Il regno delle ombre di Dylan contiene moltitudini e contraddizioni, contrasti e riflessi che si rimandano agli estremi senza soluzione di continuità, e fin qui non scopriamo nulla di nuovo. Quello riportato dalle 64 Lyrics, che è un po’ un’introduzione e un riassunto del sillabario di Bob Dylan, è un linguaggio in perenne formazione che si evolve mutando senza sosta, a partire da titolo. La numerologia che sottintende la scelta del 64 fa strani effetti. Pensiamo per un attimo alle canzoni del 1964, quelle scelte per quest’antologia e quelle rimaste fuori. Solo per quell’anno (per non parlare di quello dopo) bisognerebbe raddoppiare i volumi. È una delle tante, possibili e infinite deviazioni, ma è quella che può portarci dritto al centro del magma poetico di Dylan, un punto di partenza, visto che poi l’antologia copre tutta la carriera discografica con una cernita significativa e importante. Ogni canzone è un universo a parte e qui la selezione di Alessandro Carrera e Carlo Feltrinelli è una sorta di diagramma risolutivo che comincia a intravedersi soltanto collegando i punti, uno dopo l’altro. È un ritratto di Dylan con un senso panoramico, proprio di un’antologia, ma anche di un’attenzione maniacale ai dettagli, le rime, le metriche, e alle sfumature simboliche e metaforiche. È facile lasciarsi trasportare: le parole assumono posture differenti, colori prendono forma grazie alle libertà che si prende Dylan. La “voce”, intesa come espressione, è chiarissima anche nella pagina in bianco e nero. È un tourbillon di significati, un’avvolgente coltre linguistica come se qualcuno parlasse da una profondità sconosciuta con estrema naturalezza. La narrativa e l’invettiva si alternano e si completano a vicenda, basta pensare a Masters of War riletta oggi, più che mai aderente alla cupa realtà: “Voi che non avete mai fatto nient’altro se non fare per dopo distruggere, giocate col mondo che mio come fosse un giocattolo vostro. Mi mettete un’arma in mano e sparite alla mia vista, e quando volano il proiettili veloci vi siete riparati già lontano”. Le canzoni di Dylan, senza musica, senza voce, hanno un effetto straniante e sorprendente: assumono sembianze multiple e singolari nello stesso tempo. L’interpretazione e/o l’esegesi diventano una sfida complessa, figurarsi la traduzione. Penso ad All Along The Watchtower che, da Jimi Hendrix alla Dave Matthews Band, è diventata un tour de force senza fine per tutti e qui la ritroviamo nella sua scarna e misteriosa enunciazione. C’è qualcosa di apocalittico e rivelatore nelle canzoni di Dylan che emerge con maggiore decisione nella versione spogliata dai fuochi d’artificio della musica ed è, come scrive e canta in Scarlet Town, dove “tutte le forme umane appaiono in gloria”. Un traguardo che nel ventesimo secolo ha condiviso con Hemingway, Picasso, Hitchcock e pochi altri: il valore di un’antologia sta non solo nel ricordarlo, ma anche nell’evidenziare un laboratorio di idee linguistiche, le associazioni spontanee e quel flow inarrestabile, un flusso ininterrotto dove prende forma tutta una geografia, una storia e un’educazione in generale. Se c’è una destinazione è quella annunciata nel finale di Highlands: “C’è un modo di arrivarci, prima o poi lo troverò, ma col pensiero ci sono già arrivato, e per adesso va bene anche così”. Il carattere onnivoro delle vastità del background dylaniano è ben rappresentato dalle 64 Lyrics e se proprio serve un esempio, spicca quello di Murder Most Foul. Al 22 novembre 1963, Dylan ci arriva dopo Don DeLillo, James Ellroy, Stephen King e Lou Reed in The Day John Kenney Die e non c’è dubbio che i precedenti li conosca uno per uno, ma Murder Must Foul espande e condensa tutto un immaginario cominciato con Woody Guthrie e via via popolato da una folla multiforme composta dai Beatles, Blind Willie McTell, Charlie Patton, Wolfman Jack, Shakespeare ed Etta James, Oscar Peterson e Stan Getz, Ofelia e Robin Hood, Beethoven e Chopin, Charles Darwin e Neil Young, fino all’omaggio ai Rolling Stones in I Contain Multitudes, e chissà cosa ne avrebbe pensato Walt Whitman. Da tenere a portata di mano, Dylan una risposta ce l’ha sempre, anche se soffia ancora nel vento.
mercoledì 17 dicembre 2025
venerdì 12 dicembre 2025
Ian Frazier
In un momento speciale del suo “viaggio nelle praterie nordamericane” Ian Frazier ha un’epifania sulle note di When Doves Cry di Prince e urla, proprio in the middle of nowhere: “Avrebbe potuto funzionare”. Si riferisce alle parole d’ordine della terra dei liberi e della casa dei coraggiosi: democrazia, eguaglianza, libertà e, più di tutto, felicità. Il condizionale (obbligatorio) è un’ombra pesante che si estende lungo tutti I Grandi Piani come un sudario, mentre Ian Frazier si divide tra una scintilla di rimpianto (“Per un momento immaginavo il passato riscritto, guerre non combattute, i bisonti e gli indiani non distrutti, le praterie intatte”) e la realtà che non si può negare (“Non avremmo dovuto trasformare tutto in una disgraziata confusione, e il continente e noi stessi!”). Tra tanti diari di viaggio americani, I Grandi Piani rappresentano un luogo sintomatico dell’America e ne sono sintesi ed espressione geologica, antropologica e culturale. Tenendo ben presente che “l’America è come un’onda sonora che raggiunge la massima frequenza alle estremità, e la minima al centro”, per Ian Frazier I Grandi Piani “sono come uno schermo sul quale gli americani hanno proiettato i loro sogni per un certo periodo e poi se ne sono del tutto scordati”. Con notevole dimestichezza, riesce a raccontare tutto, compresi protagonisti e leggende e che comprendono Bonnie e Clyde, Doc Holliday, Sitting Bull, Bob Wills & The Texas Playboys, John Brown, il generale Custer, Lewis e Clark e Woody Guthrie, proprio nel mezzo delle tempeste di sabbia. La figura più importante è quella di Crazy Horse: nella descrizione che ha affascinato anche Larry McMurtry, l’identificazione con i Grandi Piani sono dove sarà sempre libero ha dei fondamentali significativi perché “una volta, nell’immaginazione, l’America era talmente vasta da non avere confini. Dopo che gli europei vi si stabilirono e cominciarono a cambiarla, lavorandoci dalle coste all’interno, la sua vastità cominciò a diminuire nell’immaginazione”. Ian Frazier elabora impressioni e ricordi con poche frasi utili, sincopate: il tono è garbato, a tratti ironico, se non proprio scanzonato, ma quello che dice tocca l’intima profondità dell’America. Le “note di vagabondaggio” comprendono osservazioni naturali e scientifiche, istantanee e brevi documentazioni delle tappe, delle soste e di una visione dopo l’altra. Si tratta di orizzonti che sono soggetti a mutazioni imprevedibili, che capovolgono le condizioni vitali e, non bisogna dimenticarlo, “per la fantasia i Grandi Piani sono, sotto molti aspetti, il luogo perfetto. Sono così immensi che non è possibile sapere tutto quello che c’è da sapere e la fantasia non finisce mai”. Questa è un po’ la propensione di Ian Frazier che ha il tratto del viaggiatore libero ed esperto, che si lascia attirare da ogni occasione, osservando e vivendo tutti i dettagli delle trasformazioni del terreno, dai pascoli ai campi arati fino alle strutture sotterranee dei missili balistici Minuteman. La loro descrizione, a partire dal motivo per cui vengono dislocati in zone asciutte, è uno sfoggio di abilità ed eleganza narrative che Ian Frazier conclude definendo l’arsenale apocalittico come “un inimmaginabile tesoro in armi seppellite sotto la terra da cui abbiamo tratto tanti tesori, armi per le quali le nostre migliori speranze sono che un giorno potremo farle a pezzi e gettarle via e per cui le altre nostre migliori speranze certamente sono che rimangano sotto la prateria, assorbendo timore e manutenzione, non usate per sempre”. Questo e altri passaggi conducono la via via a uno state of mind dove “la gioia sembra un prodotto della geografia, come i deserti provocano estasi mistiche e le brughiere inglesi tristezza. Una volta che la felicità invade questi spazi aperti non c’è nulla che possa fermarla”. Ecco, tra le bellezze selvagge e la loro predazione, dei luoghi come degli esseri umani, I Grandi Piani raccontano che ancora che “dopotutto c’era davvero qualcosa”. Sì, un grande spazio vuoto.
