giovedì 29 settembre 2011
Edward Bunker
Vladimir Nabokov
mercoledì 28 settembre 2011
Flannery O'Connor
martedì 27 settembre 2011
Raymond Carver
C’è molto di Raymond Carver in Cattedrale. Della sua storia, del passato e di un futuro intravisto in racconti “più generosi”, testimonianze di “un senso di apertura” allora (siamo nel 1983) inedito e forse persino inatteso. La svolta parte proprio da Cattedrale, il primo racconto scritto da Raymond Carver a inaugurare questa raccolta. In un’intervista disse: “Mi sentivo come se non avessi mai scritto niente in quel modo, prima. Potevo lasciarmi andare in un certo senso, non dovevo impormi le limitazioni che mi ero imposto nei racconti precedenti”. Un modo diverso di accostarsi al suo mondo di ultimi e perdenti, che proprio in Cattedrale sfiora persino l’ironia: “So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo. Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle, non hanno mai visto l’opera finita. Da questo punto di vista, fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?”. La domanda non è retorica perché chiarisce il senso universale della precarietà, sia che si passino le giornate tra la bottiglia e il divano, sia che si punti a toccare il cielo. Ed è vero che il disorientamento, le difficoltà, il senso di perdita sono ancora gli elementi fondamentali della narrativa di Raymond Carver, ma da Cattedrale in poi emerge uno spirito che forse è eccessivo definire positivo, come fece lo stesso scrittore all’epoca, però è senza dubbio più ricco, coraggioso e lirico rispetto ai precedenti. La sequenza dei racconti di Cattedrale mette la letteratura a nudo, la riporta all’essenzialità dello storytelling o, per dirla con Tobias Wolff, “le storie e il fatto di raccontarsele”. Lo fa affidandosi alla purezza di un linguaggio elementare, semplice, perfetto. Le vite dei suoi protagonisti sono diamanti grezzi: trasparenti e dai tagli imprevedibili perché lo sguardo di Raymond Carver non è mai consolatorio eppure crudo e duro mantiene sempre una certa compassione e un infinito trasporto per i suoi uomini e le sue donne. Tutti incastrati in svolte e incroci in cerca di un’altra vita che non arriva mai, e quando arriva (in Il pavone, per esempio: “Il cambiamento è avvenuto più tardi, e quando è successo era come se stesse succedendo ad altri, non come qualcosa che poteva succedere a noi”) non è mai quella sperata. Sono outsider anche nella loro stessa sofferenza: la ricerca della felicità è una chimera, il quotidiano incombe con tutte le piccole fatiche e l’imprevisto di tragedie sempre in agguato. Non sanno dove stanno andando e il più delle volte salgono sul treno sbagliato. Capita a Myers che, in viaggio tra le campagne francesi coltivate a rimpianti e delusioni, dice del suo convoglio: “Stava andando da qualche parte, questo lo sapeva. E se era nella direzione sbagliata, prima o poi l’avrebbe scoperto”. Con Cattedrale, Raymond Carver invece riscopriva nella scrittura una certezza con “l’idea di sapere più o meno” che cosa avrebbe fatto in futuro. Fondamentale.
