le limitate capacità dell’autore, da ogni falsità e quindi imbevuto di una sorta di purezza. Un libro non deve fare tutto, ricordo che mi dicevo a questi tempi, a mo’ di consolazione; deve solo fare qualcosa”. Senza dubbio, Bengodi è uno di quei libri che non perdono l’occasione.
lunedì 28 aprile 2025
Jane Smiley
L’agricoltura nelle sterminate lande dello Iowa chiede tutto, e anche di più. Per le sorelle Cook (Rose, Caroline e Virginia alias Ginny) il senso delle generazioni che si susseguiti nello stesso perimetro ha un valore esplicito, e doloroso. È nella voce di Ginny che i alternano i ricordi dell’infanzia, un presente da decifrare e il passato che è sempre in agguato: insieme alla terra, Rose e Ginny hanno ereditato un’ombra che entrava nelle loro camere. Nella successione c’è sempre qualcosa che non si vorrebbe portare via. Emerge appena superata la metà del romanzo di Jane Smiley: il gesto di Larry Cook, nel tramandare le proprietà pare sensato e logico, ma riapre oscure ferite del passato, popolato da fantasmi di violenze e abusi, proprio dentro le stesse mura. Se ha un peso “la saggezza delle pianure: fingere che non sia successo” è perché “gran parte delle preoccupazioni in una fattoria si riassume in una soltanto: salvare le apparenze”. In questo Jane Smiley è una narratrice attenta e raffinata, capace di cogliere la vita scandita dai ritmi naturali delle campagne e delle famiglie, i Cook, da un parte e i Clark dall’altra. Una routine faticosa che è spezzata proprio dal gesto del lascito paterno, che impone un cambiamento. In quel momento l’equilibrio, basato su una parvenza di normalità, non meno che sulle abitudini, va in frantumi. Larry Cook è una figura prominente e inamovibile in una tradizione patriarcale, dentro un mondo a trazione maschile, dove le donne sono confinate a ruoli ben precisi ma distanti dalla reale possibilità di decidere qualcosa. Nonostante la vastità delle colture e del paesaggio è “un mondo piccolo, piccolo e completo, che si ripiegava di continuo su sé stesso”, e i rapporti famigliari sono soggetti a tensioni nascoste, e spesso indicibili. Le personalità a quel punto sbocciano come il granturco maturo, ognuna con i suoi drammi irrisolti e il primo è proprio Larry che scompare in una notte di pioggia. Da lì è un susseguirsi di colpi di scena: alcuni sorprendono, altri risulteranno prevedibili. Attorno alle fattorie si sviluppa un coacervo di sentimenti contrastanti: il passaggio di proprietà toccherà i destini di un po’ tutti i protagonisti, con i tempi dell’agricoltura sullo sfondo, anche se gli intrecci tra investimenti, debiti, inquinamento, allevamenti, semine e raccolti sottolineano altrettante svolte in Erediterai la terra. L’impressione è che nell’estate del 1979 siano successe troppe cose nella Zebulon County e se è vero che “non è un peccato lottare: tutti lo fanno” i conflitti, per quanto aspri (e violenti) sembrano filtrati da una scrittura accomodante, con un mood che ha anche una sua logica nel riportare come “tutto sembrava straordinariamente remoto”. Il tono, molto elegante, ricorda un po’ quello di Anne Tyler con un tatto speciale per le emozioni dei personaggi. Per esempio, l’ottica di Ginny, che è fondamentale nell’economia della storia, viene celebrata così: “Mi chiesi se, in fondo, non fosse quello il modo giusto di guardare le cose: aspirare l’odore delle rose selvatiche nel bel mezzo di una discarica e osservare tutto in prospettiva”. Il dubbio è una costante, i giudizi restano sospesi, il tormento, per quanto garbato, è incessante finché, come pare avvisarci Jane Smiley, “ricordiamo che non si è mai gli stessi, ma che arriva un momento in cui il sollievo diventa abbastanza” e questo, come si vedrà, è anche l’amara conclusione di Erediterai la terra.