martedì 9 dicembre 2025
Grace Paley
Aveva capito benissimo Salman Rushdie quando diceva che quella di Grace Paley era “una voce determinata come non mai a chiamare le cose con il loro vero nome”. Con il raro dono della brevità, le frasi misurate verso per verso e costruite per sottrazione, parola dopo parola, secondo un’infinita sequenza ritmica dove spazi e punteggiatura vengono interpretati come parti del discorso, non meno di pause e silenzi, Grace Paley nomina quello che esiste lontano e vicino a lei, in città e oltre. New York è lo scenario, il labirinto, il campo da gioco, il terreno da attraversare, casa sua e una cassa di risonanza. Grace Paley ne ascolta echi e riverberi, suoni, frammenti e rumori che diventano poesia come spiega in La natura di questa città: “Le parole costano poco ma l’assortimento è vasto e ad assistere al dialetto c’è una regola per tutti e in ogni frase una grammatica perfetta”. I luoghi d’elezione sono numerosi, da Battery Park (protagonista in Alla Battery: “Sono ferma su un piede solo sulla prua della grande Manhattan mi sporgo in avanti mi proietto un poco nel porto lucente. Se solo un topografo in elicottero passasse sopra la mia ombra potrei rimanere impressa per sempre sulle mappe di questa città”) alla dimensione domestica, dove “l’ascoltatrice” sceglie l’ambito famigliare per esplorare le emozioni ed estrapolare una lingua composita e originale. La percezione di una realtà cosmopolita, con l’orecchio sensibile alle notizie che popolano l’aria, si adatta a origliare parti di conversazioni con lo specifico scopo dichiarato in Abitare: “Dove potremmo instaurare modelli di benessere e agiatezza in garbata crescita il che richiede ovviamente che la terra non salti in aria o venga irrimediabilmente avvelenata e che tu e io restiamo se non amanti almeno cordiali creatori di famiglia e continuità”. I ruoli si intrecciano e si sovrappongono: non c’è alcuna distanza tra i bambini e la madre, ogni aspettativa è una componente immaginifica che in Vita descrive così: “Certi si prefiggono imprese altri dicono fai come ti pare vivi e basta altri ancora dicono uh uh non ti scorderò mai evento della mia prima vita”. Le sequenze sono un continuo alternarsi tra dentro e fuori, interno ed esterno, lei e il resto del mondo, visibile e invisibile. In Domanda si chiede: “Dato che il cuore è fatto per durare, perché non dura?”, per trovare in seguito una possibile risposta in Certi giorni: “Certi giorni non sono innamorata e il mio cuore gira a vuoto”. L’impasse è momentaneo, giusto il tempo di un respiro, perché “poi arriva lei, l’artista e racconta la storia delle storie” e Una poesia sul raccontare la ritrova “voltandosi indietro a guardare la bellezza”. Questi sbalzi sorprendono la stessa Grace Paley e in Parole ammette: “Cos’è successo? La lingua mi sfugge, le belle specifiche parole della mia vita vengono meno quando chiamo”. Con Grace Paley, le incombenze del poeta si snodano e si attorcigliano attorno alla sua identità che necessariamente deve essere doppia, se non proprio multipla, o moltitudine. Basta scorrere il lungo elenco di Responsabilità, dove sono allineate parecchie ipotesi, tutte valide: “È responsabilità del poeta cantarlo in tutte le melodie originali e tradizionali dei poemi cantati e narrati. È responsabilità del poeta ascoltare le dicerie e farle girare così come i narratori decantano la storia della vita”. Il consiglio che spunta all’improvviso, ma non inaspettato, è “forse è solo che dovresti parlare più semplice”, perché come diceva, ancora, in Certi giorni: “Non serve poi molto, aria, buonsenso, energia un rumoroso prendere e un sonoro restituire”. Ammirevole.
martedì 2 dicembre 2025
Earl Thompson
C’è il tatuaggio e ci sono ferite che ti costringono a ricordare chi sei e da dove vieni. Non si possono cancellare ed è così che Earl Thompson non fa sconti: Tattoo è un romanzo pieno di dolore e di miseria umana che si trasmette come una malattia contagiosa. Ti si incolla addosso per osmosi con l’aura di Jack alias John Andersen, che è un loser come pochi. Il padre è in carcere, la madre anche, e lui vive con i nonni in una roulotte, tutto molto white trash. Jack è solo “il ragazzo” e come tale deve ancora scoprire e capire i risvolti della vita che verrà, comprese quelle pulsioni che non riesce a controllare. Tutti gli sforzi per integrarsi e/o per redimersi sono inutili anche se la sua idea, in fondo, è molto semplice ed essenziale: “Avrebbe voluto che tutti potessero essere trattati come gentiluomini. E basta con le stronzate sul fatto che quel diritto bisognava guadagnarselo”. La differenza è proprio lì e Jack, sognando l’eroismo, si arruola in marina per non consumarsi nel buco nero di Wichita, Kansas. La vita militare non è certo la soluzione migliore, ma per il suo limitatissimo background è la sola alternativa, e lo sarà per ben due volte nel corso di Tattoo. La seconda guerra mondiale sta finendo, è questione di giorni: Jack arriva in marina e si ritrova prigioniero della stessa feroce miscela di noia, sesso e violenza che Earl Thompson condensa nelle scene turpi di un’assurda battaglia tra commilitoni a base di resti di polli e dello stupro di gruppo di un’ufficiale ubriaca e priva di sensi. Il dispiegamento nell’oceano Pacifico a caccia degli ultimi soldati giapponesi che non si arrendono e in attesa degli sviluppi della rivoluzione cinese non cambia molto. Se per Jack “i libri erano diventati il suo stabilizzatore giroscopico” con la lettura di H. G. Wells, John Steinbeck, James M. Cain, Bret Harte ed Erskine Caldwell, la vera ossessione resta il sesso che lo spinge ad avventurarsi nei bordelli sulla costa. Earl Thompson non lascia nulla all’immaginazione del lettore, i dettagli sono degni di un voyeur, la scrittura, lineare e senza particolari sfumature, segue un ritmo meccanico con insistenza maniacale che ha l’effetto di mettere in risalto la decadenza, il disorientamento e l’infinita tensione che aleggia intorno a Jack. Al ritorno, con il minimo prestigio guadagnato con l’uniforme della marina, prova a trovare una collocazione dignitosa e ci guadagna solo un turbinio di guai senza fine. La voglia di vivere e di emergere si scontra con i muri delle istituzioni, la famiglia, l’azienda, la chiesa, la scuola, le forze armate. Lo scontro è impari e faticoso e la vicenda opprimente e angosciante di Jack assorbe e condensa la storia americana dell’immediato dopoguerra, un clima di turbolenza con l’esplosione di un’idea di gioventù che deve trovare un posto tra porzioni di tran tran provinciale e grandi drammi mondiali. Per Jack non c’è una via d’uscita e dopo essersi bruciato ogni occasione, gli resta soltanto un’ultima spiaggia, l’esercito, e torna ad arruolarsi. Solo che c’è sempre una guerra americana dietro l’angolo, la disciplina e le gerarchie lo inchiodano a un grado infimo, e viene chiamato in Corea a comandare una formazione di carri armati, dove nel gelo e nel fango scompare ogni parvenza di umanità. Se Jack è l’antagonista di se stesso, Earl Thompson non segue altro schema e nemmeno una particolare costruzione della trama: Tattoo (nella traduzione di Tommaso Pincio) è un romanzo spietato che, con un suo peso specifico, racconta come le deviazioni americane, dalla feroce competitività quotidiana alla natura stessa dell’onnipresente complesso militare e industriale, sono il brodo di coltura ideale per lo sviluppo di un violenza che esplode da un momento all’altro. Sia un stupida rissa o un conflitto internazionale, non è una questione che si può spiegare o argomentare per vie semplici: i particolari, come i tatuaggi, non mentono ed è necessario affrontare una massa enorme di pagine (sono quasi ottocento) per rendersi conto che Tattoo è un’immersione inequivocabile in una realtà brutale.
