martedì 6 maggio 2025

Lou Reed

Fuori dal mainstream, urticante fino alla fine, Lou Reed non è mai stato un interlocutore facile, ritenendo l’intervista una forma di comunicazione non molto distante dalla tortura. Eppure nei confronti diretti, ha saputo manovrare tra domande e risposte concedendosi ampi spazi per rivelare la sua personalità. Un “uomo complesso”, come dice Patti Smith nel suo “coccodrillo”, e non c’è dubbio, ma era anche “curioso, a volte sospettoso, un lettore vorace e un esploratore di suoni. Un oscuro pedale per chitarra era per lui un altro tipo di poesia”. Fin qui ci siamo e seguono gli incontri più ingombranti, quelli con Lester Bangs e William Burroughs. Con tutta la simpatia e la complicità possibili per Lester Bangs il suo tentativo di affrontare Lou Reed sullo stesso piano suona, a posteriori, abbastanza fallimentare. Di certo, quell’approccio, siamo nel 1975, mostra tutti gli anni che ha, e alla fine è anche giusto ricordare che Lester Bangs accettava la realtà che aveva di fronte: “Lou Reed è il mio eroe principalmente perché sta dalla parte. Di tutto ciò che di più strambo potrebbe mai venirmi in mente. Il che, probabilmente, non fa altro che dimostrare la limitatezza della mia immaginazione”. L’appuntamento con William Burroughs, mediato da Victor Bockris nel “bunker” di New York si risolve in uno scambio di battute nel nome della reciproca ammirazione e con gli ossequi a Jack Kerouac e Samuel Beckett. Non bisogna essere per forza accondiscendenti e Lou Reed non lo era, ma David Fricke, che almeno cerca di restare nel seminato, l’intervista ha più senso. Siamo nel momento di New York ed è chiaro che Lou Reed ha smesso di giustificarsi per aver elevato e condiviso i drammi e i bassifondi dell’esistenza. Il colloquio telefonico con Neil Gaiman, per come viene raccolto e descritto, merita di essere segnalato come una svolta nell’ambito del rapporto di Lou Reed con le interviste. Neil Gaiman riflette intorno a Between Thought And Expression, il libro dei testi e il box antologico. e Lou Reed riesce ad accordarsi e ad aprirsi, spiegando con chiarezza le sue intenzioni: “Capita di scrivere canzoni che sono semplice divertimento, il testo non potrebbe sopravvivere senza la musica. Ma per la gran parte delle cose che faccio, l’idea era quella di provare ad applicare uno sguardo da romanziere, e, nella struttura del rock’n’roll, provare ad aggiungere quel tipo di scrittura, così che chi ama farsi coinvolgere a quel livello potesse avere quella scrittura ma anche il rock’n’roll”. E sul finire della telefonata, confessa: “Ho tentato più che potevo di creare situazioni in cui io potessi prosperare. E questo è un dovere che sento: rimanere fedele al talento e far sì che possa esprimersi e prosperare”. Tutto bello e facile con Paul Auster, con cui ha collaborato per Smoke e Blue In The Face. Il dialogo è serrato e amichevole, uno finisce le frasi dell’altro. Paul Auster lo incalza: “Io penso che scrivere ti mantenga giovane. Ogni arte mantiene le persone attive, perché non smette mai. Continui a farlo finché crepi”. Dal canto suo Lou Reed conviene e ribadisce: “E c’è anche da dire che non ti fai dissanguare e prosciugare da un lavoro che non ti lascia esprimere, se quella è la cosa che ti fa respirare!”. Più ostica l’intervista con tale David Marchese: è un battibecco continuo ed è difficile non schierarsi con Lou Reed, che ci mette meno di un secondo a tirare fuori il suo lato scostante e ostile. Però, tra un silenzio e un alterco, riesce a definire le sue aspirazioni: “Hubert Selby. William Burroughs. Allen Ginsberg. Delmore Schwartz. Riuscire a ottenere quello che hanno ottenuto loro, in così poco spazio, con parole così semplici. Pensavo che riuscire a fare quello che erano riusciti a fare questi scrittori traslandolo su batteria e chitarra sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Avrei fatto strike. È un pensiero semplice. Non c’è niente di complicato in me. Sono la persona più regolare che ci sia”. Diciamo che, nel complesso, Lou Reed è stato un grande, i suoi intervistatori un po’ meno: Passeggiando sul lato selvaggio è un ritratto parziale, uno spezzone di una storia che ha ancora molto da rivelare, ma a suo modo funzionale perché traccia un profilo in modi differenti, spesso contrastanti. Resta l’ultimo, breve scorcio con Farida Khelfa, dove celebrando “il suono del vento, il suono dell’amore” ammette: “Nel rock’n’roll servono solo tre accordi, ero molto fortunato, era molto facile”. Ci siamo persi qualcosa? Eravamo rimasti che ne bastavano due (con tre siamo già nel jazz).

lunedì 5 maggio 2025

Henry Miller

Parigi e New York sono i poli verso cui rimbalza la Primavera nera di Henry Miller: l’idea di una città che si sdoppia nell’altra in un turbinio sfrenato di sogni e poemi, di volti e di orinatoi, di vagabondaggi ed esplorazioni, è una celebrazione che la trasforma in uno specchio e il suo riflesso è una sentenza: “Ciò che non è in mezzo alla strada è falso, derivato, vale a dire: letteratura”. Vicoli e angoli di Parigi sono il primo territorio delle avventure di Henry Miller ed è già consapevole che “puoi conoscere ogni strada di Parigi e non conoscere Parigi, ma quando hai dimenticato dove ti trovi e la pioggia cade lieve, all’improvviso vagando senza meta giungi alla strada per la quale sei passato tante volte nei tuoi sogni e per questa strada stai passando anche ora”. È una geografia particolare, quella che si riproduce nella sua voce senza pudori, in un flusso infinito che si fa ancora più voluttuoso nei  ritratti di New York. Dai porti ai grattacieli fino alle hall degli alberghi, una miriade di personaggi spuntano all’improvviso, ma “i ragazzi che hai adorato quando la prima volta sei sceso in strada restano con te per tutta la vita”. La direzione del tempo è biunivoca: il passaggio del testimone a Brooklyn da Walt Whitman e a Coney Island verso Lawrence Ferlinghetti, ricorda che ci sono progenitori e successori, anche se poi Primavera nera è dominata da una “Scarsa visibilità: previsioni per il Bronx, l’America, il mondo moderno tutto. Scarsa visibilità accompagnata da grossi scrosci di risa. Nessuna nuova stella all’orizzonte. Catastrofi... Solo catastrofi”. Parigi è lontana e Henry Miller è persino profetico quando osserva il suo paese: “Vedo nell’America l’origine dei disastri. Vedo l’America come una nera maledizione sulla faccia della terra. Vedo subentrare una lunga notte e vedo quel fungo che ha avvelenato il mondo inaridirsi alle radici”. È una constatazione  double face che lo tocca nel profondo: “Come uomo del continente americano, non riuscivo a credere che esistesse un posto sulla terra dove un uomo potesse essere se stesso”. La costruzione mentale coincide con la scrittura, come se fosse uno strumento per definire una personalità, o con la pittura (“Il disegno è una semplice scusa per il colore”), nessuna distinzione tra arte, vita e follia e mentre “ogni cosa si sbriciola e rovina, ogni cosa scintilla, oscilla, vacilla, barcolla”, diventa un’occasione per “vivere i propri desideri, darvi fondo nella vita, tale è il grande disegno dell’esistenza”. Henry Miller in Primavera nera si dimostra uno scrittore infinito, nel senso che non si ferma mai: in tutti i volti che si susseguono, una ben stramba umanità, ritrova un po’ di se stesso ed è una ricerca complessa e istintiva, ogni deviazione pare definitiva, ma ogni istante è provvisorio perché, ammette: “Insomma, sono come un uomo che si sveglia da un lungo sonno e scopre di aver sognato”. È un tempo, un momento irripetibile (“Ho tale e tanta fretta di riversare fuori i miei pensieri che li supero di corsa nel buio”) che Henry Miller pare recepire con tutti i sensi, traducendoli con lo strumento improprio della scrittura: Primavera nera apre un varco nella capacità di trasfigurare gli aspetti personali in deviazioni universali e generali tanto che “ogni capitolo del libro che è scritto nell’aria addensa il sangue; la sua musica assorda l’ansia scatenata dell’aria esterna. La notte cade come il rombo di un tuono, mi deposita a terra, sulla strada dei pedoni che alla fine non porta in nessun posto, ma è allegramente circondata da raggi lucenti lungo i quali non si può tornare indietro né sostare”. Questa è l’unicità di Henry Miller, che poi troverà conseguenze e maggiori espressioni in seguito, ma che in Primavera nera ha una sua peculiare istintività e intensità. La scrittura è un processo irreversibile, un moto perpetuo che non lascia scampo, un tour de force che implica un tutto.  Tumultuoso e disinibito, Henry Miller si (e ci) proietta altrove con il suo gesto: “Scrivo dal nulla ogni giorno. Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io, tra costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e plasmare nuovi mondi”. Visionario, a Parigi come a New York.