lunedì 26 settembre 2011
Elia Kazan
venerdì 23 settembre 2011
Stephen King
On Writing è stato un libro particolare nella storia di Stephen King sia per come è nato sia per quello che contiene. Il personalissimo tono di Stephen King trova la sua cifra definitiva nella confessione finale dove svela i legami con il grave incidente che, nel 1999, lo costrinse a lunghe e indicibili sofferenze. Se è stato vero per lui che scrivere è tornare alla vita è perché comunque scrivere è una vita e On Writing è un libro che dice molto sulla scrittura e sullo scrittore ma nello stesso tempo spiega lettore e lettura. “Autobiografia di un mestiere” presuppone più di un significato e i suoi consigli, come di chiunque altro, sono opinabili e discutibili perché come ammette Stephen King “si impara soprattutto leggendo molto e scrivendo molto e le lezioni più preziose sono quelle che vi impartite da soli. Sono lezioni che si svolgono quasi esclusivamente quando la porta dello studio è chiusa”. La praticità di On Writing è tutta qui: alcuni passaggi (a partire da quello fondamentale sulle revisioni: “Scrivi con la porta chiusa, riscrivi con la porta aperta”) sono più che utili, ma è soprattutto il modo di accostarsi alla lettura e alla scrittura che è contagioso. Un tono entusiasta e incantato che recita: “anche se il risultato è solo chiarezza e non bellezza, credo che scrittore e lettore partecipino insieme a una sorta di miracolo”. On Writing è la cerniera tra la formazione di uno scrittore e la natura di un lettore, dove il mestiere di scrittore diventa comprensibile attraverso la vita del lettore e scrittura e lettura si intrecciano come in un’altra raccolta di saggi piuttosto sottovalutata, ovvero Danse Macabre, perché la passione di Stephen King lo spinge a dire che “i libri hanno la singolarità di essere magie portatili”. Idea più che condivisibile per cui On Writing non è un vademecum per aspiranti scrittori, anche se di indicazioni se ne trovano in abbondanza: “tutti hanno una storia” e se quello è il punto di partenza, non è mai autosufficiente perché se da una parte “le storie sono reperti, frammenti di un mondo preesistente e ignoto”, dall’altra “il fine della fiction è di trovare la verità dentro la ragnatela di bugie della storia”. Questo è lo spunto più coraggioso di On Writing e forse anche un’altra esplicita rivelazione di Stephen King, questa volta più politica che personale: poi “è tutto sul tavolo: quello che vi può servire è lì, ed è giusto utilizzare qualunque cosa migliori la qualità della vostra scrittura e non intralci la vostra storia”. E’ importante cominciare, continuare, ma soprattutto scoprire che “se potete farlo per il piacere, potete farlo per sempre”, quali che siano i risultati. In fondo “scrivere è tirarsi su, mettersi a posto e stare bene” ed è un lavoro duro, ma qualcuno lo deve fare anche se agli americani (e non solo, vale la pena di notare) “interessano di più i quiz televisivi che i racconti di Raymond Carver”. In mezzo, dove c’è un’intera terra di nessuno in gran parte inesplorata, c’è solo Stephen King.
mercoledì 21 settembre 2011
Harper Lee
lunedì 19 settembre 2011
Tim O'Brien
L’esordio di Tim O’Brien cresce con la sua chiamata alle armi. Quando ricevette la cartolina ebbe una reazione che lo sorprende ancora a distanza di anni: “Andai nella mia stanza e cominciai a pestare sulla mia macchina da scrivere. Fu l’estate peggiore della mia vita, peggio che essere in guerra. La mia coscienza mi diceva che non dovevo andare, ma tutto il resto mi diceva che lo dovevo fare. Quell’orribile estate fece di me uno scrittore. Non so cosa scrissi. Ho ancora una parte di quella roba, anche se non riesco più a guardarla ma quello fu l’inizio”. L’arruolamento, dovuto più a luoghi comuni e alle convenzioni che a una reale partecipazione, lo porta a un cupo campo d’addestramento, Fort Lewis, con personaggi e dinamiche che poi saranno protagonisti anche in Full Metal Jacket. “Eccoci qui, proiettati verso l’opposto e l’assurdo antipodo di ciò che riteniamo giusto” è il saluto che Tim O’Brien rivolge alla sua nuova casa. In difficoltà nel trovare una dimensione umana in quel contesto, Tim O’Brien stringe amicizia con un altro outsider con cui si diletta a discutere di filosofia e poesia. Gli amici verranno separati perché i voli pindarici non hanno speranza all’interno della struttura militare e Tim O’Brien si ritrova proiettato da solo nel fango, nel sangue e nella merda della guerra in Vietnam. Le sue ipotesi di fuga nonché tutti i piani per effettuarla sfumano negli ingranaggi spietati della macchina bellica, tra lunghissimi