Di tutti gli alter ego di Philip Roth, David
Kepesh è il più sincero, istintivo, leggero. In una parola simpatico: è un
professore universitario che si innamora di una sua studentessa, di origini
cubane, la splendida Consuela Castillo e nella loro storia, nelle loro vite,
amore, sesso e morte s’intrecciano e si attorcigliano svelandone tutta la
fragilità perché “tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati”. Fin
qui, è il Philip Roth ormai classico, che insiste con assoluta convinzione sui
temi che gli sono propri, a partire dal sesso. Un argomento che ha già trattato
nel dettaglio, sia rispetto a tutte le possibili e immaginabili variazioni (Il
teatro di Sabbath),
sia a legami che i luoghi comuni considererebbero sconvenienti (La macchia
umana)
e che con L’animale morente sembra trovare una sua definizione: “L’arte
francese del corteggiamento non m’interessa. L’impulso selvaggio, sì. No,
questa non è seduzione. Questa è una commedia. E’ la commedia che si recita per
creare un collegamento che non è il collegamento, che non può competere con il
collegamento, creato spontaneamente dalla lussuria Questo è un istantaneo
richiamarsi alle convenzioni, un darci subito qualcosa in comune, il tentativo
di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente. Ma è proprio
la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria. No, questo si limita a
tracciare la rotta, non in avanti ma indietro, verso l’impulso primordiale. Non
confondiamo la dissimulazione con il problema sul tappeto”. L’animale
morente
ha poi avuto, in prospettiva, il compito di inaugurare e in un certo senso di
sublimare la lunga dedizione di Philip Roth al crepuscolo del corpo, e qui a
proposito scrive alcune pagine davvero magnifiche, che in fondo possono essere
condensate nelle poche righe in cui dice che tutto è “il passare del tempo. Ci
siamo dentro, affondiamo nel tempo, fino al giorno in cui anneghiamo e ce ne
andiamo”. Il legame tra David Kepesh e Consuela Castillo diventa l’elemento in
cui non soltanto si riflette L’animale morente, ma anche il senso ultimo della visione di Philip
Roth: “Deduzione e controdeduzione: è di questo che è fatta la storia. O uno
impone le sue idee o se le vedrà imporre. Volenti o nolenti, questa è la
situazione. Ci sono sempre delle forze contrapposte, e così, se non si ha una
sfrenata passione per la subordinazione, si è sempre in guerra”. Quasi
riprendendo i temi conflittuali di Pastorale americana, s’inventa, nel bel
mezzo della storia, una disgressione sugli ideali, sulle follie cercando,
insieme ai suoi personaggi, di “osservare in che modo si liberavano della buona
educazione e scoprivano la propria volgarità, ascoltare la loro musica, fumare
insieme a loro e ascoltare Janis Joplin, la loro Bessie Smith con la pelle
bianca, la loro urlatrice, la loro squallida e strafatta Judy Garland,
ascoltare insieme a loro Jimi Hendrix, il loro Charlie Parker della chitarra,
farsi con loro e sentire Hendrix che suonava la chitarra a rovescio,
capovolgendo ogni cosa”. Molto più di una rivoluzione.
martedì 30 luglio 2013
domenica 28 luglio 2013
David Foster Wallace
L’intervista di Ostap Karmodi comincia partendo
da questioni tanto cruciali quanto indefinite ed è affascinate notare la
progressione esponenziale con cui David Foster Wallace cerca di riportarla nel
suo alveo naturale, quello della letteratura e della narrativa in particolare.
Non che gli manchino gli argomenti alle legittime sollecitazioni di Ostap
Karmodi. Siamo nel 2006 e DFW, come tutti, brancola nel buio: “Come andranno le
cose? Non lo so. E una delle ragioni è che l’America vive tempi molto spaventosi:
molti di noi si trovano nella posizione di aver più paura del nostro paese e
del nostro governo di quanta non ne abbiamo per i presunti nemici all’estero”.