mercoledì 30 aprile 2025

George Saunders

Bengodi o Il declino delle guerre civili americane, la prima raccolta di racconti di George Saunders, nasce in circostanze precarie raccontate così nella nota introduttiva: “Più che altro usavo qualunque racconto stessi scrivendo all’epoca per arrivare a fine giornata e infondermi un briciolo di controllo e padronanza. Erano una fonte segreta di sostegno. Se al mattino riuscivo a buttare giù qualche frase azzeccata il resto della giornata migliorava”. A dispetto delle condizioni, lo spirito è pungente e irriverente come pochi o nessun altro: George Saunders sa divertire, ma anche scrutare a fondo le idiosincrasie di un mondo sulla soglia di una crisi di nervi. Le short story di Bengodi sono spiazzanti, spesso caustiche, le frasi si avvitano una con l’altra, le condizioni dei suoi protagonisti sono sempre estreme, e lo stile è una sorpresa perché una volta che, per sua stessa ammissione, si è lasciato alle spalle le imitazioni d’ordinanza di Hemingway e Carver, George Saunders ha trovato una direzione originale, per quanto ancora in via di sviluppo. Bengodi è giusto un inizio che viene presentato dallo stesso autore persino con una certa modestia: “Benché questo libro sia breve e ci siano voluti sette lunghi anni per scriverlo, benché sia smozzicato, zoppicante e, sì, anche cupo e forse a tratti morboso, ricordo gli anni in cui è stato scritto come i più ricchi e magici della mia vita, pieni di speranza e di amore e aspirazioni, e della soddisfazione di essere riuscito, finalmente, a realizzare qualcosa”. In Bengodi si presentano alcuni soggetti ricorrenti dalle frustranti dinamiche aziendali in 180 chili di amministratore delegato o di Scaricando dati per la signora Schwartz, e già i titoli sono rappresentativi, ai parchi a tema (che torneranno subito in Pastoralia), una vera e propria ossessione. Non sfugge il simbolismo che delimita il perimetro di Terra della Guerra Civile in grave declino, Il fabbricaonde insicuro o La fallita campagna di terrore della disgraziata Mary. I personaggi sono incastrati a vario titolo in ruoli asfissianti e si trovano ad affrontare condizioni proibitive e prove allucinanti, comprensive in qualche caso della coabitazione di ingombranti fantasmi. Ogni riferimento alla caotica realtà quotidiana della fine del ventesimo secolo non è per niente causale e per George Saunders ogni racconto è un laboratorio linguistico dove vengono fusi luoghi comuni e gerghi specialistici, e i dialoghi diventano labirinti e fuochi d’artificio. Grazie al ritmo martellante e incisivo, Bengodi espande una sorta di Disneyland in acido sull’intera America e se, a tratti, è anche eccessivo e grottesco, in qualche modo risulta profetico quando dice che: “C’era la guerra civile ma le stelle brillavano come cristalli”. Era soltanto il 1996 e, tornando all’introduzione, George Saunders ha aggiunto un corso accelerato di approccio alla scrittura, e molto di più, quando dice: “Un libro è proprio questo: un tentativo fallito che, ciò nonostante, è sincero, sudato, ed emendato il più possibile, date le limitate capacità dell’autore, da ogni falsità e quindi imbevuto di una sorta di purezza. Un libro non deve fare tutto, ricordo che mi dicevo a questi tempi, a mo’ di consolazione; deve solo fare qualcosa”. Senza dubbio, Bengodi è uno di quei libri che non perdono l’occasione.

lunedì 28 aprile 2025

Jane Smiley

L’agricoltura nelle sterminate lande dello Iowa chiede tutto, e anche di più. Per le sorelle Cook (Rose, Caroline e Virginia alias Ginny) il senso delle generazioni che si susseguiti nello stesso perimetro ha un valore esplicito, e doloroso. È nella voce di Ginny che i alternano i ricordi dell’infanzia, un presente da decifrare e il passato che è sempre in agguato: insieme alla terra, Rose e Ginny hanno ereditato un’ombra che entrava nelle loro camere. Nella successione c’è sempre qualcosa che non si vorrebbe portare via. Emerge appena superata la metà del romanzo di Jane Smiley: il gesto di Larry Cook, nel tramandare le proprietà pare sensato e logico, ma riapre oscure ferite del passato, popolato da fantasmi di violenze e abusi, proprio dentro le stesse mura. Se ha un peso “la saggezza delle pianure: fingere che non sia successo” è perché “gran parte delle preoccupazioni in una fattoria si riassume in una soltanto: salvare le apparenze”. In questo Jane Smiley è una narratrice attenta e raffinata, capace di cogliere la vita scandita dai ritmi naturali delle campagne e delle famiglie, i Cook, da un parte e i Clark dall’altra. Una routine faticosa che è spezzata proprio dal gesto del lascito paterno, che impone un cambiamento. In quel momento l’equilibrio, basato su una parvenza di normalità, non meno che sulle abitudini, va in frantumi. Larry Cook è una figura prominente e inamovibile in una tradizione patriarcale, dentro un mondo a trazione maschile, dove le donne sono confinate a ruoli ben precisi ma distanti dalla reale possibilità di decidere qualcosa. Nonostante la vastità delle colture e del paesaggio è “un mondo piccolo, piccolo e completo, che si ripiegava di continuo su sé stesso”, e i rapporti famigliari sono soggetti a tensioni nascoste, e spesso indicibili. Le personalità a quel punto sbocciano come il granturco maturo, ognuna con i suoi drammi irrisolti e il primo è proprio Larry che scompare in una notte di pioggia. Da lì è un susseguirsi di colpi di scena: alcuni sorprendono, altri risulteranno prevedibili. Attorno alle fattorie si sviluppa un coacervo di sentimenti contrastanti: il passaggio di proprietà toccherà i destini di un po’ tutti i protagonisti, con i tempi dell’agricoltura sullo sfondo, anche se gli intrecci tra investimenti, debiti, inquinamento, allevamenti, semine e raccolti sottolineano altrettante svolte in Erediterai la terra. L’impressione è che nell’estate del 1979 siano successe troppe cose nella Zebulon County e se è vero che “non è un peccato lottare: tutti lo fanno” i conflitti, per quanto aspri (e violenti) sembrano filtrati da una scrittura accomodante, con un mood che ha anche una sua logica nel riportare come “tutto sembrava straordinariamente remoto”. Il tono, molto elegante, ricorda un po’ quello di Anne Tyler con un tatto speciale per le emozioni dei personaggi. Per esempio, l’ottica di Ginny, che è fondamentale nell’economia della storia, viene celebrata così: “Mi chiesi se, in fondo, non fosse quello il modo giusto di guardare le cose: aspirare l’odore delle rose selvatiche nel bel mezzo di una discarica e osservare tutto in prospettiva”. Il dubbio è una costante, i giudizi restano sospesi, il tormento, per quanto garbato, è incessante finché, come pare avvisarci Jane Smiley, “ricordiamo che non si è mai gli stessi, ma che arriva un momento in cui il sollievo diventa abbastanza” e questo, come si vedrà, è anche l’amara conclusione di Erediterai la terra.