venerdì 21 novembre 2025
Roman Kozak
Patti Smith, che c’era fin dall’inizio e ci sarebbe stata fino all’ultimo giorno, lo chiamava “la roccaforte dell’ignoto”. Una bella immagine: pur scontrandosi con la rozza realtà del CBGB, la poetica formula rende l’idea dello spirito del luogo, un topaia nel Lower East Side di New York destinata a diventare un ganglio nevralgico della musica popolare nella seconda metà del ventesimo secolo. Secondo l’affidabile percezione di Ira Robbins si trattava di “un tunnel lungo e buio, con un soffitto spoglio, pochi sgabelli al bar, un palco nel retro e pareti fossilizzate da graffette, adesivi e poster”, eppure dalla primavera del 1975 ha visto fiorire rock’n’roll band che hanno cambiato in modo radicale gli scenari sonori. Television, Patti Smith Group, Ramones, Blondie e Talking Heads sono stati tra i primi a usufruire degli angusti spazi del CBGB che è esistito ed è diventato quello che è diventato per via dell’umanità che l’ha popolato. In effetti persino il suo fondatore, proprietario e animatore, Hilly Kristal lo definisce un “incidente”, nato dal classico errore che in tutti gli esperimenti che si rispettino sortisce gli effetti migliori: “Aprii il CBGB perché pensavo che la musica country sarebbe diventata la cosa più importante. E lo divenne, anche se non qui”. Se le prime battute sono state un po’ casuali, e molto pionieristiche, in seguito si è rivelato un approdo inaspettato per realtà alla deriva. È la pop art il convitato di pietra, tutto un modo di intravedere ovunque una possibilità, di cogliere un’opportunità anche dove sembra impossibile, persino attraverso il fascino della decadenza. Più che un vago senso di comunità, l’identità del CBGB è stata quella di un capolinea che ha trasformato le necessità delle rock’n’roll band in altrettante occasioni, prima tra tutte quella di crescere in pubblico, come avrebbe detto Lou Reed, un avventore di tutto rispetto. Al netto delle variazioni di prospettiva e delle cronache più o meno affidabili, il collage di Roman Kozak puzza di verità. È crudo, diretto ed essenziale, in questo in perfetto stile CBGB: nei fatti e nella sostanza Questa non è una discoteca è una storia orale che raccoglie le testimonianze sul campo, compresi gli anni dell’evoluzione dal punk all’hardcore. Da Lenny Kaye a Dee Dee Ramone, da Richard Hell a David Byrne a volte le voci si sovrappongono al racconto di Roman Kozak che limita allo stretto indispensabile gli aneddoti e le leggende, scegliendo piuttosto di assecondare la versione dei protagonisti che a vario titolo hanno affollato il CBGB fino alla sua chiusura, avvenuta nel 2006. Una fine inevitabile perché tutto il quartiere, come gran parte della città, non ha resistito alla gentrification: il gusto tribale della street life ha lasciato spazio a quello glamour della moda e al nuovo ordine del turismo, ma nulla toglie alla magia del CBGB. Il fitto assemblaggio di Roman Kozak è arricchito dalla prefazione di Chris Frantz, dalle fotografie in bianco e nero di Ebet Roberts, dalle locandine e dai flyer raccolti da Matteo Torcinovich, nonché dall’appendice dedicata all’hardcore italiano in trasferta a New York seguita da Luca Frazzi che peraltro ha tradotto e curato l’intero Questa non è una discoteca. La precisazione racchiusa nel titolo merita di essere seguita dall’ulteriore definizione di Patti Smith: “Il CBGB è uno stato d’animo”. È vero ed è importante ricordare come ci si è arrivati, visto che Legs McNeil ha precisato che “Hilly (Kristal) fu abbastanza intelligente da lasciare che i pazzi gestissero il manicomio”. È andata proprio così, e non si poteva dirlo meglio.
martedì 18 novembre 2025
Patti Smith
Patti Smith è una sagoma in movimento, una Polaroid che si deve sviluppare: ci vorrà un minuto, o un pezzo di vita, o forse tutta intera. La sua introspezione non conosce sosta: è una perlustrazione intima e molto personale che scorre parallela e contigua al suo inesauribile afflato per l’arte in generale, la musica e la scrittura in particolare. Il pane degli angeli è l’ennesima celebrazione di un modus vivendi che vede Patti Smith nell’epicentro di fibrillazioni emotive che si traducono in una prosa florida e ipersensibile, capace di perdersi in un singolo particolare e di convogliare suggestioni e osservazioni in un tono elegiaco. A priori, lei si riserva un’autoassoluzione, quasi un rito propiziatorio per ricominciare e continuare a raccontarsi: “Per molto tempo ho mantenuto un residuo di innocenza, un ciuffo impalpabile alla deriva da qualche parte dentro di me, che mi ha concesso una generosa dote di entusiasmo, temperando la perdita e la delusione”. È un memoir sui generis con una costante nelle digressioni di Patti Smith e nell’infinita macedonia di iperboli e metafore che ormai distinguono il suo stile e qui c’è tutto, “c’è la magnificenza, e c’è il magnifico fallimento”. Non spiega, non argomenta e non teme di ripetersi, e succede spesso: è come se ogni storia, ogni singolo aneddoto, da Just Kids in poi, prendessero forma in modo diverso, sotto una nuova luce. Il pane degli angeli è così: meditabondo, accurato nella scelta dei vocaboli, ma anche naïf a tratti, come se Patti Smith fosse solo una spettatrice del proprio destino, consapevole che “bisogna distinguere tra un sogno e una vocazione”, ma libera da canoni e vincoli. Questo fin dagli anni più acerbi, evocati in un florilegio di dettagli che concorrono a definire un’apparenza di trama e il senso di un’individualità ribelle: “Non stavo al passo, eppure nella mia mente ero diversi passi avanti, perché portavo con me i mondi che avevo abitato, letto o creato febbrilmente”. La tessitura iniziale è fin troppo fitta, ma la ricerca del tempo perduto dell’infanzia ha però un motivo ben preciso che diventerà chiaro soltanto più avanti, ovvero verso la fine, quando Il pane degli angeli chiarisce che quel passato non passa mai “perché i bambini operano nel perpetuo presente, vanno avanti, ricostruiscono i loro castelli, depongono gessi e stampelle, e tornano a camminare”. Per Patti Smith la svolta arriva con “la schietta ingenuità del rock’n’roll” e, anche se lo sapevamo già, non perde l’occasione per ribadire che “non c’erano regole se non quella di essere liberi, senza nessuna aspettativa materiale. Cercavamo tutti il nuovo, fondendo poesia e rock, messi a nudo, privi di artificio. Nella ricerca dell’illuminazione, potevamo anche sporcarci, ma nella ricerca della semplicità venivamo purificati, e così cercavamo tutti entrambe le cose”. Gli appunti di viaggio, le cronache famigliari, le amicizie e le assenze (“Faccio l’inventario di chi è ancora con me”) si alternano alle visioni, agli ascolti e alle letture. Di volta in volta “la memoria si riaccende e si snoda nelle vene di una mappa a brandelli” e ritroviamo Il pane degli angeli farcito da Samuel Beckett e James Joyce, dal mare onnipresente della costa atlantica a quello di Trieste e Nizza, da Picasso e Camus, da John Coltrane e dai Grateful Dead, da William Burroughs ed Emily Dickinson fino all’inevitabile ricordo di Sam Shepard, che le aveva dato il via, un secolo fa. L’idea di “lasciar andare” le parole è implicita nel tono, nel ritmo e, più di tutto, nella certezza, l’unica, che “la realtà è la pioggia e il vento, poche pagine di appunti che, si spera, entreranno a far parte di qualcosa di più grande”. Le esigenze di Patti Smith sono frugali e la sua predisposizione è tutta volta a cogliere qualcosa che il più delle volte resta impercettibile e aleatorio: “Ecco ciò che uno scrittore desidera, in un caffè alle prime ore del mattino, nel salone vuoto di un albergo, o quando scrive su un taccuino nel banco di una cattedrale silenziosa. Un improvviso raggio di luce che contiene la vibrazione di un preciso momento”. Davvero, non c’è altro e Il pane degli angeli è tutto lì: una fotografia sfocata, l’eco di una chitarra elettrica, una barca che non ha mai preso il largo, un miraggio che brilla ancora.