momenti di noia e pochi attimi di terrore. L’idea della diserzione si riduce a una ritirata nelle retrovie, come se la vita e la morte nella zona di combattimento avessero riportato Tim O’Brien alla realtà e a una guerra diversa. La fuga diventerà un altro romanzo, Inseguendo Cacciato, e le sue radici sono proprio qui: “Cazzo, amico il segreto per resistere in Vietnam è andare via dal Vietnam. E non parlo di andare via in un sacco di plastica. Parlo di andare via vivo, così lo sento quando la mia ragazza mi abbraccia”. L’unico, esile filo che collega Tim O’Brien alla vita è il rapporto epistolare con il vecchio compagno, ma le lettere sono una rarità e del tutto incongrue con la destinazione finale. Il Vietnam è distruzione e disperazione al fronte e decadenza e assuefazione nelle retrovie, una terra di nessuno dove non c’è posto per la poesia o la filosofia e dove la percezione è soltanto una: “Le cose accadevano, le cose finivano. Inutile farne un dramma. Non restavano che macerie, quattro crateri fumanti per terra, qualche fuoco che si sarebbe spento da solo”. Nel riportare il suo diario di guerra la scrittura di Tim O’Brien è ancora frammentaria e sfocata rispetto alla sua evoluzione in Inseguendo Cacciato e poi Luglio per sempre. A questo stadio la scrittura funziona come una forma evoluta di autodifesa a cui non è estraneo il malinconico ritorno a casa che Tim O’Brien fotografa così: “In cambio di tutto il tuo terrore, le praterie si mantengono sfrontatamente immutate”. Come per dire: da laggiù non si può nemmeno fuggire.
Jack Kerouac
giovedì 15 settembre 2011
William Langewiesche
La precisione. Nella guerra la precisione è tutto: centrare il bersaglio, mantenere la posizione, collimare il mirino, arrivare sulle coordinate giuste. Una precisione costruita con la burocrazia e l’addestramento, a cui negli ultimi anni si è affiancata l’ossessione per le tecnologie più raffinate e costose. Una dimensione in cui è molto difficile entrare e che è ancora più complicato da spiegare. William Langewiesche ci riesce con una certa disinvoltura perché la sua percezione della guerra, e in particolare delle recenti forme di combattimento ad alto contenuto tecnologico, si struttura attraverso due punti di vista molto simili e nello stesso tempo agli antipodi che riporta in due reportage (Esecuzioni a distanza e Predatori) scritti in modo accurato e tagliente. Nella prima metà di Esecuzioni a distanza, William Langewiesche, ricostruendo la testimonianza di un tiratore scelto americano (Iraq, Afghanistan) legge attraverso le sue impressioni le difficoltà di considerarsi umano. La vita del cecchino è difficile e complessa. E’ una parte delle élite in guerra, è un guerriero superiore agli altri, un soldato che vive la sua missione come un’arte. E’ strategico, è più addestrato, è più costoso, è più pericoloso. E’ anche in una situazione in cui il confine tra soldato e omicida diventa molto labile e il tormento, dopo ogni colpo sparato, è un dubbio che scava nell’anima. Anche se la distanza dal nemico resta notevole, un cecchino la guerra la vede e la vive in prima persona, sul terreno, senza via di fuga dal fronte. E’ un killer, ma resta umano, con tutte le contraddizioni e le debolezze degli esseri umani. Speculare alla vita del tiratore scelto, è quella del pilota di droni che occupa l’altra metà di Esecuzioni a distanza. Stando a migliaia e migliaia di chilometri di distanza dal fronte, al sicuro in una base aerea negli Stati Uniti, un pilota guida i Predator nelle ricognizioni e negli attacchi in Iraq e in Afghanistan. La guerra la vede attraverso una schermo digitale. Le decisioni (come muoversi, quando sparare) sono prese con una tastiera e un joystick. La sua partecipazione è limitata, a tratti surreali tanto che confessa a William Langewiesche: “Non ricordo più esattamente che cosa ci facciamo, qui, ma tanto nessuno chiederà la mia opinione”. E’ un’altra guerra rispetto a quella del tiratore scelto. E’ sempre la stessa guerra, “è una guerra che perderemo, ma dichiarando di averla vinta. E’ successo in Vietnam, sta succedendo di nuovo in Iraq, succederà anche in Afghanistan” sentenzia William Langewiesche. Ai suoi interlocutori, i dottor Stranamore che comandano il tiratore scelto e il pilota dei droni, non importa un granché. Sono già proiettati nel prossimo conflitto, “un futuro di guerra robotizzata, in cui saranno le macchine a scegliere di uccidere. Ed è un futuro prossimo. Quando arriverà, dovremo però chiederci che specie siamo diventati. E cosa ci facciamo sulla terra”. La conclusione è agghiacciante e la domanda pare più che lecita.