giovedì 24 aprile 2025

T. C. Boyle

I rapporti Kinsey hanno sviluppato, sulla base di un’indagine vasta e complessa, un nuovo modello di percezione della sessualità. Basati su un enorme lavoro di ricerca sul campo, attraverso lo strumento dell’intervista (ne vennero svolte e archiviate decine di migliaia), sono stati un evento di rilevanza sociale e, ancora oggi, costituiscono un elemento di discussione non indifferente. Un’impresa che T. C. Boyle ha provato a rileggere dall’interno, introducendo la parabola di John Milk, assistente e compagno di viaggio di Alfred Kinsey alias Prok. Lo segue fin dagli anni dell’università, all’alba della seconda guerra mondiale, poi nel suo coinvolgimento con l’iniziativa di Doctor Sex e infine nel matrimonio con Iris, figura destinata ad avere un ruolo dirompente nell’evolversi della storia. Comunque lo si guardi, Kinsey è stato un pioniere, capace di promuovere l’uomo come un essere pansessuale e di emozionarsi per “il coito degli istrici”, di tuffarsi senza protezioni nei bassifondi delle città americane, dopo giorni e giorni passati sulle strade, per raccogliere testimonianze dirette. Fin da subito il racconto procede con insistenza, con un mood discreto, quasi monotono, che ruota attorno a John Milk: la scrittura lo ritrae a ciclo continuo, un po’ ripetitiva e a tratti asettica, nel disegnarne le giornate, una dopo l’altra. È come se si ripetesse una sequenza, cercando un ordine dentro la turbolenta esistenza dello stesso Kinsey. Il romanzo ne mette in evidenza le contraddizioni e le incongruenze: lo sviluppo di un processo scientifico singolare e del tutto inedito proprio nel momento del maggior sforzo bellico di un’intera nazione, i contrasti con la morale dominante all’epoca, le lotte intestine alle comunità universitarie ed editoriali, una dose non trascurabile di promiscuità. L’ossessione di Prok, non tanto per il sesso quanto per il suo lavoro, assorbe le vite: la sua figura risalta anche per eccesso, ma non è chiaro dove voglia arrivare Doctor Sex. Funziona tutto, anche l’inevitabile colpo di scena finale, e la descrizione e l’assemblaggio dei personaggi si incastra alla perfezione nello stile minuzioso di T. Coraghessan Boyle, che non si lascia sfuggire nulla. Nelle sovrapposizioni della ricerca, che per Kinsey era una missione nella vita, con le tensioni famigliari, in particolare per John e Iris Milk, Doctor Sex si sviluppa per ondate successive che si susseguono, alternando i contorni domestici ai vagabondaggi notturni (e non) in cerca di soggetti adatti alla ricerca. La costruzione è ipnotica, ma dopo un po’, è anche prevedibile. Il ritmo sembra fatto apposta per avvicinarsi con tutte le cautele, per gradi e con insistenza, alle sollecitazioni generate da Prok e dalla sua iperattività: una personalità ritratta in tutte le angolazioni possibili, dal biologo al padre e marito con tutte le contraddizioni e gli spigoli e i lati oscuri. Doctor Sex lo colloca in un’ottica tridimensionale, compresi gli aspetti da voyeur, e la percezione di T. C. Boyle merita per aver ridefinito a modo suo una figura come quella di Kinsey, un po’ come ha fatto con quella di Frank Lloyd Wright in Le donne, personalità ingombranti guidate da un tensione straordinaria che gli ha consumato la vita.

venerdì 18 aprile 2025

Glendon Swarthout

Per anni, l’illusione del West è stata un’attrazione magnetica, alimentata da campagne promozionali assillanti per favorire le migrazioni da una costa all’altra. La leggenda, come la descrive Jonathan Raban in Bad Land, aveva tutta l’aura di “un mondo di avventure solitarie ma edificanti, di poveri pastorelli che diventano presidenti, di eroi puri e leali, una terra dove una stella ammiccava in permanenza sull’orizzonte del West e dove la miseria e le malattie mettevano semplicemente alla prova la tempra americana”. Un miraggio, nella forma e una truffa nazionale nella sostanza: le concessioni governative erano un azzardo e la terra promessa si rivelò ben presto un habitat selvaggio, ostico e durissimo. Il clima estremo, dettato da lunghi e gelidi inverni, privazioni, fatiche e dolori insopportabili a cui bisogna aggiungere, su tutto, la paura (delle belve, degli indiani, dei banditi) e il rischio costante del fallimento sono stati i limiti, per usare un eufemismo, della colonizzazione del West. Il prezzo l’hanno pagato soprattutto le mogli, le madri, le figlie che hanno dovuto sopportare l’impossibile, e non sempre ce l’hanno fatta, e sono state dimenticate. Con L’accompagnatore, Glendon Swarthout, pare restituire almeno il decoro della memoria raccontando il ritorno a casa di un gruppo di donne impazzite. La comitiva è organizzata su un insolito carro a scatola tirato da due muli e guidato da Mary Bee Cuddy che si è offerta, con tutta la sua generosità, per il ruolo di guida. Come capirà ben presto l’altruismo da solo non basta e non è la soluzione così quando, per un caso fortuito, si imbatte in George Briggs ovvero L’accompagnatore lo convince a seguirla nella missione. È una figura emblematica: disertore, ladro, giocatore d’azzardo, pistolero la segue soltanto per salvarsi dall’impiccagione e per la ricompensa che lei gli promette. Insieme devono passare una serie di prove, oltre ad accudire le povere creature folli e indifese che trasportano nel carro: gli indiani, i ladri, la fame, il freddo sono gli ostacoli principali come se fosse una migrazione biblica. Alcune riescono a superarle, grazie all’astuzia e all’esperienza, ma il viaggio mette entrambi i conduttori davanti al proprio destino. La trasformazione dei protagonisti e del loro rapporto è il volano del romanzo che poi vive delle immagini di Glendon Swarthout, che ha un occhio cinematografico capace di condensare paesaggi ed esseri umani. Mary Bee Cuddy e George Briggs devono ricorrere a tutte le possibilità per riuscire nell’impresa e, se per lui è in gioco soltanto la sopravvivenza, per lei c’è qualcosa di più, e lo si nota quando lo avvisa: “Magari non ora, ma un giorno, quando le avremo portate a casa sane e salve, comprenderete che impresa grandiosa e gloriosa avrete compiuto. A parte i soldi, potrebbe essere l’unico atto di altruismo che avrete mai fatto”. A quel punto non manca molto alla destinazione e  L’accompagnatore si riserva un altro gesto quando i gestori di un albergo sorto "in the middle of nowhere" con lo scopo di accogliere investitori e speculatori della frontiera respinge lui e le donne, tutti ormai ridotti a ombre vaganti nelle praterie. La sua reazione, figlia di un istinto guerriero mai sopito, risalta come una vendetta per l’inganno dei territori del West, un mito falso e ingannevole durato troppo a lungo.

lunedì 7 aprile 2025

Carl Hiaasen

Il primo a farsi notare è Palmer Stoat, “noto lobbysta, faccendiere e procacciatore di affari” che si presenta giusto così: “Io ricevo le telefonate e faccio le mie magie”. Un lavoro interessante, tutto sommato. Tra i difetti fisiologici di un mestatore professionista ha un tic speciale: storpia i titoli delle canzoni, e questo è un indizio importante. Nella sua posizione, compresa l’avvenente moglie (Desie alias Desiderata) è il perno attorno a cui ruota tutto un losco e macchinoso affare, ovvero il tentativo di trasformare Toad Island, un piccolo angolo di paradiso sulla costa della Florida abitato da un’innocua comunità di rospi, in Shearwater, un’area residenziale completa degli inevitabili campi da golf, attracchi per turisti e altri ammennicoli per un affare di ventotto milioni di dollari. La cifra è indicativa, ma non esaustiva: per collegare l’isola bisogna sostituire l’antico ponte e quando si tratta di infrastrutture e serve l’intervento del governatore e delle risorse pubbliche, viene il momento della mobilitazione di Palmer Stoat, per il quale “qualsiasi cosa non potesse mangiare, bere o riorganizzare veniva gettata via”. È proprio lì che nasce il problema, perché viene intercettato mentre disperde rifiuti dalla lussuosa BMW della moglie. Purtroppo per loro, incrociano Twilly Spree, erede di una fortuna e libero pensatore (mettiamola così), che odia i contaminatori di ogni origine e specie e dato che “la vendetta non dovrebbe mai essere ambigua”, agisce di conseguenza. Ne succedono di tutti i colori perché Cane sciolto è un romanzo pirotecnico, divertente e agrodolce. Quella punta di amarezza è dovuta al sottofondo realistico dell’intreccio di politica, affari, sfruttamento del territorio perché, come scrive Carl Hiaasen “questa storia non riguarda i rospi, ma riguarda il saccheggio”. Non buttare niente dal finestrino sarebbe già un successo, e c’è un umorismo cupo e sottile, ma costante nel febbricitante racconto di Cane sciolto. La fumosa grigliata di Carl Hiaasen prevede di tutto e i personaggi fioriscono senza sosta in un caos che comprende, in ordine sparso: politicanti, speculatori, poliziotti, bracconieri, parassiti, miracolose polveri dai corni di rinoceronti, molto alcol, bambole, sigari e ossessioni e perversioni distribuite a pioggia, compreso un tremendo killer con una cresta punk, un abito pied-de-poule e stivaletti che “Gerry and the Pacemakers avrebbero potuto portare nel 1964”. Qui siamo in un’altra era e un labrador, che poi è il vero protagonista di Cane sciolto, viene rinominato McGuinn, proprio in omaggio a Roger e in particolare a Back From Rio. Troverà un degno compare in Twilly Spree, che “pur apprezzando la poesia, sentiva che la sovversione era una causa più valida”. La Florida pare il luogo adatto per mettere in pratica la sua visione e il finale si fa convulso: non di rado con Carl Hiaasen ci si innamora dei personaggi, ma quando sono troppo nei guai e il racconto si fa via via sempre più frenetico, si sente anche l’istinto di lasciarli ai loro destini assecondando la storia, giusto per vedere come andrà a finire. Cane sciolto è l’apoteosi dell’immaginario di Carl Hiaasen che contiene la Florida con le sue bellezze naturali e i disastri umani, la sensibilità per l’ambiente e i destini delle persone, l’indignazione per la politica autoreferenziale e una corruzione endemica, tutto dispiegato a ritmo di rock’n’roll, qui elencato in un modo o nell’altro: Dylan, Beatles, Stones, Derek & The Dominoes, Doors, Beach Boys, Jethro Tull, Creedence Clearwater Revival e Tom Petty con Rebels cantata all’unisono dalla stramba e fragile alleanza tra Twilly Spree e Desie Stoat. Conoscono entrambi le parole giuste, ed è quello che fa la differenza.