lunedì 17 novembre 2025
Ron Rash
In un remoto angolo del North Carolina, nel fatidico 1929, sbarcano marito e moglie freschi di matrimonio e in arrivo da Boston. Serena è perfida e risoluta e con Pemberton forma una coppia diabolica, che non lascia scampo. Sono animati da un unico scopo, il profitto, e non badano ad altro. Ogni mezzo, dalla corruzione (sistematica) alla violenza, omicidio compreso, è permesso, se non addirittura consigliato. Le speculazioni sul terreno, la costruzione della ferrovia, il taglio degli alberi, lo sfruttamento senza limiti delle persone non meno dell’ambiente sono gli elementi che sostengono i loro affari. I lavoratori arrivano a frotte in cerca di un impiego qualsiasi, in seguito alla crisi economica seguita al crollo finanziario di Wall Street, e lì lo trovano anche se per pochi spiccioli e molti rischi e pericoli. Gli incidenti mortali e la mutilazioni sul fronte del lavoro sono continui, ma i coniugi Pemberton non badano a nessuna evenienza sapendo che la legge non aiuta chi non può permetterselo. Le maestranze, in tutta la loro miseria, vengono scaricate dai vagoni e alimentano senza sosta la predazione di alberi secolari. C’è molto in Serena delle delle imprese e delle necessità dei capitali, a partire dalla scelta tra “il lavoro o un bel panorama”, che è ancora attualissima, ma la volontà di “disboscare” è soltanto l’inizio. Lei è mossa da un’ambizione sfrenata che le fa immaginare in continuazione il passaggio successivo, le foreste amazzoniche del Brasile viste come un frutto maturo da cogliere. Per Serena e Pemberton “niente esiste se non ciò che è adesso”, ma poi la determinazione piega la curva ed ecco “la sensazione di guardare il tempo scorrere al contrario”. A loro resistono soltanto la figura laboriosa di Rachel e quella, ripescata dalla realtà, di Horace Kephart, scrittore e attivista ante litteram. Rachel ha avuto un figlio da Pemberton, e lo cresce da sola, sistemando la casa dove vivono e trovando il tempo di chiedersi qual è il suo posto nel mondo. Horace Kephart, l’autore di Our Southern Highlanders, storica indagine sull’universo degli Appalachi, è tra i convinti promotori, sostenuti dal governo federale, di un parco nazionale che, va da sé, collide con i piani economici dei Pemberton e dei loro soci. La trama si evolve insieme alla devastazione dell’ambiente e Ron Rash dissemina indizi, agganci e rimandi e tutta ha una serie di chiavi e di artifici che premettono svolte importanti. I dialoghi degli operai sono il contraltare spontaneo e colorito del continuo tramare dei due malefici coniugi. Un’assortita fauna che comprende procioni, cavalli, aquile, giaguari, serpenti a sonagli è protagonista almeno quanto gli esseri umani. Nello stesso modo il clima, aspro ed estremo, e le condizioni del territorio, determinano gran parte dei momenti più importanti: mentre la personalità di Serena appare con maggiore decisione, svolta dopo svolta, Ron Rash non risparmia nulla ai suoi personaggi, nemmeno a lei e a Pemberton, e con il ritmo incalzante di un’avventura, offre uno sguardo panoramico ed emozionante sulla wilderness americana, così come volge l’attenzione sulle feroci contraddizioni di cui è teatro, fin da allora. Nell’aria aleggiano temi popolari come The Big Rock Candy Mountains, Mary Of The Wild Moor e Barbara Allen che Ron Rash chiama “canzoni di frontiera” a ricordare che laggiù “la terra è rocciosa e ripida, gli inverni sono lunghi e la solitudine è tanta”. Epico.
lunedì 10 novembre 2025
Larry McMurtry
È sufficiente riportare gli omaggi di John Trudell, Robbie Robertson o Sherman Alexie per rilevare come Cavallo Pazzo aleggi ancora nell’immaginario legato ai nativi americani. Ci sono aspetti della sua storia che ne hanno fatto un personaggio unico e di sicuro è una figura eroica e resistente che non si è mai piegata all’assimilazione, e almeno questo è un fatto indiscutibile. Molti connotati della sua identità restano però sfuggenti e nemmeno la folta bibliografia accumulata nei secoli ha saputo districarsi tra mito e realtà. A scanso di equivoci, Larry McMurtry sottolinea subito i limiti di una possibile ricostruzione e non si avventura a riscrivere le cronache dell’epoca: legge e rilegge le definizioni più affidabili (comprese, tra le altre, quelle di Mary Sandoz, Alex Shoumatoff, Thomas Berger, Stephen Ambrose e Ian Frazier) e, pur condividendone i toni epici, asciuga i contorni ed esercita ogni legittimo dubbio. La coesione della sua versione è data da un approccio metodico (oltre che dallo stile, fluido e preciso, come è noto) e disincantato che è riassunto così: “Queste memorie non rispondono a tutte le domande, forse nemmeno a molte; tuttavia, è bello sapere ciò che i protagonisti pensavano fosse successo, anche se questo ci lascia con un ginepraio di opinioni piene di supposizioni, teorie e congetture”. Ne esce un ritratto molto più credibile di tanti altri: non è l’ennesima celebrazione di Cavallo Pazzo che ha un carattere tutto suo, una solida reputazione e una vasta teoria di apologie alle spalle. Larry McMurtry accantona la narrativa per cercare di focalizzare un’immagine di Cavallo Pazzo più aderente possibile alla realtà. La sua è una cernita puntigliosa e quindi efficace delle fonti, con alcune avvertenze che ritornano nel corso della disanima. I limiti linguistici nella trasposizione degli idiomi nativi verso l’inglese sono stati fonti di equivoci ancora irrisolti e la natura stessa di Cavallo Pazzo resta inafferrabile dato che, per gran parte della sua vita “non evitò solamente i bianchi ma gli uomini in generale; passava giorni e giorni nelle praterie, sognando, vagabondando, cacciando”. Larry McMurtry, osservando e rievocando le gesta di Cavallo Pazzo, anche nelle dimensioni più intime nei legami tribali e famigliari, mette una volta di più in rilievo il contesto complessivo, ovvero la colonizzazione dei territori, lo sterminio insensato dei bisonti (altrimenti raccontato da John Williams in Butcher’s Crossing), l’avvento delle ferrovie, le migrazioni dei pionieri, la corsa all’oro delle Black Hills, gli accordi con il governo americano con i trattati sul campo poi ratificati soltanto il parte dal congresso, promesse dimenticate e tradimenti spietati. È ancora l’occasione per riflettere sulle radici (ciniche e violente) dell’appropriazione del West e sull’inevitabile adesione a un’idea a senso unico del progresso, una volontà predatoria che ha trovato la sua estensione nelle opzioni militari che hanno ridotto gli indiani alla miseria delle riserve. Cavallo Pazzo è l’ultimo a resistere all’attacco dei bianchi, un “giovane guerriero oglala” come lo introduce Michael Punke in Il crinale. È una delle tante rappresentazioni fiction delle sue imprese sul campo, però è efficace e molto utile come antefatto della disfatta di Custer a Little Bighorn. È l’ultima battaglia poi “quell’uomo che un tempo aveva avuto come dimora la vastità delle Grandi Pianure, improvvisamente non aveva più un luogo dove stare”, ma di sicuro si è riservato un posto nella leggenda.
venerdì 7 novembre 2025
Joan Didion
È molto difficile orientarsi tra i miraggi posticci di Hollywood e Las Vegas, i due poli che definiscono l’ambito territoriale di Prendila così, romanzo di Joan Didion del 1970, diventato un film un paio d’anni dopo. L’insostenibile leggerezza della fiction, che tende a sbriciolare le distanze tra le chiacchiere, i sogni e la realtà, ha un prezzo piuttosto alto da pagare. La confusione di ruoli, percezioni, momenti e legami, alimentata da un flusso senza fine di additivi, richiede una sorta di aderenza totale e insindacabile verso un lifestyle sopra le righe, spumeggiante e allegro in superficie, pericoloso e inesorabile nella sua essenza. Maria Wyeth lo ha assecondato fin dove ha potuto per poi capitolare: attrice e moglie di un regista, si è vista caracollare da un party all’altro, sentendosi via via sempre più estranea a tutti e persino a se stessa perché “non sapeva che cos’era che temeva, ma era qualcosa che aveva a che fare con scatole di sardine vuote nell’acquaio, bottiglie di vermouth nel cestino dei rifiuti, una sciatteria irrimediabile”. Joan Didion è irraggiungibile nel delegare a una processione di singoli dettagli il deterioramento psicologico di Maria che subisce un aborto, il divorzio e l’impossibilità di avvicinarsi alla figlia, Kate. Il tracollo è nell’aria: agenti, amici, amanti, colleghi si confondono nelle notti californiane, ogni tentativo di restare aggrappata a uno scampolo di identità viene frullato nei dialoghi evanescenti al telefono e arriva al capolinea in squallide camere di motel. Quando Maria si accorge “dell’irrevocabilità di ciò che sembrava essere ormai accaduto”, attorno le rimane soltanto il deserto, e non soltanto in senso metaforico. Il capolinea è un set nel Mojave, dove la polvere, il calore e la luce accecante sono un confine invalicabile per Maria che si ritroverà in una clinica a provare a riordinare le sequenze di una vita evaporata senza approdare a nulla di concreto. Joan Didion trova una formula perfetta per dare voce alle apparenze e ai fenomeni che affollano la trama inafferrabile di Prendila così: brevi costruzioni che stanno su una pagina o due, frammenti di episodi, brandelli di dialoghi e scorci di paesaggi dove la desolazione ambientale è consona e complementare alla dissoluzione personale. La pena è il tentativo di sopravvivere ai rimpianti che Maria cerca di evitare nella sua nuova collocazione: “Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso al colibrì. Non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di un sacco di persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?”. La partita è truccata ed era chiaro fin dall’inizio: Prendila così è un romanzo doloroso perché Joan Didion è inflessibile nella lettura delle deformazioni dello star system e lucidissima nel rappresentarlo con un linguaggio asciutto, spigoloso ed essenziale, che non fa sconti. L’unica attenuante concessa suona sibillina: “Fosse stato un film avrebbero anche potuto sembrare una famiglia”, ma era soltanto l’ennesimo sforzo di immaginazione, destinato ben presto a soccombere. L’unica consolazione di Maria, prima del ricovero finale, che poi è l’inizio di tutto, è il vagabondare in automobile da un highway all’altra, secondo il carattere e le geografie indefinibili di Los Angeles, ma se la strada è la salvezza, non resta molto altro.