lunedì 12 settembre 2011
H. D. Thoreau
domenica 11 settembre 2011
Woody Guthrie
All’inizio Woody Guthrie è stato prima “un ragazzo in cerca di qualcosa” poi è diventato una voce che si sente in modo nitido, forte e distinto ancora oggi. Non tanto perché, in effetti, Woody Guthrie è stato uno storyteller e un cantante eccezionale, ma perché il suo “non posso parlare senza dire” si percepisce in modo vibrante anche sulla pagina scritta. Anche gli scampoli autobiografici riportano in modo diretto alla forza dei suoi valori come spiega lo stesso Woody Guthrie all’inizio di che compongono Questa terra è la mia terra: “Così la nostra famiglia era come divisa in due partiti. Mamma ci insegnava le vecchie canzoni, le leggende e le ballate, cercando a modo suo di abituarci a guardare la realtà dal punto di vista del prossimo. Papà ci comprava ogni genere di attrezzi e molle per fare ginnastica, lasciando che il giardino davanti a casa fosse sempre pieno di ragazzini che facevano la lotta; ci insegnava a non lasciarci impaurire, minacciare e sopraffare da nessun altro essere umano”. L’educazione è tutto ed è da quella formazione che Woody Guthrie ha cominciato a distinguere con precisione cosa vale la pena raccontare e quello che si può perdere per strada: “Avevo la testa piena di figure, come in un film, ma era un film diverso da tutti quelli che avevo visto al cinema. Non si trattava delle solite storie fasulle di fuorilegge, ragazze ricche, playboy, cow-boy e indiani, di sparatorie e uccisioni e di bei ragazzi che baciano belle ragazze stagliandosi contro scenari meravigliosi sotto cieli meravigliosi. Rimanevo molto più affascinato dal coraggio di quella gente che sputava l’anima a lavorare nei campi di petrolio, spaccandosi la schiena, smoccolando, ridendo, chiacchierando. Digrignavano tutti i denti che avevano in bocca e tendevano tutti i muscoli che avevano in corpo, senza illudersi certo di diventare ricchi e potersi mettere in panciolle”. Più che un (grande) songwriter o uno scrittore, come si evince da Questa terra è la mia terra, Woody Guthrie è stato un testimone del nostro tempo, un bardo con l’umiltà dell’ultimo hobo capace di raccontare gli estremi della vita e di una nazione usando la scrittura e la voce in modo “pubblico”, “politico” nella più alta accezione del termine. Succede perché “all’inizio erano canzoni buffe su storie che prima andavano male e poi finivano per andare meglio o magari peggio. Poi incominciai a prendere coraggio e a scrivere canzoni su quello che veramente pensavo ci fosse di storto, e a come aggiustarle; insomma canzoni che dicevano quello che tutti pensavano in questo nostro paese”. Magnetico e avvincente, Questa terra è la mia terra è il diario di un viaggio nell’oscurità e nella polvere, una discesa tra gli ultimi e gli emarginati, un poema in forma di prosa che risponde alla necessità di dare una voce a chi una voce non l’avrà mai. Il fatto che la terra in questionee risponde al nome di America alla fine è persino relativo. E’ l’unicità della sua missione ciò che resterà indelebile per sempre.