giovedì 3 aprile 2025

Robert Lowry

Succede tutto a Doanville, Ohio, un microcosmo della provincia, dove la vita ruota attorno a pochi luoghi, che sembrano incastrati in uno spazio limitato e in un tempo immutabile. Una small town che riflette le tensioni del dopoguerra: una nazione di reduci che si portano dietro ferite inimmaginabili. Non solo mutilazioni, ma proprio una frattura insanabile con la realtà e con il mondo intero. È un capolinea, una trappola che non lascia alternative. Se ne vogliono andare tutti e l’unico punto di incontro è la biblioteca, tra l’altro piuttosto limitata, dove lavorano Genevieve e Petey Jordan, ormai insofferenti ai limiti culturali, alle convenzioni sociali e ai riti quotidiani. L’unico che torna è Jim Miller, reduce della seconda guerra mondiale, campagna d’Italia in particolare, ed è nella condizione di non essere “più in grado di prendere parte a nulla, distaccato da ogni cosa, solo uno spettatore del mondo che gli girava intorno, tagliato fuori da ogni vita che avesse mai conosciuto prima della guerra”. Lo stress da disturbo post traumatico non era ancora diagnosticato e Jim Miller vaga in cerca di una condizione accettabile (che non sia la sua solitudine, con una gamba in meno). Si ubriaca e ci prova con Louella, ma è un disastro. Dei quattro punti cardinali che definiscono Mi troverai nel fuoco, comprese Genevieve e Petey, lui è il più appariscente, ma all’estremo opposto troviamo Len Sharpe di cui Robert Lowry dice, molto sibillino: “I suoi sogni lambivano il nucleo bruciante del suo odio come fiamme intorno a un carbone ardente e una tale disperazione, un tale smarrimento gli stringevano la gola, negando tutte le sue fantasticherie”, compreso il miraggio di una Raximore 12 Deluxe, un’auto impossibile. L’idealista Genevieve spera in un altro destino, se non in un’altra città, e non di meno Petey, che ha il coraggio di affermare addirittura di avventurarsi nel “grande mondo là fuori” a costo di affrontarne “tutte le sofferenze”. La normalità a Doanville è soffocante, si aspettano tutti che succeda di “qualcosa di straordinario” e accade quando le fiamme distruggono una pensione occupata da anziani. È il momento in cui Mi troverai nel fuoco cambia registro e accelera le tensioni tra i protagonisti, come se le scintille si fossero propagate fino a toccare le singole personalità. Il primo, va da sé, è Jim Miller che dice: “Sono tornato credendo di essere il solo a soffrire di nevrosi di guerra, ma sembra che molti che non hanno mai lasciato Doanville non stiano meglio”. Il suo contributo al dolore, non relativo, tocca Petey nella notte dell’incendio, ma nell’aria c’è già voglia di linciaggio. Le voci corrono come cellule impazzite in una rete di chiacchiere e pettegolezzi ed è ancora Jim a cogliere il momento: “Sapeva bene dove si trovasse, quando le città ardevano intorno a lui, quando tutta la vita aveva un unico scopo. Non era colpevole, allora, non aveva responsabilità, agiva come un automa, affidato a poteri invisibili. C’era solo un modo di vivere e lui ne aveva dimenticato ogni altro”. L’incendio è rivelatore e la ricostruzione di Robert Lowry è minuziosa, in particolare nel sovrapporre le dinamiche psicologiche alle conseguenze dell’abitare laggiù, e la concertazione delle singole voci è straordinaria. Per Len “il mondo lontano dove aveva sognato di fuggire era svanito”. Al contrario, Genevieve, all’improvviso, si ritrova a vedere “i confini di una città dare significato alla propria vita”. Pare paradossale, ma nella sua condizione, limitata e tormentata, alle fine Jim è l’unico che può concedersi un’altra chance. Resta Petey, ferita e ancora più furiosa: “Ho sempre ritenuto che questa fosse la città più noiosa del mondo e a un tratto tutto comincia ad accadere simultaneamente e io sono qui con le mani in mano, addirittura esclusa da tutto, più vuota che mai. Sono qui, nella mia camera, sola come le altre volte, ma non è la stessa cosa”. Avviso ai naviganti: l’unica Doanville  nota ai topografi corrisponde a un’area non incorporata nella contea di Athens, Ohio, una definizione giuridica americana per rappresentare una terra di nessuno e non pare proprio una coincidenza. Consigliatissimo.

mercoledì 2 aprile 2025

Erskine Caldwell

La madre “era una danzatrice di facili costumi di passaggio sulla Quarantanovesima Strada, e non teneva il registro di chi andava a letto con lei”. Con questo, il milieu che affronta il primo romanzo di Erskine Caldwell, pubblicato nel fatidico 1929, è delimitato chiaramente fin dalle prime pagine: Gene Morgan è Il bastardo, di nome e di fatto, che non trova il suo posto e si muove in continuazione con la sua pistola. Nasconde un istinto omicida (che sfodera giusto un paio di volte, restando tuttavia impunito) e si inoltra in territori cupi, segnati dalla disperazione e dalla promiscuità. Il bastardo offre tre livelli essenziali che Gene Morgan affronta in fretta consumando tutto e troppo presto. Prima trova un impiego in un oleificio, che sembra un passo obbligato verso una condizione esistenziale più accettabile, nonostante le modalità del lavoro, che consistono “nel riempire continuamente di seme di cotone le bocche di alimentazione” nell’arco di “undici ore, cinque notti e mezzo la settimana”. Anche se i ritmi sono questi, gli operai trovano modo di sfruttare ogni piccolo intervallo per tirare i dadi e consumarsi la misera paga. L’azzardo è una costante per Gene e non solo per il gioco, ma anche nei confronti delle donne, dove viene coinvolto in incontri e rapporti ambigui, dove la violenza è dietro l’angolo. Per Il bastardo, viene il momento di capire che “non valeva la pena di fare una vita come quella”, lascia l’oleificio e comincia un’assidua frequentazione dei bordelli. È la seconda parte dell’esordio di Erskine Caldwell, una fase di transizione che vede Gene Morgan trascinarsi di stanza in stanza in combutta con lo sceriffo Jim Hunter e il figlio John. A Lewisville, Georgia “faceva troppo caldo per vivere. Il sole cuoceva e spellava le colline sabbiose dalle sette del mattino fino alle sei o sette di sera, e le notti non erano molto più fresche”. Il clima è bollente, e non solo per le condizioni atmosferiche: il linguaggio di Erskine Caldwell è crudo e particolarmente limitato nel raccontare le vicissitudini che Il bastardo si ritrova ad affrontare di volta in volta, come se fosse una testimonianza diretta senza l’intermediazione di una parvenza di stile. Le frasi sono troncate, il tono è ruvido e impietoso, la forma sprofonda spesso nel gergo con parole che sono “colpi di frusta brutali”, per dirla con lo stesso Gene Morgan. Una modalità scarna, limitata, con molte accezioni blues (le reiterazioni, per esempio) che filtrano scena dopo scena con un momento di particolare efficacia nel racconto del funerale di Jim Hunter, un paio di pagine davvero impressionanti. L’ultimo passaggio vede Il bastardo arrivare a toccare con mano la felicità. Riprova ad avere un lavoro come autista (“A Gene piaceva molto guidare e infatti in breve tempo divenne così esperto da portare un autocarro. Per la prima settimana il suo lavoro di autista si svolse in città. Gli fu promessa presto una lunga corsa. Questo era ciò che voleva”) e sposa Myra, poco più di una bambina. La gioia del matrimonio viene celebrata su un autocarro in un viaggio traballante, dove “un altro mondo traboccante delle pene e delle gioie della vita passava in rivista solo per essere subito fatalmente distrutto”. Le antiche ombre tornano a pesare quando nasce il figlio, Leon, che stenta a sopravvivere e ha una lunga serie di problemi, al punto di rendere la vita di Myra e Gene “una tortura continua” e costringendo Il bastardo a una scelta crudele e fatale, degna conclusione di un romanzo feroce e inesorabile.