Se non altro, anche negli spazi ristretti di un’intervista riesce a mantenere
una certa lucidità: “Tutti i giorni mi imbatto in qualcosa che avevo dato per
scontato ma che si rivela falso. Per come vanno le cose in America adesso,
posso andare in giro e rendermi conto al di là di ogni dubbio che il più delle
volte quello in cui credo fermamente sono tutte cazzate. E rendersene conto è
un grosso privilegio. Penso che in tantissimi momenti della storia del mondo e
in molte nazioni non ci si affatto la possibilità di realizzare quanto spesso
ci si sbagli”. Ostap Karmodi, come era nelle intenzioni prova a mantenere il
dialogo sui temi d’attualità e DFW cerca sempre di schivare l’ovvietà, anche se
non può esimersi di esprimersi sull’evoluzione di questi anni: “La mia
personale opinione è che, siccome la tecnologia e la logica economica sono
diventate così sofisticate, oggi è possibile perpetrare crudeltà inimmaginabili
due o trecento anni fa. Pertanto, abbiamo l’obbligo morale di tentare con tutte
le nostre forze di sviluppare la compassione e la pietà e l’empatia. Il che
significa che questi sono tempi davvero difficili per l’America, perché
l’elettorato americano è per lo più semplicemente disinteressato a gran parte
di queste tematiche”. Piano piano, aggrappandosi a piccole variazioni tra una
domanda e l’altra, David Foster Wallace riporta anche il suo interlocutore
all’essenza, non senza lasciare prima una nitida impressione di umiltà: “Da
profano, penso semplicemente di non avere un’opinione informata sul tema
dell’evoluzione morale. Forse è questione del numero di variabili e quindi il
fatto che sia irrisolvibile dipende dal genere di modello che vuoi usare per
misurarle. E’ una domanda affascinante, ne convengo. Non penso nemmeno di avere
un’opinione su questo. Ho solo una serie di paure diverse”. Appena può, subito
dopo, rimette la barra dell’intervista sulle coordinate che più ama: Čechov,
Puškin, Tolstoj, Dostoevskij, ma anche Viktor Pelevin, Jacques Derrida o Henry
James perché, dice lo stesso DFW “tendo a pensare alla narrativa come qualcosa
di composto soprattuto da personaggi, esseri umani e una specie di esperienza
interiore”. Dal suo volentoroso ospite si congeda con una sorta di inchino:
“quello che scrivo è così americano e così idiomatico”, ed è così unico, anche
in una piccola, sghemba intervista.
lunedì 22 luglio 2013
Ben Fountain
L’halftime è l’infinito intervallo tra i due
tempi dei più importanti show sportivi. E’ un tempo di mezzo in cui può
succedere di tutto, da un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band
all’annuncio straordinario dell’inizio di una nuova guerra: un modo come un
altro per tenere incollati decine e decine di milioni di spettatori televisivi
in attesa che ricominci lo spettacolo, piazzando sponsor e stacchi pubblicitari
uno dopo l’altro. Per l’halftime del Thanksgiving in un imprecisato anno dal
2003 in poi, oltre allo show delle Destiny’s Child, è prevista l’apparizione
della squadra Bravo o di ciò che ne rimane: una sparuta pattuglia di soldati
americani che qualche giorno prima è stata protagonista di uno scontro a fuoco,
finito in modo fortuito su tutte le reti televisive. Li chiamano eroi e sono
soltanto ragazzi, non hanno nemmeno vent’anni, che vengono catapultati dal
sangue e dalla polvere dell’Iraq alle luminarie e agli ologrammi,
all’eccitazione e all’illusione collettiva dell’halftime che non sono meno
devastanti. La squadra Bravo è un totem, deve diventare un film, sarà un affare
per tutti, una perfetta storia americana. Qualcosa non funziona come dovrebbe,
c’è un eccesso di falsità nell’aria, un po’ troppo anche per un momento