martedì 4 novembre 2025
Thomas Zigal
Paul Blanchard ha ereditato una fortuna, ha una moglie e due figli adorabili e la difficoltà maggiore all’ordine del giorno è trovare la giusta la temperatura del gin. Nella sua vita è tutto perfetto o quasi, ma c’è un buco nero nei suoi trascorsi, quando se ne è andato in California per un bel po’. Il figliol prodigo lo deve ammettere: “Alla fine torniamo sempre a casa. Possiamo resistere qualche anno, magari, ma non per sempre. Ci manca quello che abbiamo qui. I favori, le corsie preferenziali, le indulgenze che vengono con il nostro nome. Gli altri sono qui per lavorare con noi”. Questi sono i motivi principali per cui New Orleans è una trappola da cui è impossibile fuggire. Non sono soltanto gli echi mai sopiti della guerra di secessione, il razzismo e la schiavitù e i loro derivati. I conflitti sono tanti e Paul Blanchard trovandosi, suo malgrado, in mezzo a tutte le intersezioni è sempre nel posto sbagliato e nel momento peggiore. A New Orleans ha soltanto l’imbarazzo della scelta. Questo ce lo rende simpatico nonostante sia un figlio di papà senza particolari doti. Un giorno sulla soglia della sua bella magione gli si presenta Mark Morvant, un amico di gioventù, ma anche “quello che sa dove sono sepolti tutti i cadaveri” e gli chiede non solo di ricambiare un antico e pesantissimo favore, ma di intercedere presso la White League perché sostenga la sua candidatura a governatore della Louisiana. Do ut des, senza via di scampo. La politica e la corruzione sono “business as usual”, e non soltanto a New Orleans dove il dilemma del ricatto dura da anni, ma nella perentoria richiesta c’è un taglio nuovo e diverso. La White League è un’organizzazione occulta esistita veramente ma di cui si sono perse le tracce. Protagonista tra l’altro di una leggendaria insurrezione su Canal Street, imponeva gli interessi bianchi e altolocati con metodi efferati e brutali. Confuso e perplesso più del solito, Paul Blanchard confessa: “Non riuscivo a credere nell’invisibile, anche se stavo cominciando a capire che forze invisibili governavano il mondo molto più di quanto avessi mai immaginato”. Lì si apre un vaso di Pandora che attraversa più generazioni: un popolo di ombre che si alimenta di sigari e scotch in circoli ristretti e privatissimi che incidono non poco sulla vita pubblica, ma che, come nel caso della White League, hanno in catalogo anche linciaggi, rivolte e omicidi. Il prezzo dello status quo. Per Paul Blanchard e per chi lo segue è un crescendo inarrestabile: Thomas Zigal riesce a rendere benissimo il ritmo rocambolesco, spesso condito con una punta di salace ironia, e a tratti persino comico, con dialoghi stringenti e un continuo richiamo alle caratteristiche e alle tradizioni della Big Easy. Conosce ed esalta le battute, lo slang, la topografia e l’anima di ogni vicolo: ha un senso del dettaglio scrupoloso e nello stesso tempo riesce ad avere uno sguardo panoramico capace di abbracciare interi quartieri fino al carcere di Angola. New Orleans è uno state of mind: la violenza e il disordine sono considerati parti integranti del mood cittadino, come il clima, il cibo e soprattutto il Mardi Gras, da cui non si può prescindere e che costituiscono elementi portanti della storia. Hanno il potere di determinare la trama, al di là delle peripezie dell’ineffabile Paul Blanchard e per estensione della sua famiglia. The White League è un’apologia di New Orleans: la città è la vera protagonista del romanzo (grazie al meticoloso lavoro di traduzione e di annotazione di Nicola Manuppelli) e gli intrighi e i segreti, l’attrito infinito e irrisolto tra presente e passato, persino nei risvolti architettonici, sono raccontati con le cadenze travolgenti di un thriller, ma con la coscienza di un’osservazione antropologica. Con la benedizione di Tennessee Williams e Truman Capote, citati en passant, The White League celebra Niu Orlinz in grande stile, nel bene e nel male, concedendo il dono dell’innocenza soltanto alle donne, e si vedrà fino alla fine, nonché alla musica che scorre alla grande con Little Richard, i Neville Brothers, Muddy Waters, Louis Armstrong, Randy Newman con Louisiana 1927, Johnny Adams, Professor Longhair, James Booker, Clarence Gatemouth Brown, Walter Wolfman Washington, Irma Thomas e la Bobby Blue Band con Turn On Your Love Light e Somewhere Between Right and Wrong. Roba di gran classe.
lunedì 27 ottobre 2025
Tom Wolfe
In uno degli stralci più coloriti che vengono riproposti in La baby aerodinamica kolor karamella, Tom Wolfe racconta con disinvoltura la storia di un’opera di Walter de Maria, chiamata Il ritratto di Dorian Gray. Con tutto il rispetto per Oscar Wilde, il furto del titolo ha un senso perché si tratta solo di una lastra d’argento che si ossida e quindi muta nel corso del tempo. La sua storia è al centro del demi monde di New York, con mostre, vernissage, inaugurazioni, cocktail party e il sabato sera tra Jasper Johns o Mark Rothko, ma Tom Wolfe ci arriva alla fine, partendo dalle coste californiane dove imperversano surf, hot-rod e rock’n’roll. La “segregazione generazionale” cominciata con l’invenzione della gioventù nel dopoguerra si impone con la customizzazione delle carrozzerie perché “tra i giovani l’automobile è diventata un simbolo, e in parte il mezzo fisico, del trionfo sulle restrizioni imposte dalla famiglia e dalla comunità”. Tom Wolfe indaga le innovazioni meccaniche come le follie dei demolition derby e soprattutto la deviazione delle forme, dei colori e dei design che ha urtato l’egemonia dei profili dell’industria di Detroit. Sull’onda delle creazioni giovanili, Tom Wolfe affronta anche Murray the K e il suo legame con i Beatles, “il più grosso fenomeno di musica popolare mai esistito”, l’importanza delle radio nella diffusione e nella percezione della cultura, la figura di Phil Spector e le sue produzioni fino ai tumulti di Watts. È tutta un’altra era vista su più dimensioni: le considerazioni di Tom Wolfe sono sempre belle appuntite, lo stile è tranchant e coinvolgente, l’attenzione per i dettagli e i costumi ha una teatralità effervescente, ma a una lettura più attenta, è soltanto un diversivo per mascherare uno sguardo molto più profondo. Ben presto la vena caustica di Tom Wolfe rivolge le sue attenzioni a New York e secondo il suo punto di vista, la città “non fa che tenersi aggrappata a questa vecchia, feudale e patrimoniale idea delle gerarchie sociali, del farsi vedere, dell’incontrare la gente giusta e via dicendo”. Mecenati e artisti, commensali e faccendieri, portieri e altre apparizioni fugaci sono all’ordine del giorno e della notte: New York è fatta di ombre e “qualche passo falso, qualche delusione, qualche risatina alle spalle, e vuoi tagliarti la gola per questo?”. Tom Wolfe è una guida imprevedibile, capace di tenere banco senza sosta, lasciandosi trasportare persino da una brillante leggerezza quando dice: “Guardatevi intorno, tanto per cominciare questa città è un manicomio, sbaglio? Perciò, non lasciatevi prendere dalla frenesia. Rilassatevi. Godetevela”. Certo, intanto Il ritratto di Dorian Gray ormai annerito e graffiato dagli anni oggi vale più di mezzo milione di dollari. Testimone oculare di tanti eccessi e divagazioni, Tom Wolfe a New York si concede un’avventura con gli automatismi all’Hilton, frutto di una digressione letteraria che pare infinita, e poi, nell’alternarsi tra la costa occidentale e orientale, ecco il gran finale con il ritorno in California con l’analisi ravvicinata delle protesi di silicone, acuta ed esilarante. Nel frattempo ci sono ampie parentesi dedicate a Marshall McLuhan (e a Freud) e a Hugh Hefner e al suo impero di apparenze, così, senza alcuna soluzione di continuità. Se a prima vista La baby aerodinamica kolor karamella è un insieme difficile da decifrare, il collage che va formandosi sottolinea, nel caso ce ne fosse bisogno, che “la vita americana si va omogeneizzando sempre più al suo centro di potere”. Ancora validissimo.