giovedì 27 marzo 2025

Smith Henderson

Pete Snow si occupa di “bambini che avevano patito ogni sorta di inferno”, lottando ogni giorno con “la loro durezza intatta. Il distacco, la saggezza che alcuni avevano acquisito”. Si prodiga tra Tenmile, Missoula e Hamilton, piccoli crocevia geografici in una vasta area del Montana dominata da un’aridità sociale che si riflette nel clima atmosferico (gelido) e nell’uso smodato e costante di additivi chimici, con l’alcol come carburante continuo. Le situazioni che Pete deve affrontare, quelle di Cecil, di Beth o Mary, tendono a ripetersi, come se i minori, non meno dei parenti, fossero esiliati in patria. Siamo tra il 1980 e 1981 e l’elezione di Reagan pone già dei seri dubbi (non meno di oggi) sui servizi sociali e, dal quel punto di vista, Redenzione riesce a mettere in risalto l’incapacità delle istituzioni e i loro fallimenti verso le persone. A farne le spese è l’idea stessa di famiglia che viene disintegrata, compresa quella degli Snow che annovera la scomparsa di Rachel (diventata poi Rose), figlia di Pete, e il disagio del fratello Luke, collezionista di precedenti penali in libertà vigilata. I “diversi tipi di desolazione” comprendono anche i Pearl, disseminati sulle montagne, tra un’idea estrema di apocalisse imminente, paranoie assortite e istinti naturali. Inseguendoli, Pete, che non è esente dall’atmosfera complessiva di fallimento e sconfitta, si immerge in una wilderness feroce e ammaliante, introdotta da Smith Henderson con l’epigrafe di Thoreau. Il contrasto rispetto alle movenze in città apre ampie parentesi narrative, che vanno da Seattle a Austin. Seguendo i viaggi americani di Pete in “luoghi che non erano neanche villaggi, solo piccoli avamposti di accanito individualismo”, ed è ancora un eufemismo, Redenzione procede a balzi come se Smith Henderson, alla pari dei suoi protagonisti, si fosse inoltrato in un sentiero senza aver un senso della direzione, per non dire della meta. Il disorientamento, a tratti straziante, è palese e collima in gran parte con Pete Snow che tra tutti i personaggi è il più combattivo, perché attraversato dai dubbi e dalle tensioni, con “il cuore attorcigliato come un asciugamano bagnato”. Non ci sarà alcun riscatto, piuttosto una lunga teoria di abusi, tradimenti, fughe, abbandoni, risse, malesseri e promesse non mantenute. Smith Henderson scava con convinzione e assiduità e se non altro ha il coraggio di affondare nei resti di una civiltà: bambini scomparsi, prostitute, devianze di ogni genere. Un catalogo aspro e livido che non lascia via di scampo e di cui è necessario tenere conto: “C’erano anche persone con segreti. Un ladro. Un omosessuale. Gente che maltrattava i figli in case che sulla mappa mentale di Pete risaltavano come lampeggiatori, perché lui sapeva. Custodiva i loro segreti”. Ci sono storie che cozzano una contro l’altra, anche se il terreno derelitto su cui avvengono è lo stesso per tutti. A tratti pare di leggere non un romanzo, ma la costruzione di un romanzo, dove Smith Henderson spesso spiega, più che raccontare la dissoluzione nell’alcol di un’America disperata, nel tentativo di rendere plausibile il ritratto di una decadenza continua, senza speranza, a tratti brutale. In alcuni momenti, Redenzione sembra assemblato con parti di sceneggiature (che poi è il lavoro che fa Smith Henderson) e rimane in qualche modo incompiuto, per quanto eccessivo, e anche inconcludente, come gran parte dei suoi personaggi. Nessuno è perfetto, a maggior ragione trattandosi di un esordio, che resta, con tutti i suoi limiti, un romanzo doloroso e tumultuoso, in cui inoltrarsi con le dovute cautele.

mercoledì 26 marzo 2025

Joan Didion

The White Album, e ogni riferimento ai Beatles non è casuale, raccoglie testimonianze di Joan Didion in un arco temporale che va dal 1968 al 1978, ultima tappa di un tour de force senza limiti. Sono anni esotici, erotici e caotici in cui Joan Didion non si identifica finché arriva precisare che “quel che mi sono costruita è privato, ma non è esattamente pace”. La sua individualità, la sua formazione sono troppo definite per apparentarsi con un’ideologia e in quella condizione è come se per tutti quei tempi che stavano cambiando avesse avuto la pelle scoperta. Una straordinaria sensibilità capace di coniugare le esperienze personali (e famigliari) con le cronache inquiete, ancora di più, l’atmosfera di un decennio turbolento e non proprio così sereno e felice. Joan Didion rimane partecipe e lucida, scrive con un’attenzione profonda, che si tratti di un articolo sullo stoccaggio di sarin e gas nervino o del resoconto di una session dei Doors per Waiting for the Sun. È incisiva in ogni frase e nella forma del saggio breve, che è lo standard della collezione di The White Album, trova una particolare ispirazione nel giostrarsi con le contraddizioni e gli exploit dei protagonisti dell’epoca, dagli adepti di Charles Manson a politici, predicatori, ribelli e rock’n’roll star in ordine sparso. Si ritrovano tutti sotto la lente di Joan Didion che ha un modo scrupoloso di osservare ogni singolo dettaglio, pur mantenendo una specifica distanza emotiva dall’euforia e dall’effervescenza dell’epoca, sottolineata con una frase lapidaria: “L’unico commento che posso offrire è che, ripensandoci adesso, un attacco di vertigini e nausea non mi sembra una reazione inappropriata all’estate del 1968”. Al giro di boa dei Sixties, dedica gli splendidi ritratti di Doris Lessing e Georgia O’Keeffe, da inserire nel contesto di un’analisi molto acuta sul femminismo che merita di essere letta e riletta spesso. La sfera pubblica e quella più intima e riservata si susseguono e si completano senza sosta: la descrizione dell’emicrania (un fatto molto personale) è un’apoteosi di stile e classe così come uno dei momenti più lirici è il resoconto della trasferta alle Hawaii. Siamo già nel 1970 e gli “arrivi dal Vietnam” (1078 morti nelle prime dodici settimane dell’anno) toccano anche le pendici dei vulcani a cui Joan Didion dedica pagine toccanti. I reportage di viaggio comprendono angoli del mondo remoti, come Bogotà ed El Dorado, un mito fatto di polvere d’oro, e distrazioni casalinghe con le orchidee e i bagnini di Malibu, gli incendi a Los Angeles, le leggende colombiane e le astruse routine di Hollydwood, dalle idiosincrasie della critica cinematografica alle clausole contrattuali che determinano il futuro di un film ancora prima di una singola ripresa. Lei annota e commenta tutto, senza differenze o confini, ma trovando una collocazione per ogni immagine, fino a riconoscere “l’America con tutte le sue intemperie ed eccentricità e specificità tanto variabili da inebriare”. Una riscoperta che trova un supplemento di riflessione nell’ampia digressione sui nuovi quartieri residenziali e sullo  sviluppo dei centri commerciali, primo sviluppo architettonico di tutta un’altra era. Joan Didion, per non smentirsi, la percepisce come un’opportunità esclusiva, con tutta l’ironia compresa nel prezzo: “La mia vita vera consisteva nel starmene seduta in quell’ufficio a descrivere come si viveva a Giacarta, a Caneel Bay e nei grandi châteaux sulla Loira, ma la mia vita immaginaria consisteva nell’allestire un centro commerciale regionale di classe A con tre grandi magazzini generalisti come locatari principali”. L’iperbole ha senso e Joan Didion ammette che è proprio in quel momento che comincia “a vedere tutto il paese come una proiezione in aria, una specie di ologramma, un’astratta griglia di immagine, opinione, impulso elettronico”. Arrivata ormai al 1978, volge lo sguardo a quello che è ormai diventato un passato ancora da decifrare: “Noi altri, per la maggior parte viviamo in modo meno teatrale, ma rimaniamo i superstiti di un’epoca insolita e introversa. Se riuscissi a credere che salire su una barricata possa avere il minimo effetto sul destino dell’uomo, ci salirei, su quella barricata, ma non sarei onesta se dicessi che prevedo di imbattermi in un finale tanto lieto”. Le resta un ultimo brindisi (bourbon, direttamente dal servizio in camera) e poi tanti saluti a Lucy In The Sky With Diamonds, a Mr. Tambourine Man, e addio anche al re lucertola.