costruito dettaglio dopo dettaglio come l’halftime e il primo ad accorgersene è
proprio Billy Lynn quando dice che “è molto meglio starsene laggiù a sparare e
a far saltare in aria le cose piuttosto che gironzolare come comparse in una
pessima sitcom”. La lapidaria constatazione è solo la miccia che sottolinea una
tensione costante, a tratti insopportabile tanto è tagliente. Ben Fountain usa
il ritmo frenetico della scrittura per riprodurre con una certa fedeltà
l’iperattività, i luoghi comuni e l’atmosfera complessiva dell’America in
guerra dopo l’11 settembre (2001). Se l’halftime appare surreale nel romanzo è
perché anche “l’assurdo è il nuovo normale”, per quando non sia del tutto
agevole trovare un senso alla definizione di “normale”. La costante generazione
di mondi paralleli, la confusione esponenziale dei valori il cui senso è stato
consumato dall’infinita ripetizione, la sovrapposizione della guerra e del
football, delle decisioni prese a Washington e rappresentate a Hollywood,
inglobano i giovani e disorientati soldati nella società dello spettacolo. Solo
che dietro le uniformi tirate a lucido, dietro le medaglie e dietro le
tonnellate di iprocrisia si nascondono spirali di tenebra e di paranoia, di
paura e di noia, di disperazione e di pura e semplice follia. D’altra parte,
l’America è “la chiesa di ciò che è”, ed è sempre halftime: lo show non si può
fermare e ognuno deve coltivare la solitudine del proprio destino, anche in uno
stadio sold out e in diretta televisiva nazionale. Scoppiettante, irriverente,
il più delle volte trascinato dalla verve di Ben Fountain, che riesce
nell’impresa di rendere la vacuità e l’amarezza che Billy e i suoi compagni di
sventura attraversano, è un romanzo scomodo e necessario.
venerdì 19 luglio 2013
A. M. Homes
“E’ stato uno strano, lungo
viaggio” scrive A. M. Homes nell’ultima riga utile di Che Dio ci perdoni ed è una definizione che si può condividere con
generosità, anche se è una lettura scomoda, spigolosa, tagliente. Eppure
scorre, trascinandosci sull’orlo di domande che sono voragini buie. E’ davvero
questa la vita all’inizio del ventunesimo secolo? E’ una decadenza infinita con
rari e casuali sprazzi di dignità? E’ una dissoluzione mascherata dalle
banalità? Che Dio ci perdoni è
romanzo teso come una corda di violino, solo che non si spezza mai, emana una
melodia stridente che prova a “restituirci l’immagine di quello che siamo”. E’
come se A. M. Homes avesse letto l’opera omnia di Philip Roth la sera e quella
di Don DeLillo il giorno dopo (e nel frattempo anche John Cheever, Richard
Yates, e Raymond Carver, tutti citati en passant) e poi si sia messa a scrivere
Che Dio ci perdoni. E’ un
ritratto non edificante, non consolatorio, anche crudele della vita (borghese)
nell’America di oggi: George e Harold Silver sono fratelli legati da grande
animosità e diventati adulti (produttore televisivo il primo; professore
universitario con un’ossessione per Nixon il secondo) devono fronteggiare
“un’infinita caduta libera”, travolti da eventi in sospesi tra il drammatico e
il surreale. Come un brutto sogno a occhi aperti, prima George rimane coinvolto
in un sanguinoso incidente stradale, poi in un raptus omicida uccide la moglie
scoperta a letto con Harold e siamo solo all’inizio. George finirà in
manicomio, Harold si ritroverà alle prese con i resti della famiglia (in
particolare con i nipoti, Nate e Ashley), i rimorsi e i sensi di colpa e una
catena infinita imprevisti perché “succedono cose strane quando gli uomini
vengono abbandonati a se stessi”. Dio ci perdoni ha anche una sua ripetitività, con ogni probabilità
voluta e dichiarata, come se fosse un’acidissima soap opera distinta da un