martedì 21 ottobre 2025
T. C. Boyle
Fermata per una piccola infrazione stradale in un’area suburbana della California, Alex Halter viene arrestata perché a suo carico figurano una sfilza di reati commessi in più stati americani. Lei, un’innocente insegnante, comprende fin da subito che deve aver subito il furto delle generalità, ma viene considerata fuorilegge a sua volta perché il suo doppelgänger ha una serie di precedenti sterminata e quindi le tocca tutto l’iter giudiziario, burocratico e penale (passaggio in carcere compreso). È un incubo, aggravato dal fatto che Alex Halter è sorda, un handicap che T. C. Boyle rende inquietante così come è meticoloso fino all’ossessione nel descrivere lo scorrere del tempo dentro i contorni di una situazione impossibile da decifrare. Quando Alex viene riconosciuta vittima del raggiro, non ha più fiducia nelle istituzioni, e con il fidanzato, Bridger, si mette alla caccia del nemico, che si rivelerà essere William Peck Wilson alias Frank Calabrese. Peck è furbo, infido, cinico e irritante, ma ha qualcosa che ce lo rende simpatico: i gusti da gourmet, le difficoltà nelle relazioni, l’impazienza. È un personaggio che vive costantemente “in bilico su una capocchia di spillo” e quando trova uno sprazzo di serenità riesce ancora a distinguere “uno di quei momenti in cui il mondo ti si spalanca davanti, in cui ogni piccola scocciatura quotidiana sembra scomparire e il pianeta si dispone sul proprio asse, perfettamente in equilibrio, precisamente ora, davanti a te”. Non può durare e in qualche modo lo percepisce anche lui: l’identità è una partita complessa, il furto ancora di più perché mentire richiede controllo assoluto dato che “tutto quanto era solo una grande esibizione” ed è indispensabile non incappare in equivoci per permettere agli alias di prelevare, spendere, acquistare in continuazione. Quando le Identità rubate gli si ritorcono contro e mettono a rischio il ménage sopra le righe con Natalia e la figlia Madison, non resta che la fuga e dalla metà in poi il romanzo diventa un inseguimento attraverso l’America e si converte in un road movie. Il furto dell’identità si trasforma nell’intersezione delle vite, di tutte le vite, quelle vere e quelle false, quelle limitate di Alex Halter e Bridger Martin (alla fine ruba le identità di entrambi) e quelle senza limiti apparenti di Peck e Natalia che si scontrano e infine si sovrappongono. La trama si avvolge su se stessa e si complica da sola perché T. C. Boyle affida tutti i movimenti e ogni sequenza alle scelte dei personaggi, senza risparmiargli nulla, mettendoli sulla strada, e descrivendo dall’alto, e in prospettiva, quello che gli succede. Identità rubate è un trompe-l’œil che ha il ritmo feroce di un rocambolesco thriller, ma tocca un nervo scoperto e nelle pieghe della storia, con piccolo artificio letterario, infila anche la gestazione di un altro romanzo di T. C. Boyle, Il ragazzo selvaggio, ancora più concentrato sui temi dell’identità e della diversità, affidandolo alle cure di Alex Halter, quella vera. Notevole.
lunedì 13 ottobre 2025
Sarah Seltzer
Nell’effervescenza del Village, siamo nell’anno di Like A Rolling Stone, il fatidico 1965, approda una giovane donna, Judie, attratta dalle melodie e dalle figure di Judy Collins e Pete Seeger, e non solo. Sono tempi in cui il potere nascosto nelle canzoni emerge come la colonna sonora di un momento irripetibile e Judie ha un’avventura fugace proprio con un songwriter, Eamon Foley, da cui nasce una figlia, Rose, che viene data in adozione. Non una novità: all’epoca è capitato davvero a Joni Mitchell e in seguito a Patti Smith, richiamata più avanti, quando la musica è già cambiata. Insieme alla sorella Sylvia, Judie è un po’ il cardine delle Singer Sisters, ma tra le due anche la più fragile. Le carriere si alternano in cerca di una definizione perché “le canzoni potevano essere rese sofisticate. La cosa da fare era aggiungere bridge, ritornelli, strofe”. Il confronto è continuo, le Singer Sisters si avviano a diventare eroine di un’epoca, poi Judie poi sposa un altro musicista, Dave Cantor o Dave Canticle per il resto del mondo, da cui ha Leon ed Emma. Le gravidanze e la maternità, che non si addicono a una rock’n’roll star, la tengono lontana dal songwriting e dalla musica, mentre il marito è in tour e i figli crescono e diventano a loro volta musicisti. Resta il segreto di Rose che irrompe nella vita di Emma: lampi del passato s’intersecano con il presente e il futuro e gli anni fuggono. Il massacro alla Kent State University, il Watergate, la guerra del Vietnam sono ombre cupe sullo sfondo, la musica folk resta ancorata alla sua natura mentre l’evoluzione musicale si fa via via più rapida. I cliché si susseguono senza sosta: in cerca di un singolo di successo, in partenza per il tour, ma ancora di più all’inseguimento di “una canzone folk, di quelle che la gente canta sotto il portico nelle notti d’estate”, le Singer Sisters, Dave Canticle, e poi Emma e Leon attraversano i rapporti famigliari in una saga tutta femminile di madri, mogli, figlie e sorelle, valida per tutto l’ultimo quarto del ventesimo secolo fino al 2003. Tra gli studi di registrazione e le distorsioni dell’industria dello spettacolo (incluso un falso flirt di Emma), le case riempite e svuotate e i viaggi in Europa i rapporti si dipanano lungo un intero albero genealogico e le vicissitudini personali (incontri, separazioni, matrimoni, rivelazioni, fallimenti, successi) si sovrappongono e confondono con la nascita di strofe e ritornelli e bridge, con “i suoni dei loro desideri trasformati in poesia e canzone” e con la loro percezione divisa tra genesi privata ed esposizione pubblica. Come dice Judie sarà anche “pura speculazione, certo. Ma riempiva il buco della serratura del suo cuore”. È vero: le canzoni sono messaggi che, da una persona all’altra, superano le barriere emotive e in qualche modo “ti raggiungevano nella tasca posteriore al di là del tuo io pensante, il luogo in cui i colori e i sentimenti e i vettori di luce saltavano intorno a te, entravano e uscivano da te, ti cambiavano dalla persona che eri il giorno prima e almeno temporaneamente fermavano le domande che ti tormentavano la notte”. È così che scorre l’intesa storia delle Singer Sisters, nonostante i sommovimenti dei personaggi che, a più riprese, ricordano molti volti noti nella realtà. A un primo approccio si possono intravedere Joan Baez, Mimi e Richard Fariña, poi, con lo sviluppo dei legami a un livello superiore, è forte il richiamo alla famiglia allargata McGarrigle-Wainwright, (compreso Leon, che somiglia molto a Rufus Wainwright), forse un po’ anche le Roches. Sì, Bob Dylan è inevitabile e onnipresente, ma in incognito, con titoli e versi delle canzoni che viaggiano nell’atmosfera e si infilano nelle pieghe delle vite, come nessun altro è riuscito fare.