lunedì 24 marzo 2025

Tom Wolfe

L’arrivo degli architetti, dei pittori e degli psicologi europei in fuga dal nazismo trova terreno fertile negli Stati Uniti. L’influenza della Bauhaus e in particolare di Walter Gropius, poi di Le Corbusier, dettano un nuovo rapporto tra l’architettura e l’ideologia, un cambio radicale che, giusto per cominciare, Tom Wolfe registra così: “Finora l’architetto americano era uno il cui compito consisteva nel prestar coerenza alle romantiche fantasie dei capitalisti e rifinirle nei dettagli. In Europa, invece, vedevi congreghe di architetti lavorare con la piena autonomia dei sommi artisti”. Una netta differenza di cui Tom Wolfe a modo suo evidenzia le idiosincrasie tra diverse scuole di pensiero e d’arte, visto che si era arrivati alla paradossale situazione per cui “per l’architetto ambizioso, avere una teoria era ormai indispensabile come avere il telefono”. Giusto per rendere l’idea, riportava un commento di Frank Lloyd Wright, l’unico a puntare su un’architettura dichiaratamente americana versus Le Corbusier: “Ora che ha finito un’opera, ci scriverà su quattro libri”. Questo serve a sottolineare anche che ogni “convento” ha la sua scuola e i suoi diktat a partire dall’aperto contrasto tra l’approccio individuale, ovvero “il genio solitario la cui opera può dirsi soltanto sui generis” e il lavoro di squadra. Con la sua attitudine (“Quella parola, pop, era ormai diventata una delle maledizioni della mia vita”) Tom Wolfe scontra con l’urgenza dell’architettura e puntualizza sulle “teorie a livello di quel-che-la-gente-vuole”, il concetto di “borghese” e i risultati, visivi e sociali, di strutture concettuali che, non a caso, nella versione residenziale e abitativi venivano chiamati project, come se non avessero mai superato la dimensione speculativa. Per dire, i tetti spioventi vengono negati, insieme ad altri fronzoli, perché non adeguati alle nuove culture architettoniche, basate sull’essenzialità dei parallelepipedi, ben illustrata da Tom Wolfe: “Nei momenti di massima serietà, nessuno riusciva a disegnare altro che scatoloni. Fatto sta che, ormai, gli studenti di architettura, da ogni parte d’America, si trovavano all’interno di quella scatola, la stessa scatola entro la quale si erano chiusi gli architetti di convento, in Europa, vent’anni addietro”. Costruzioni geometriche, dalle linee rigide, sorgevano dal nulla, con forme destinate a una dimostrazione d’intenti piuttosto che a una sostanziale utilità. Tom Wolfe sfodera il suo tagliente umorismo e non concede l’onore delle armi ai Maledetti architetti: “Dunque, abitavi in un edificio che sembrava una fabbrica, e l’avevi pagato fior di dollari. E con ciò? Ogni edificio moderno di qualità sembrava una fabbrica. Doveva sembrare una fabbrica per essere moderno. Era l’aspetto del giorno”. È ancora più drastico quando racconta una “città modello” sviluppata a New Haven su strutture modulari che “consisteva in grappoli di elementi prefabbricati” e ricorda che “il guaio era che quegli elementi non combaciavano bene. Dalle fessure entrava il vento, entrava la pioggia. Le porte a volte si aprivano, a volte. Quando si aprivano, le persone rispettabili ne approfittavano per andarsene”. C’è del vero in quello che articola Tom Wolfe osservando degenerazioni plastiche senza alcun contatto né con la realtà né con l’immaginazione e contemplando anche i rari outsider che si sono ribellati ai principi dominanti, sempre con un pensiero, e una smorfia, alle deformazioni delle congreghe culturali, e non solo quelle dei Maledetti architetti.

mercoledì 19 marzo 2025

Henry Miller

Con Il tempo degli assassini, Henry Miller  è lucidissimo e incisivo anche nell’inseguimento di una figura sfuggente, selvatica e inafferrabile come Rimbaud. All’inizio, come scriveva Arthur Hoyle, “nell’esistenza e nella missione artistica di Rimbaud Miller vedeva più di un’analogia con se stesso, ed è per questo che il suo studio su Rimbaud è utile, non tanto per quello che ci dice sul poeta, bensì per quello che rivela di Miller, della sua percezione di se stesso nei panni di artista e uomo”. La ricerca di “analogie, affinità, corrispondenze e ripercussioni” nutre il suo confronto diretto con Rimbaud, più per le parti biografiche che per quelle letterarie. Un sovrapporsi costante, continuo, a partire da “una sottesa natura primitiva” si evolve molto rapidamente: Henry Miller è convinto che “era suo destino essere il poeta che elettrizza la nostra età, il simbolo delle forze dirompenti che ora stanno rendendosi manifeste”. Detto questo, Rimbaud rimane comunque un oggetto non bene identificato: “La sua vita, nonostante tutti i fatti a nostra disposizione, rimane un mistero quando e come il suo genio”. Accettati i limiti, Il tempo degli assassini progredisce poi provando ad accostare Rimbaud, “poeta e uomo d’azione”, a D. H. Lawrence, tra vite e tempi diversi che Henry Miller riesce a sottolineare, persino con una certa disinvoltura, ed evidenziando l’aspetto “traditore e sacrilego” ne tracciare un parallelo anche con Van Gogh fino ad arrivare a Dostoevskij. L’apologia di Rimbaud curva quando Henry Miller spiega che “aveva identificato il proprio destino con quello dell’epoca più cruciale che l’uomo abbia mai conosciuto” e comincia a delineare con maggiore chiarezza una figura incredibile. Senza dubbio è “l’incarnazione del ribelle”, e su questo non c’è eccezione che tenga, ma è anche un’identità complessa, perché “è come se congiungesse in un solo personaggio Shakespeare e Bonaparte”. Rimbaud è “sempre troppo”, con lui “la meta è sempre oltre”, ma è soprattutto profetico quando dice che “un mondo completamente nuovo, mondo terribile e ripugnante, ci sta ormai addosso. Un giorno ci sveglieremo per affacciarci su uno spettacolo che supererà ogni potere di comprenderlo”. Con Il tempo degli assassini, Miller riesce a distinguere le peripezie e le avventure di Rimbaud dalla sua essenza poetica, sapendo che “uomini così sono profondamente collegati con lo spirito dei tempi, con quei problemi sottesi che assillano l’epoca e le danno il carattere e il tono”. Su questo non c’è dubbio, anche se Rimbaud dichiarava: “Dobbiamo assolutamente essere moderni”, definendo una cesura netta con il passato. Miller l’aveva capito benissimo e ribadisce, infatti: “Uomini così affondano le radici proprio in quel futuro che ci disturba tanto profondamente. Hanno due ritmi, due facce, due interpretazioni. Sono una cosa sola con la trasformazione, col flusso. Sapiente in un nuovo modo, il loro linguaggio a noi pare arcano, se non pazzo o contraddittorio”. La differenza è tutta nello stile, in Rimbaud una limpida emanazione della personalità, come ha notato Miller: “Ogni scrittore crea qualche passaggio allucinante, qualche frase che non si dimentica, ma in Rimbaud questi tratti sono innumerevoli, gremiscono tutte le pagine, come gemme che si spargono da uno scrigno scassinato”. Rimbaud di sicuro “si sarebbe riservato qualche risorsa per i giorni di pioggia”, ma Miller sostiene, ancora: “Avevo allora, e ho tuttora, il senso che per il nostro tempo egli abbia detto tutto. Era come se avesse piantato una tenda sul vuoto”. Henry Miller prova ad assorbire Rimbaud, e si pensi soltanto a Democrazia, ricollocando il suo pensiero al suo e nostro tempo. Lo si sente quando dice: “Abbiamo riposto la nostra fede nella bomba, sarà la bomba a rispondere alle nostre preghiere”. Quell’incubo permane, ed è sempre peggio, “ma continuiamo a praticare il convenzionale galateo dei vermi” ed è così che “i mentecatti stanno parlando di riparazioni, di inchieste, di paghe, di schieramenti e di coalizioni, di libero scambio, di stabilità e di ricostruzione economica. Nessuno crede in cuor suo che la condizione del mondo possa essere raddrizzata. Tutti si aspettano il grande evento, il solo che ci preoccupi giorno e notte: la prossima guerra”. In quanto a Rimbaud, Henry Miller conclude: “Interpretatene l’opera come vi pare, spiegatene la vita come volete, per ora non c’è niente che lo faccia scomparire. Il futuro è tutto suo, anche se non ci fosse più futuro”. Era il 1955, a Big Sur, davanti all’oceano, in cima al mondo, Il tempo degli assassini vale anche per domani.