giovedì 24 aprile 2025
T. C. Boyle
I rapporti Kinsey hanno sviluppato, sulla base di un’indagine vasta e complessa, un nuovo modello di percezione della sessualità. Basati su un enorme lavoro di ricerca sul campo, attraverso lo strumento dell’intervista (ne vennero svolte e archiviate decine di migliaia), sono stati un evento di rilevanza sociale e, ancora oggi, costituiscono un elemento di discussione non indifferente. Un’impresa che T. C. Boyle ha provato a rileggere dall’interno, introducendo la parabola di John Milk, assistente e compagno di viaggio di Alfred Kinsey alias Prok. Lo segue fin dagli anni dell’università, all’alba della seconda guerra mondiale, poi nel suo coinvolgimento con l’iniziativa di Doctor Sex e infine nel matrimonio con Iris, figura destinata ad avere un ruolo dirompente nell’evolversi della storia. Comunque lo si guardi, Kinsey è stato un pioniere, capace di promuovere l’uomo come un essere pansessuale e di emozionarsi per “il coito degli istrici”, di tuffarsi senza protezioni nei bassifondi delle città americane, dopo giorni e giorni passati sulle strade, per raccogliere testimonianze dirette. Fin da subito il racconto procede con insistenza, con un mood discreto, quasi monotono, che ruota attorno a John Milk: la scrittura lo ritrae a ciclo continuo, un po’ ripetitiva e a tratti asettica, nel disegnarne le giornate, una dopo l’altra. È come se si ripetesse una sequenza, cercando un ordine dentro la turbolenta esistenza dello stesso Kinsey. Il romanzo ne mette in evidenza le contraddizioni e le incongruenze: lo sviluppo di un processo scientifico singolare e del tutto inedito proprio nel momento del maggior sforzo bellico di un’intera nazione, i contrasti con la morale dominante all’epoca, le lotte intestine alle comunità universitarie ed editoriali, una dose non trascurabile di promiscuità. L’ossessione di Prok, non tanto per il sesso quanto per il suo lavoro, assorbe le vite: la sua figura risalta anche per eccesso, ma non è chiaro dove voglia arrivare Doctor Sex. Funziona tutto, anche l’inevitabile colpo di scena finale, e la descrizione e l’assemblaggio dei personaggi si incastra alla perfezione nello stile minuzioso di T. Coraghessan Boyle, che non si lascia sfuggire nulla. Nelle sovrapposizioni della ricerca, che per Kinsey era una missione nella vita, con le tensioni famigliari, in particolare per John e Iris Milk, Doctor Sex si sviluppa per ondate successive che si susseguono, alternando i contorni domestici ai vagabondaggi notturni (e non) in cerca di soggetti adatti alla ricerca. La costruzione è ipnotica, ma dopo un po’, è anche prevedibile. Il ritmo sembra fatto apposta per avvicinarsi con tutte le cautele, per gradi e con insistenza, alle sollecitazioni generate da Prok e dalla sua iperattività: una personalità ritratta in tutte le angolazioni possibili, dal biologo al padre e marito con tutte le contraddizioni e gli spigoli e i lati oscuri. Doctor Sex lo colloca in un’ottica tridimensionale, compresi gli aspetti da voyeur, e la percezione di T. C. Boyle merita per aver ridefinito a modo suo una figura come quella di Kinsey, un po’ come ha fatto con quella di Frank Lloyd Wright in Le donne, personalità ingombranti guidate da un tensione straordinaria che gli ha consumato la vita.
venerdì 18 aprile 2025
Glendon Swarthout
Per anni, l’illusione del West è stata un’attrazione magnetica, alimentata da campagne promozionali assillanti per favorire le migrazioni da una costa all’altra. La leggenda, come la descrive Jonathan Raban in Bad Land, aveva tutta l’aura di “un mondo di avventure solitarie ma edificanti, di poveri pastorelli che diventano presidenti, di eroi puri e leali, una terra dove una stella ammiccava in permanenza sull’orizzonte del West e dove la miseria e le malattie mettevano semplicemente alla prova la tempra americana”. Un miraggio, nella forma e una truffa nazionale nella sostanza: le concessioni governative erano un azzardo e la terra promessa si rivelò ben presto un habitat selvaggio, ostico e durissimo. Il clima estremo, dettato da lunghi e gelidi inverni, privazioni, fatiche e dolori insopportabili a cui bisogna aggiungere, su tutto, la paura (delle belve, degli indiani, dei banditi) e il rischio costante del fallimento sono stati i limiti, per usare un eufemismo, della colonizzazione del West. Il prezzo l’hanno pagato soprattutto le mogli, le madri, le figlie che hanno dovuto sopportare l’impossibile, e non sempre ce l’hanno fatta, e sono state dimenticate. Con L’accompagnatore, Glendon Swarthout, pare restituire almeno il decoro della memoria raccontando il ritorno a casa di un gruppo di donne impazzite. La comitiva è organizzata su un insolito carro a scatola tirato da due muli e guidato da Mary Bee Cuddy che si è offerta, con tutta la sua generosità, per il ruolo di guida. Come capirà ben presto l’altruismo da solo non basta e non è la soluzione così quando, per un caso fortuito, si imbatte in George Briggs ovvero L’accompagnatore lo convince a seguirla nella missione. È una figura emblematica: disertore, ladro, giocatore d’azzardo, pistolero la segue soltanto per salvarsi dall’impiccagione e per la ricompensa che lei gli promette. Insieme devono passare una serie di prove, oltre ad accudire le povere creature folli e indifese che trasportano nel carro: gli indiani, i ladri, la fame, il freddo sono gli ostacoli principali come se fosse una migrazione biblica. Alcune riescono a superarle, grazie all’astuzia e all’esperienza, ma il viaggio mette entrambi i conduttori davanti al proprio destino. La trasformazione dei protagonisti e del loro rapporto è il volano del romanzo che poi vive delle immagini di Glendon Swarthout, che ha un occhio cinematografico capace di condensare paesaggi ed esseri umani. Mary Bee Cuddy e George Briggs devono ricorrere a tutte le possibilità per riuscire nell’impresa e, se per lui è in gioco soltanto la sopravvivenza, per lei c’è qualcosa di più, e lo si nota quando lo avvisa: “Magari non ora, ma un giorno, quando le avremo portate a casa sane e salve, comprenderete che impresa grandiosa e gloriosa avrete compiuto. A parte i soldi, potrebbe essere l’unico atto di altruismo che avrete mai fatto”. A quel punto non manca molto alla destinazione e L’accompagnatore si riserva un altro gesto quando i gestori di un albergo sorto "in the middle of nowhere" con lo scopo di accogliere investitori e speculatori della frontiera respinge lui e le donne, tutti ormai ridotti a ombre vaganti nelle praterie. La sua reazione, figlia di un istinto guerriero mai sopito, risalta come una vendetta per l’inganno dei territori del West, un mito falso e ingannevole durato troppo a lungo.