lunedì 6 ottobre 2025
Kim Wozencraft
Il doppio gioco è un’arma complicata e pericolosa, anche quando è condotto in nome e per conto della legge e della giustizia. Rush racconta, con una forma immediata, mai edulcorata, semplice, dura e diretta, la missione di due agenti della narcotici che vengono infiltrati nel milieu di spacciatori, tossicodipendenti e outsider assortiti nella cittadina di Beaumont, Texas. Kristen Cates è una giovane allieva di polizia, mentre il suo mentore e compagno, Jim Raynor, è già un veterano: insieme devono annullare le proprie identità, fingere giorno e notte, provare gli stupefacenti in quantità, per non smentirsi, e finiscono per ritrovarsi invischiati senza quasi accorgersene: “Avviene per gradi, così piano che non te ne accorgi. Le offese, le morti, le menzogne ti martellano e, alla fine, ti guardi dentro e trovi il nulla. Il vuoto. Ed è maledettamente bello non sentire male”. Oltre che il corpo di reato, la droga diventa lo strumento ideale per condire l’ambiguità dove il dovere e il diritto vengono confinati in un angolo e, alla fine, “le cose succedono. E tu ti chiedi se tradire o diventare cieco”. Il capo della polizia, Donald J. Nettle, pretende risultati perché vuole essere confermato nella sua posizione e l’inganno è velenoso e contagioso, ma anche nelle nebbie che avvolgono Rush, Kristen riesce ad accorgersi delle distorsioni: “Avrei dovuto ascoltare. Avrei dovuto dar retta a quella parte di me che da qualche punto del mio cranio mi bisbigliava sta’ attenta. Io zittivo la voce, le dicevo di tacere, di andare via, di lasciarmi stare. Avevo deciso che sapevo quello che facevo”. Troppo tardi: anche il dialogo interiore, che è una costante in Rush, è diventato ingannevole: “Compravamo molta roba, proprio tanta, ma continuavo a dirmi che era tutto sotto controllo. Venirne fuori non sarebbe stato un problema. Ero forte abbastanza. Ce l’avrei fatta”. Ore, giorni, settimane, mesi, la stessa storia. Mentre il tempo si dilata e diventa una variabile confusa, il perimetro si restringe. Kristen si ritrova in “un puntino bianco, minuscolo, piccolissimo. Uno spazio così esiguo tra l’infelicità e la gioia”. Sperimentano tutto, compresa un’overdose (per Jim), e la teoria di “combattere il crimine con il crimine”, inclusa la creazione di prove false, diventa solo l’ennesimo lavoro sporco: la sopravvivenza è l’unico obiettivo. Kristen è lapidaria: “Siamo tutti insieme. Un giorno, in una mattina di sole, vi tradirò in nome della legge. Ma per il momento, andiamo tutti in trip e ascoltiamo la musica”. Nell’aria scorrono a ripetizione AC/DC, J. J. Cale, Supertramp, Rod Stewart, Marvin Gaye, Lou Reed, Patsy Cline, Ray Charles, Willie Nelson, Johnny Paycheck, Merle Haggard, Sammy Hagar, Rita Coolidge, Neil Young e soprattutto gli Steely Dan. La colonna sonora sfuma, l’indagine giunge alla conclusione, gli arresti vengono effettuati, ma è soltanto l’inizio e Kristen Cates, una volta ripreso il suo nome, riassume così tutto il processo: “Cambia identità, buttati nella melma e gioca a ripulire le strade, poi saltane fuori e ricomincia esattamente dove hai smesso, presumibilmente come un essere umano rispettabile”. Kristen e Jim si ritrovano incastrati più volte, anche perché “gli sbirri non hanno tempo di fare domande, sono troppo occupati a restare vivi”. Vengono aggrediti a colpi di fucile, non hanno un posto dove nascondersi o dove fuggire, l’FBI li costringe a confessare gli abusi e le irregolarità e li trascina in tribunale, dove sono condannati. Il capo della polizia è già altrove, immerso nella politica, e ormai sono abbandonati al loro destino. Seguendo da vicino la liaison tra Kristen e Jim, Kim Wozencraft, ci offre uno sguardo crudo, livido e spietato dentro un mondo di ombre, difficile da cogliere, se non lasciandosi trasportare e sporcandosi le mani, proprio come succede in Rush.
mercoledì 1 ottobre 2025
Oakley Hall
Quella delle Bad Lands è un’enclave americana limitata, nello spazio e nel tempo, che vive ancora nella condizione selvaggia della frontiera. All’alba del 1883, trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra di secessione, l’irruzione della ferrovia e del filo spinato stanno riducendo le distanze e delimitando nuovi confini. Jonathan Raban in Bad Land (nessuna parentela, molte coincidenze) precisa che “i recinti, oltre che utili, erano anche un’affermazione concreta dell’idea che quella terra selvaggia poteva essere domata”. Le Bad Lands sono destinate a essere assoggettate: i bisonti non ci sono più, gli indiani sono stati decimati e spinti nelle riserve e nei territori, insieme ai treni, stanno per arrivare le leggi federali, come negli altri stati formalmente compiuti. La conquista del West, venduto come una terra promessa, è una vittoria coloniale e una tragedia umana. Le Bad Lands non concedono nulla: sono un’area affascinante, ma anche ostica per via del clima, delle condizioni del terreno e di minacce e imprevisti assortiti. Anche allevare il bestiame, che dovrebbe essere l’attività più pacifica del mondo, si rivela un lavoro molto pericoloso. È in questo scenario che incontriamo Andrew Livingstone, in arrivo dalla costa orientale, Lord Machray, un eccentrico e intraprendente scozzese, la famiglia Hardy, che da tempo si è stabilita nelle Bad Lands, insieme a una fiera maîtresse, Cora Benbow, e a uno scaltro cacciatore, Bill Driggs. Sono i principali protagonisti degli scontri per il controllo dei pascoli e del bestiame che ben presto, tra tradimenti e capovolgimenti di fronte, razzie e scorribande, mercenari e pistoleri, incluso Jack Boutelle, particolarmente infido e odioso, si trasformano in una vera e propria guerriglia attorno ai ranch per il dominio delle Bad Lands. La violenza e le armi, una diffusione endemica e letale, sono l’unica forma di giustizia che poi si traduce in vendetta. Lo sceriffo è troppo lontano per intervenire e non ha né la forza né la volontà per controllare le posse e le bande che scorrazzano sui crinali delle Bad Lands. Occorre difendersi (e attaccare) da soli: il legame tra Livingstone e Machray, nato da una sfida di pugilato improvvisata in mezzo alla prateria, è altalenante, ma alla fine si rivela il sodalizio più efficace. Tra le tante bizzarrie, Lord Machray oltre a un’energia esagerata, ha una solida esperienza militare. Livingstone coltiva una comprensione politica delle trattative e delle strategie e insieme riescono a tenere testa alle turbolenze che agitano le Bad Lands, ma non a quello che sta succedendo che “è un processo implacabile, a quanto pare: col tempo, il bene presente nelle cose finirà per essere corrotto, degradato al minimo comune denominatore della malvagità umana”. Una storia americana che non lascia scampo: l’epilogo, nel 1885 e con una coda all’inizio del ventesimo secolo, è amaro, senza vincitori o vinti, solo sconfitti perché “il tempo aveva stravolto tutto, ciò che prima era sbagliato ora appariva giusto e il giusto era diventato sbagliato”. Senza le vette liriche di Cormac McCarthy o la capacità immaginifica di Larry McMurtry, Oakley Hall si affida piuttosto a uno stile immediato, diretto, comunque in grado di sottolineare momenti drammatici e tesissimi così come i non pochi episodi più coloriti. La scrittura persegue in modo arguto e scorrevole (compreso l’epistolario parallelo di Livingstone) un’immagine realistica del West e Bad Lands, pur con tutti i suoi limiti, è una rappresentazione concreta della formazione degli Stati (poco) Uniti e di quello che sono diventati e del resto, se lo snodo di tutta la storia è un bordello, un motivo ci sarà.
giovedì 18 settembre 2025
Daniel Keyes
Basato su una storia vera, per quanto assurda possa sembrare, Una stanza piena di gente ripercorre il caso emblematico di William Stanley Milligan, che in tutta la sua complessità mette in discussione gli elementi del diritto e della psichiatria in relazione alle “personalità multiple”. Tutto comincia nell’ottobre del 1977 quando Milligan, all’epoca poco più che ventenne, viene arrestato per violenze sessuali e rapine ad danni di tre studentesse universitarie. Lui si proclama innocente, ma non riesce a capacitarsi dell’evidenza delle prove che lo conducono dritto in tribunale. Durante il processo, però, gli viene diagnosticato e riconosciuto un gravissimo disturbo psichiatrico: nella sua mente convivono dozzine di personalità che hanno una loro autonomia, in termini di decisioni e responsabilità, una gerarchia e un modo imperscrutabile di “uscire sul posto”, ovvero di presentarsi nei momenti più o meno opportuni. Billy o il vero William Milligan affida a ciascuna delle altre “personalità” una missione, uno scopo: assorbire il dolore, proteggersi in ambienti ostili, trattare con le istituzioni, gestire le emozioni, a partire dagli atroci traumi subiti nell’infanzia. Un complesso sistema di autodifesa, compreso il “sonno” dello stesso Billy, tenuto in disparte dalle altre personalità perché “se vogliamo sopravvivere in questo mondo, dobbiamo fare un po’ di ordine in tutto questo caos”. Il dilemma centrale è la capacità di intendere e volere di un individuo occupata da “personalità multiple”, con tutte le ambiguità giuridiche, giornalistiche e, più di tutto, politiche che hanno condizionato il caso di William Milligan. Come imputato la sua esigenza principale è quella di chiunque: “Voglio essere di nuovo un cittadino. Vorrei imparare da capo a vivere”. A quel punto giocano un ruolo fondamentale le istituzioni, l’esercizio dell’autorità e l’amministrazione della giustizia dagli ospedali al carcere, e il trattamento della malattia mentale, tra la coercizione e il tentativo delle cure, che prevede la “fusione” delle personalità, in cerca di un equilibrio. Daniel Keyes, dal canto suo, organizza il racconto con caparbietà e con un’attenzione speciale. Dove non è sufficiente la documentazione ufficiale a cui ha attinto ci arriva la sua abilità di narratore che riesce a congiungere tutti i punti lasciati in sospeso, ma soprattutto a delineare con estrema precisione l’intricata querelle, rendendo avvincenti anche gli aspetti più contorti e macchinosi della realtà giuridica e scientifica. Dalla metà in poi, cioè dalla storica sentenza, Una stanza piena di gente diventa in effetti diventa un lunghissimo flashback che mette in evidenza la turbolenta convivenza delle “personalità multiple” che sono divise dall’età, dalla loro percezione, persino dalle idee politiche o dai “vuoti di tempo” lasciati quando il palcoscenico della vita è occupato da qualcun altro. Così, quando “sembrava che le cose succedessero sempre più ravvicinate tra loro, si stava preparando un altro brutto periodo di confusione”, la distanza tra figure prominenti come “il Maestro” o poco più che fugaci come gli “indesiderabili” che convivono in William Milligan aumenta e ci conseguenza si aggrava il suo disturbo dissociativo. Nella versione di Daniel Keyes la convivenza e il conflitto delle personalità affiora come un riflesso della società in sé e Una stanza piena di gente ha senza dubbio il pregio di illustrare un tema ostico, da tutti i punti di vista, ma la questione resta irrisolta e così l’enigma di William Milligan che, stando alle notizie più recenti, sarebbe diventato un produttore di Hollywood. Nessuna sorpresa, lì la sua patologia è uno stile di vita.