martedì 18 marzo 2025

Larry McMurtry

Luna comanche ci riporta all’inizio della saga di Gus e Call, quando i ranger sono l’unica unità a presidiare “la frontiera, dove ordine e legge erano parole sconosciute e regnava il caos”, un confine che viene spostato di volta in volta lungo i territori indiani, verso il Messico, dentro le praterie, creando per ogni passaggio un nemico nuovo e diverso. L’America è nata così, compresa la guerra civile, che si stende come un’ombra cupa su Luna comanche. Larry McMurtry è lirico ed entusiasmante nel descrivere i destini umani e quelli degli stati, che finiscono nel sangue e nella polvere. Per Gus e Call è un momento crepuscolare di sacrifici immani e, più di tutto, distinto da una solitudine stringente. Le missioni sono spesso dei fallimenti, tanto è vero che Gus dice: “Quando mi assegnano un lavoro impossibile, la mia soluzione è trovare un bordello e restarci finché sono senza un soldo”. Non è molto diverso per l’amico di sempre, Call, che delinea il quadro della situazione con poche, essenziali parole: “Non abbiamo un metro di terra. Non sono nostri nemmeno i cavalli. Tutto quello che abbiamo sono le pistole e i vestiti. E le selle. Almeno quelle sono nostre”. Anche dalla parte comanche, l’aria che tira è quella della fine di un’epoca: le ultime, sanguinose scorrerie di Buffalo Hump, i furti di cavalli di Kicking Wolf, la ribellione di Blue Duck conducono sullo stesso territorio, tra il Texas e il Messico. Racconti e leggende si tramandano attraverso un ambiente aspro, durissimo e affascinante (il deserto, le montagne, i canyon, il llano, i fiumi e la prateria) dove il tempo sembra non passare mai. La capacità di intessere i luoghi, gli animali, la vegetazione con gli esseri umani porta Larry McMurtry a dipanare una trama che va ben oltre le bellicose contingenze di tutti: banditi, guerrieri, soldati, ribelli, furfanti, giovani e vecchi che siano. L’avvicendarsi dei personaggi che si muovono in gruppo attorno a Gus e Call, ma che poi emergono in prima fila uno dopo l’altro, rivelandosi protagonisti nello stesso modo, rende Luna comanche una volitiva scorribanda che svela la debolezza intrinseca del potere e delle sue espressioni più violente (la guerra, gli stupri, le torture, i rapimenti) così come le sconfitte dei ranger, sia sul campo, sia una volta tornati a casa, ad Austin. Figure ingombranti, e fuori posto, come il colonnello (poi generale) Inish Scull e la moglie Inez, si scontrano con entità misteriose come Ahumado, un predone messicano che esercita le crudeltà più assurde per regnare incontrastato in un angolo sperduto del border. Con una generosità unica, comprensiva di ogni dettaglio e, tra le righe, persino di un sottile senso dell’umorismo, Larry McMurtry non risparmia nulla e ipnotizza il lettore nel raccontare le gesta di Gus e Call, nell’epicentro di un mondo ormai travolto dagli eventi: la colonizzazione del West, l’estinzione dei bisonti, la guerra in ogni declinazione e in tutte le direzioni, si scontrano con credenze e sogni, menù con “zuppa di gufo” e antilocapra arrosto, storie d’amore e di follia, tracce di fughe e inseguimenti, sullo sfondo di una pianura “così vasta da dare l’impressione di vedere l’orlo dell’infinito, eppure in tutto quello spazio non c’era nulla”. Un posto sperso nel nulla come Lonesome Dove appare come un miraggio e c’è un motivo da ricordare: Luna comanche è l’ultimo episodio dell’epopea di Larry McMurtry, ma è il secondo capitolo nell’ordine della narrazione, giusto tra Il cammino del morto e Lonesome Dove. Sarà il futuro per Gus e Call, ma una reliquia del passato nel corso della conquista e della creazione di una nazione. Una rappresentazione epica di un tempo drammatico, un romanzo grandioso.

giovedì 6 marzo 2025

Greil Marcus

Cercare di mettere ordine nell’empireo di Bob Dylan è un’impresa complessa e ci vuole, come minimo, una parvenza di lucidità. Greil Marcus si è impegnato per qualche decennio e non è stata una lotta semplice perché prima di tutto “Bob Dylan ha costruito una carriera disseminando indizi che nessuno raccoglie” e nel frattempo ha “messo una testa sul corpo della musica pop”, ovvero insieme agli Stones e ai Beatles ha partecipato alla “creazione di un immaginario comune accessibile a tutti noi”. Le iperboli di Greil Marcus arrivano a pioggia, e senza preavviso, e da Dylan partono per considerazioni più complessive: “Mi manca la sensazione che ci sia ben più nella musica, o nell’artista, o in me stesso, di quanto immaginassi, quella che nasce quando una canzone compare alla radio o sul piatto e io non riesco a prevedere quale sarà il suo effetto su di me. Mi manca la sensazione dei musicisti che si tuffano in una performance senza sapere bene che via stanno percorrendo, per non parlare di quando ne usciranno, ma con la convinzione innocente e nervosa che il viaggio si trasformerà in sorpresa, a prescindere dal costo dell’incertezza”. Gli Scritti 1968-2010 raccolti differiscono: l’ascolto di Self Portrait, canzone per canzone, è epico,  il saggio su High Water (For Charley Patton) e l’11 settembre sottolinea una volta di più il carattere profetico della musica di Dylan, la celebrazione di Blind Willie McTell è puntuale e doverosa, così come il capitolo su Promised Land di Chuck Berry e quello dedicato all’Anthology of American Folk Music dove Greil Marcus spiega che “queste canzoni sono ovvie e misteriose come il tempo atmosferico; è impossibile non capirle, ma allo stesso tempo non si riesce a coglierne il nocciolo”. Non c’è soltanto Dylan: come una forza magnetica attira Martin Scorsese, la Band, Ray Charles, Van Morrison, Elvis Costello ed Elvis Presley, Don DeLillo (Great Jones Street è il romanzo più dylaniano di sempre) e Animal House. A volte Dylan è soltanto una scusa per andare in cerca di qualcosa di più vasto che risponde ancora a “un’America più grande e misteriosa” e seguendo “il testo segreto di un paese nascosto” in un arco temporale che comprende parecchie generazioni troviamo Jack Kerouac, le road songs di Bob Seger e Bruce Springsteen, il successo dei Wallflowers e, ancora prima, dei Counting Crows. È una ragnatela che comprende recensioni, note, excursus più dettagliati, promemoria, commenti (la posizione rispetto a We Are The World è lungimirante, alla fine): c’è una certa severità nelle analisi (più che competenti) di Greil Marcus nel tentativo di comprendere “la capacità di turbare, liberarsi delle convenzioni che tutti rispettano nella vita, quel che ci si aspetta di sentire, dire, sentirsi dire, imparare, amare o odiare, a definire la voce di Bob Dylan, in senso stretto e lato”. Qualche limite è da mettere in conto: a volte è eccessivo nelle digressioni, qui e là affiorano un sentore di accademia e qualche rebus (“Una delle funzioni del rock’n’roll è il sovvertimento degli schemi culturali e, per estensione, di quelli del rock’n’roll”), però associare i cameo di Alfred Hitchcock all’armonica di Dylan è un esercizio temerario, e divertente. Scritture e successive riscritture, tendono comunque a ricordare che “nel corso della sua carriera, Dylan ha impiegato le allegorie bibliche come una seconda lingua: i temi dell’esilio spirituale e del ritorno a casa, la salvezza personale e nazionale sono stati al centro del suo lavoro”. La costante che collega tanti frammenti diversi e distanti è “un tentativo di rimanere all’interno del dialogo che l’opera di Dylan ha sempre cercato di creare intorno a sé” e, in un modo o nell’altro, il songwriting torna in continuazione al centro dello scenario, dove è giusto che stia: “Ogni fraseggio era una sorpresa: non si poteva prevedere il suono che avrebbe avuto. La canzone stessa, la sua struttura, era a malapena un indizio. I limiti c’erano per essere aggirati”. La somma finale è “la sensazione che l’artista stia lavorando al massimo, che noi stiamo facendo straordinari, che i limiti siano stati sconfitti”. Ecco, è proprio vero che con Dylan “sentiamo ciò che è andato perduto e sentiamo ciò che pochi altri sono riusciti a toccare”: gli Scritti 1968-2010 (una vita, in effetti) di Greil Marcus suggeriscono che si tratti di “una casa che dobbiamo costruirci da soli”, e ci vuole tutto il tempo necessario.