lunedì 7 aprile 2025
Carl Hiaasen
Il primo a farsi notare è Palmer Stoat, “noto lobbysta, faccendiere e procacciatore di affari” che si presenta giusto così: “Io ricevo le telefonate e faccio le mie magie”. Un lavoro interessante, tutto sommato. Tra i difetti fisiologici di un mestatore professionista ha un tic speciale: storpia i titoli delle canzoni, e questo è un indizio importante. Nella sua posizione, compresa l’avvenente moglie (Desie alias Desiderata) è il perno attorno a cui ruota tutto un losco e macchinoso affare, ovvero il tentativo di trasformare Toad Island, un piccolo angolo di paradiso sulla costa della Florida abitato da un’innocua comunità di rospi, in Shearwater, un’area residenziale completa degli inevitabili campi da golf, attracchi per turisti e altri ammennicoli per un affare di ventotto milioni di dollari. La cifra è indicativa, ma non esaustiva: per collegare l’isola bisogna sostituire l’antico ponte e quando si tratta di infrastrutture e serve l’intervento del governatore e delle risorse pubbliche, viene il momento della mobilitazione di Palmer Stoat, per il quale “qualsiasi cosa non potesse mangiare, bere o riorganizzare veniva gettata via”. È proprio lì che nasce il problema, perché viene intercettato mentre disperde rifiuti dalla lussuosa BMW della moglie. Purtroppo per loro, incrociano Twilly Spree, erede di una fortuna e libero pensatore (mettiamola così), che odia i contaminatori di ogni origine e specie e dato che “la vendetta non dovrebbe mai essere ambigua”, agisce di conseguenza. Ne succedono di tutti i colori perché Cane sciolto è un romanzo pirotecnico, divertente e agrodolce. Quella punta di amarezza è dovuta al sottofondo realistico dell’intreccio di politica, affari, sfruttamento del territorio perché, come scrive Carl Hiaasen “questa storia non riguarda i rospi, ma riguarda il saccheggio”. Non buttare niente dal finestrino sarebbe già un successo, e c’è un umorismo cupo e sottile, ma costante nel febbricitante racconto di Cane sciolto. La fumosa grigliata di Carl Hiaasen prevede di tutto e i personaggi fioriscono senza sosta in un caos che comprende, in ordine sparso: politicanti, speculatori, poliziotti, bracconieri, parassiti, miracolose polveri dai corni di rinoceronti, molto alcol, bambole, sigari e ossessioni e perversioni distribuite a pioggia, compreso un tremendo killer con una cresta punk, un abito pied-de-poule e stivaletti che “Gerry and the Pacemakers avrebbero potuto portare nel 1964”. Qui siamo in un’altra era e un labrador, che poi è il vero protagonista di Cane sciolto, viene rinominato McGuinn, proprio in omaggio a Roger e in particolare a Back From Rio. Troverà un degno compare in Twilly Spree, che “pur apprezzando la poesia, sentiva che la sovversione era una causa più valida”. La Florida pare il luogo adatto per mettere in pratica la sua visione e il finale si fa convulso: non di rado con Carl Hiaasen ci si innamora dei personaggi, ma quando sono troppo nei guai e il racconto si fa via via sempre più frenetico, si sente anche l’istinto di lasciarli ai loro destini assecondando la storia, giusto per vedere come andrà a finire. Cane sciolto è l’apoteosi dell’immaginario di Carl Hiaasen che contiene la Florida con le sue bellezze naturali e i disastri umani, la sensibilità per l’ambiente e i destini delle persone, l’indignazione per la politica autoreferenziale e una corruzione endemica, tutto dispiegato a ritmo di rock’n’roll, qui elencato in un modo o nell’altro: Dylan, Beatles, Stones, Derek & The Dominoes, Doors, Beach Boys, Jethro Tull, Creedence Clearwater Revival e Tom Petty con Rebels cantata all’unisono dalla stramba e fragile alleanza tra Twilly Spree e Desie Stoat. Conoscono entrambi le parole giuste, ed è quello che fa la differenza.
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