lunedì 5 settembre 2011
Kaye Gibbons
domenica 4 settembre 2011
Cormac McCarthy
Nello spiritato Il buio fuori, le dimensioni della wilderness assumono forme e sembianze speciali, come se fossero personaggi attivi e concreti, piuttosto che parti del paesaggio. Alberi, fango, ciottoli, il fiume, la pioggia incidono nella storia con un peso specifico rilevante. E’ una natura enigmatica, cupa, ombrosa, tagliente con cui Il buio fuori anticipa il laconico scenario di La strada. Il clima, la tensione e le asperità del racconto sono proprio quelle, anche se Il buio fuori intuisce e vive di suggestioni, di atmosfere e di ombre, mentre La strada sarà nudo, aspro e lapidario. Il legame tra i due romanzi è suggerito anche da un dialogo nelle pagine iniziali (“Dove state andando? Seguo la strada, tutto qui. Davvero? E’ esattamente dove sto andandoio. Seguo la strada, tutto qui”) con cui comincia il viaggio di Il buio fuori. Rinthy ha un figlio dal fratello che glielo porta via e l’abbandona in mezzo ad un bosco, uno di quei “boschi senza sole” che sembrano esistere soltanto nei romanzi di Cormac McCarthy, e poi fugge. Lei lo insegue per ritrovare il bambino e attraverso le strade che percorrono emergono paesaggi bucolici, aridi, crudeli e una pattuglia di sbandati che appaiono e scompaiono come cavalieri dell’apocalisse ed ogni volta è sangue a fiotti. Attenzione, però: qui non c'è niente di pulp o di cannibale (o scegliete voi un termine alla moda) perché in fondo in fondo “non si danno nomi alle cose morte” e la violenza che racconta Cormac McCarthy è la stessa su cui è fondata l’America. La sua visione è distaccata, atona, precisa: “Sono tempi duri. E’ la gente dura che rende duri i tempi. Ho visto tanta cattiveria fra gli uomini che non so perché Dio non ha ancora spento il sole e non se n’è andato”. Il riferimento più appropriato forse non è letterario perché Il buio fuori condivide, come un po’ tutti i romanzi di Cormac McCarthy, la stessa prospettiva di Sam Peckinpah: tagli netti, passaggi lineari, pugni nello stomaco. Qualcosa che, soprattutto per merito di un linguaggio scarnificato fino all’osso, si avvicina in modo pericoloso alla realtà e che puzza sul serio di vita e di morte. Tra i romanzi di Cormac McCarthy gli estremi più efficaci di questo stile sono Meridiano di sangue e Oltre il confine: il primo per l’efferata e folle crudezza; il secondo per il suo fascinoso lirismo. Il buio fuori, che risale ai suoi esordi (era il 1968) è ancora un acerbo ibrido rispetto ai suoi fortunati successori ma ha pur sempre tre o quattro validissimi motivi che ne giustificano l’esistenza e la lettura: le descrizioni della wilderness americana sono sempre eloquenti, i dialoghi brucianti (“Vivete solo? Non esattamente. Ho due cani e una doppietta calibro dieci che mi tiene compagnia”), la tensione altissima e pronta ad esplodere da un momento all'altro. Quando, per inciso, appaiono quei tre pazzi sanguinari che, con inesorabile lentezza (narrata da Cormac McCarthy in maniera impeccabile), dispongono di vita e di morte su qualsiasi cosa respiri che incontrano sul loro sentiero. Inquietanti, e magici, come Il buio fuori.