mercoledì 19 febbraio 2025

Steve Wynn

La vita in una rock’n’roll band è un’esperienza per cui serve soltanto una cosa: buttarsi. Una volta dentro, o impari, o affoghi. Steve Wynn è uno che ha capito tanto, se non proprio tutto, delle dinamiche di un gruppo e il suo memoir è (anche) un manuale di sopravvivenza per gli artisti nell’industria discografica. All’inizio, ragazzo timido e solitario sulle colline di Los Angeles, è giusto il fascino dell’emulazione: “Volevo fare parte di tutte le band che amavo, e non vedevo alcun motivo per cui non potesse accadere”. Nel cuore di questo spontaneo riflesso, c’è già il passaggio successivo e conseguente: “Non bastava più imitare John Fogerty o Pete Townshend o John Lennon. Volevo diventare la mia versione di loro, e questo significava creare il mio universo, dove la mia musica esistesse sullo stesso piano e allo stesso modo della loro. Le canzoni erano il mezzo per trovare il mio posto nel mondo, ed erano anche i miei nuovi amici immaginari”. La condizione di adolescente e sognatore è un terreno molto fertile per sviluppare ambizioni speciali, a partire dal songwriting, presto in cima alla lista dei desideri di Steve Wynn: “Essere da solo come lo ero io significava che la mia immaginazione poteva correre sbrigliata. Inventavo di tutto, dagli amici immaginati ai film e ai libri immaginari, fino alle canzoni. Vivevo in gran parte dentro la mia testa, e questo era un terreno fertile per i rimuginamenti e le idee creative. Questo bisogno di creare un mondo tutto mio, abbinato alla mia passione per la musica, rese la scrittura di canzoni una scelta naturale”. È una scoperta fondamentale e se i primi passi sono ancora frutto di un candido anelito (“Scrivevo perché ero affascinato dalla musica che ascoltavo alla radio e volevo sentirmi parte anche io di quel mondo”), ben presto per Steve Wynn, diventa il songwriting uno strumento irrinunciabile: “Per la verità, spesso mi sorprende che le persone non scrivano canzoni, soprattutto i musicisti. A me sembra un’estensione naturale di suonare e di amare la musica. Senti delle cose, prendi ispirazione, intoni una melodia, hai qualcosa in testa, qualcosa che ti frulla nella mente; aggiungi queste parole alla tua melodia e voilà!, hai una canzone”. Fosse così semplice: la passione per i dischi, per i negozi, le radio e i concerti, la genesi degli album, le mutazioni delle rock’n’roll band si sovrappongono alle motivazioni e alle controindicazioni nella vita di un musicista. Con i Dream Syndicate, Steve Wynn attraversa ogni fase e ne parla senza filtri. Una parte rilevante di Non lo direi se non fosse vero è occupata dall’aneddotica della vita on the road dei musicisti, su cui Steve Wynn non si risparmia, concedendo molti risvolti inediti. Ci si intrufola nei tour bus, nei backstage, sui palchi con gli U2 e i R.E.M., si sperimenta quel rock’n’roll lifestyle con lo sguardo di un artista poco propenso al compromesso e con un obiettivo molto chiaro: “Volevo solo portare avanti il sogno”. Non ci sono soltanto Steve Wynn o i Dream Syndicate: ci sono dozzine di rock’n’roll band più fortunate o più astute, o tutte e due, che hanno intersecato i loro percorsi, e, pur tenendo conto di diatribe, scontri e meschinità assortite, dichiara di essersi sentito “parte di qualcosa di molto speciale”. È per quello che gran parte della sua autobiografia coincide con la storia dei Dream Syndicate che “sono sempre stati, in fondo, una jam band e una groove band. Siamo sempre stati una band che divaga, che si spinge al limite, che sfida se stessa a precipitare nell’oscurità, per salvarsi all’ultimo secondo e per rifarlo di nuovo. Probabilmente è la cosa che ci riesce meglio, ed è uno dei motivi principali per cui la gente viene ancora a vederci suonare dopo tutti questi anni”. È proprio così che Non lo direi se non fosse vero racconta “l’improbabile storia di sopravvivere e di costruire una vita con la musica”: come se fosse dal vivo, dove tutto, errori e rimpianti compresi, suona più autentico. 

lunedì 17 febbraio 2025

Emily Dickinson

Tra i dodici apostoli che per Harold Bloom rappresentano Il canone americano, Emily Dickinson occupa un posto speciale, illustrato così: “Lei è sempre lì: sa farsi valere, ha fiducia in se stessa, brilla nella propria luce”. È protagonista assoluta anche quando è In caccia del giorno, un’apprezzabile selezione a cura di Lorenzo Gobbi che la segue Sulle tracce del divino, come recita l’appropriato sottotitolo. È una fede molto dialettica, quella di Emily Dickinson, e trova spazi imprevedibili nelle sue poesie. La sacra presenza si concede un po’ alla volta, e la poetessa ne fa, in primis, una questione tutta personale: “Me la vedo con le nuvole, se qualche potere c’è al di là di loro che non sia sottomesso alla disperazione, che mai si prenda cura, nel più segreto modo, di una questione così piccola come la sofferenza, troppo vasto, lui, per disturbarlo, di più”. L’interlocutore resta incognito: il suo nome, scritto nei cieli, è noto e ribadito, ma anche dissimulato perché “lunghi anni di lontananza, non sono capaci di creare una frattura che un istante non sappia ricolmare, l’assenza del mago non disarma l’incantesimo, le ceneri di mille anni riportate allo scoperto dalla mano che quando erano fuoco le accarezzava ritroveranno movimento e capiranno”. A sua immagine e somiglianza, ci sono i riferimenti alle gioie naturali, compresi “questi febbrili giorni, alla foresta portarli dove acque fredde scivolano attorno ai muschi, e l’ombra è tutto ciò che saccheggia la quiete silenziosa, questo sarebbe tutto: così mi pare a volte” o il manifestarsi in fenomeni come “il segnale chiaro del vento per l’orecchio, quello che lo rende familiare, e severo, appagato, conosciuto, prima”. La cernita è ardita, ma ha una forza specifica nel mostrare la “teologia del desiderio”, come viene ricollocata nella brillante definizione di Lorenzo Gobbi: la poesia di Emily Dickinson è la costante celebrazione di un’energia folle e invisibile che viene tradotta verso dopo verso visto che “l’onnipotenza non ha una lingua e il suo suono caratteristico è il lampo, e il sole, la sua conversazione con il mare”. È un dialogo incalzante che si estende con una certa fluidità, puntando lassù “perché gli angeli si prendono in affitto la casa accanto alla nostra, ovunque noi andiamo a stare”, e restando spesso ancorato alla terra sapendo che, in fondo, si tratta di “un gioco, dura un attimo. È lo stare appostato di chi prova affetto, per fare in modo che la gioia se la guadagni, la propria sorpresa!”, ed è qui che mosaico si completa con un’asserzione lirica nella forma e concretissima nella sostanza: “Resterà, quella giusta cortesia quando la gioia sarà polvere con cui ricordiamo questo caso straordinario di fiducia ricompensata. Di tutto ciò che ci è permesso sperare nulla resiste se non la dichiarazione solenne che questo era dovuto proprio là dove più sentiamo la paura di essere gli amici che nessuno aspetta”. In caccia del giorno si spinge nei recessi più profondi della poesia di Emily Dickinson che arriva a guardare dentro l’infinità celestiale e a sentenziare: “A un punto tale il cielo è cosa delle mente che, se la mente fosse dissolta, il posto, suo, non c’è architetto lo potrebbe ancora dimostrare. È vasto, come lo è la nostra capacità, è bello, come l’idea che noi ne abbiamo, per colui che ne ha un adeguato desiderio, non è più lontano, di qui”. È un’iridescenza che stupisce solcando distanze impossibili, arriva all’improvviso “e lascia l’anima abbagliata nelle sue stanze senza nulla”. Comprenderla non sarà semplice, come non lo è stato per Harold Bloom: “La sua arte enigmatica è così ellittica che ci lascia dubbiosi riguardo a ciò che dice e al possibile significato delle sue parole. L’originalità, il suo attributo più forte, esige un prezzo in termini di conferma”. Non c’è alcun dubbio e l’esimio parere è così condiviso da Lorenzo Gobbi: “È difficile, a volte, cogliere riferimenti precisi nelle formulazioni densissime delle liriche dickinsoniane, e non sempre è utile riuscirci: possiamo, piuttosto lasciare che risuonino assieme ai più profondi e autentici tra i nostri pensieri”. Eccola qui, con tutto il suo sublime afflato: “È per loro che mi preparo, cerco il buio, fino a quando non sarò pronta davvero. La fatica è seria con questa dolcezza che le basta, che l’astinenza di tutto ciò che mi appartiene produca un cibo più puro per loro, se riesco, se no avrò avuto il desiderio della meta”. Il traguardo è stato annunciato più volte, ma anche in questo caso Emily Dickinson si concede un’opzione supplementare nell’altissimo confronto: “Il Paradiso è della nostra facoltà di scelta. Chiunque voglia dimora nell’Eden, nonostante Adamo e la cacciata”. Inarrivabile.