lunedì 15 settembre 2025
Paul Bowles
Quando propose Il tè nel deserto ai suoi editori, se lo vide respingere perché si aspettavano un romanzo e invece si trovarono tra le mani “una cosa diversa”. Nell’episodio in sé, c’è molto di Paul Bowles che scrive per sottrazione, lasciando al lettore il compito di decifrare il fitto tessuto di ombre, lingue, montagne, sogni, premonizioni, incontri, fughe e sparizioni. Il ritmo è cadenzato dal trascorrere delle giornate, alba e tramonto, il caldo asfissiante di giorno e il freddo pungente nel buio, una forma fluttuante con le immagini che compongono l’intero vocabolario, insieme ai suoni che provengono da ogni angolo. C’è una colonna sonora costante, un battito delle mani, la melodia di un liuto, una tromba, un flauto, una fisarmonica o un oud che suonano in sottofondo, un commento musicale latente che tende a sottolineare le esistenze “sradicate” dentro un’altra dimensione dove, in un istante ogni cosa può precipitare. Tocca in particolare ai Moresby, Port e Kit, e al loro matrimonio claudicante e verboso, dove parlano un sacco senza dirsi nulla. Lui, Pche nel suo passaporto alla voce professione ha lasciato un vuoto riesce ad ammetterlo, per quel che vale: “Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù”. Le disavventure sembrano cercate con una insistenza, persino con noncuranza verso le usanze, le asperità del clima, del paesaggio e per le creature che lo popolano, forse un lascito del retaggio coloniale. Del resto sia Port che gli altri protagonisti hanno l’aria “di chi ha davanti a sé tutto il tempo del mondo, per qualsiasi cosa”. Quello che è comune a tutti è un’ambiguità di fondo: sembrano fuori posto, come se dovessero trovare qualcosa, proprio dove non c’è nulla. L’entità del territorio sahariano è qualcosa in più di uno sfondo e dell’ambientazione: è uno scenario vivo, multiforme, capace di influire in modo pesante sulle vite e sui percorsi delle persone che l’affrontano. Nella prima parte del tragitto Kit è contesa dal marito e dall’amico Tunner si riflette nella seconda, come un miraggio sulle dune, dove Kit è ancora prigioniera di un’altra triangolazione. Quando Port si ammala le condizioni diventano insostenibili: “E gli passò per la mente che una passeggiata attraverso la campagna era una sorta di epitome del passaggio attraverso la vita stessa. Non ti concedevi mai il tempo di assaporare i particolari; dicevi: un altro giorno, ma sempre con la segreta consapevolezza che ciascun giorno era unico e definitivo, che non vi sarebbe mai stato un ritorno, un’altra volta”. Città emergono dalla sabbia: Aïn Khorfa, Bounoura, El Gaa, Sbâ, ogni volta diverse e uguali, tappe che per Kit, una figura femminile enigmatica, sono altrettante prove di una mutazione. Se, all’inizio, “si trattava unicamente di resistere, di esserci” che suona un po’ come un presagio, la destinazione finale è drammatica. L’andamento del romanzo ricorda così l’istinto dei viaggiatori che tendono a compiere un cerchio, prima o poi e ci ricorda che “il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai”. Paul Bowles si mimetizza spesso e volentieri tra i suoi personaggi, condividendo “le assurde banalità che riempivano la giornata e una cosa seria come mettere parole sulla carta” e quel senso latente di tragedia, che prima di tutto interviene nelle relazioni. Il tè nel deserto è un romanzo che attrae e confonde le idee con i suoi panorami estremi: è torbido e sinuoso e attraverso i suoi tempi dilatati coinvolge i sensi nell’attraversare odori, rumori, sensazioni, silenzi e poi “soltanto oscurità. Notte assoluta”. Bon voyage.
mercoledì 10 settembre 2025
Joan Baez
Nel corso di una lunga lettera aperta a Leonard Cohen, Joan Baez gli chiede: “Siamo solo noi, Leonard, o siamo più persone alla volta?”. È una quesito che trova risposte in abbondanza nel corso di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Le personalità multiple di Joan Baez sono per sua stessa ammissione “una comunità sempre crescente di esseri interiori” e affollano un viaggio nel tempo caotico e ballerino. Sarebbero anche un bel problema, da un punto di vista psicologico, ma lasciarle fluire in libertà è stato un approccio singolare, che però alla fine funziona. A partire dall’inizio, dai tributi alla madre (“C’è mia madre che versa il tè. Io respiro, l’aria entra, l’aria esce”), al padre, al figlio, alle dinamiche famigliari con piccoli ritratti, ricordi e fotografie d’epoca che cambiano forma con lo scorrere degli anni, in tutte le direzioni. I frammenti dell’infanzia hanno una loro tenerezza e sono svolti con genuina semplicità: tutto il linguaggio è elementare, folk, popolare, intuitivo, eppure denso e, a volte, inestricabile. In Paura scrive: “La vita sono solo secondi, dicono, uno dopo l’altro e l’altro ancora, e avanti così per sempre finché non si muore. Se è davvero così, perché non riempire ogni secondo di luce?”, e la risposta non soffia nel vento, ma negli interstizi di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Una lunga ballata che si conclude proprio dicendo: “Si dice che lo spirito non abbia età, quando si risveglia al mutamento della sua condizione. Ma io credo che un’età ce l’abbia, quella di un momento preciso di mirabile occasione”. Le scritture di Joan Baez, frammenti letterari che non sono né poesia né narrativa, ma un po’ di una e dell’altra, sono come le sue canzoni, molto semplici e pratiche in superficie, e tormentate e profonde più ci si addentra. L’ossimoro di una “tranquilla incursione” in La lama del narciso e la definizione di “una serie di vivide immagini dipinte” si adattano benissimo, in particolare alle protagoniste femminili, “belle come il sole”: Vivian, Jasmine (“Tu fai un rutto e il mondo applaude), la magica Lily, Colleen e Pauline, in particolare, che sussurra ai serpenti a sonagli e condivide il sentiero con il puma (c’è spazio per tutti e due) e che aveva “piantato bocche di leone e papaveri per la bellezza e salvia e gelsomino per il celestiale profumo”. In mezzo a tanta grazia, lo sguardo di Joan Baez si sofferma a lungo a fissare la La grande onda di Kanagawa di Katsushika Hokusai o American Gothic di Grant Wood per poi descrivere il pellegrinaggio, voluto e dovuto, a Big Sur. Non c’è nulla di lineare, se non le forme degli omaggi che riportano inevitabilmente a un’età molto lontana, ormai irraggiungibile. Le celebrazioni di Jimi Hendrix (“Suonasti appena prima di me all’isola di Wight e in qualche modo riuscisti ad accendere gli animi. Io suonai nella tua scia che ancora balenava nei riflettori”), Leonard Cohen, Judy Collins e, inevitabilmente, il richiamo a tale Robert Zimmerman “figlio dagli occhi azzurri di Duluth” che “scribacchiava sogni pensati”, comunque “roba brillante”. Ogni riferimento, si sarà capito, non è casuale, così come per la sorella Mimi, già moglie di Richard Fariña, che completa le ricognizioni famigliari prima del ballo della madre da cui comincia e finisce tutto. Il suo è uno sforzo di memoria, non privo di nostalgia, che avvolge le parole seguendo l’istinto perché “la scrittura è come l’amore, non può essere forzata o muove in corso d’opera”. Quelle di Joan Baez sono “lezioni a impatto molto basso” che lei srotola un po’ a caso, in disordine, come se stesse camminando scalza, a occhi chiusi, come capitava allora con Jim, e Bob, e Judy e Leonard e Mimi e tutti insieme cantavano la stessa canzone, per sempre giovani.

