accento continuo di sarcasmo quando tra le tragedie e le commedie il confine va
sfumandosi, trasformanolo in un romanzo spietato e, per dirlo con A. M. Homes,
“complesso e molto umano, con tutto quel che comporta”. Lo si capisce quando
Harold Silver, un personaggio che fa della modernità una sorta di situation
comedy confessa: “Quando fa buio sento un brivido di paura. Accendo tutte le luci
e la televisione e mi trovo a domandarmi: e ora come mi invento una cena? Vado
in cucina, apro e chiudo il frigo e poi torno al divano”. E’ un Ulisse che
cerca di ricostruire o almeno tenere insieme quello che gli è rimasto anche se
si sente come “che abbia sempre solo volato da passeggero e adesso si trovi a
dover fare un atterraggio di fortuna”. Il senso è quello e se c’è una costante
irriverente, nel romanzo, è che per un motivo o per l’altro tutti gli offrono
soldi (un sacco di soldi), come se non finissero mai e come se fossero la
soluzione e in effetti non è proprio quello il problema: è tutto il resto che è
un disastro. Americani brava gente: Che Dio ci perdoni è un romanzo complicato perché riflette il tempo in
cui viviamo (che è tutto, ma non semplice).
lunedì 15 luglio 2013
Henry James
La notte del 10 gennaio 1895, l’arcivescovo di
Canterbury, Edward White Benson, nella sua residenza di Croydon, racconta una
ghost story che Henry James si annota con puntualità sui suoi Taccuini. Trama, ambiente,
personaggi sono già delineati in una manciata di righe che conclude così: “E’
tutto vago e incompleto, il quadro, la storia, ma sembra recelare una vena di
strano raccapriccio”. Nella decadente tenuta di Bly, in mezzo alla campagna
inglese, viene mandata una giovane istitutrice incarica di accudire i piccoli
Flora e Miles. La bucolica residenza nasconde i fantasmi della signorina Jessel
e del signor Quint che appaiono enigmatici: sono appena ombre dietro una
finestra o sulla riva di un lago eppure scatenano un vorticoso maelstrom
psicologico. Giro di vite è un micidiale labirinto narrativo, e chissà se
è vera la storia dell’arcivescovo, in cui ogni varco si spalanca su un livello
più profondo. Henry James lo definiva “un’escursione nel caos pur rimanendo,
come Barbablù e Cenerentola, solo un aneddoto, anche se un aneddoto amplificato
e altamente accentuato e tornante su se stesso: come, del resto, tornano su se
stessi Cenerentola e Barbablù”. Il senso di “un ulteriore giro di vite” è
palpabile, pagina dopo pagina, perché sulla residenza di Bly gravano il
sospetto, l’angoscia, il dubbio che qualcosa di orrendo sia successo ai due
bambini e che non sia ancora finito. Il mistero è proprio in quel Giro di
vite
impresso alla trama che Henry James ha tessuto con meticolosa genialità: “Rendi
la visione generale del male da parte del lettore abbastanza intensa, dissi a
me stesso, e questo è già un compito piacevole, e la sua esperienza, la sua
fantasia, la sua simpatia (per i bambini) e il suo orrore (dei loro falsi
amici) gli forniranno a sufficienza tutti i particolari. Fagli pensare il male, faglielo
pensare da sé, e sarai liberato dal peso di deboli specificazioni”. Tenere in
considerazione il lettore, come scriveva Henry James nella prefazione di Giro
di vite,
è già un elemento di rara coerenza a cui fa seguito uno svolgimento in cui lo
stile ricerca, con un’ossessiva attenzione, di “rendere denso come una fitta
pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane america, della mia
immaginaria narratrice, e tuttavia mantenerne l’espressione così chiara e fine
che ne risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive tanto per me
quanto quello sforzo”. Ogni dettaglio, ogni singolo gesto, ogni particolari dei
racconti che si inanellano l’uno con l’altro, persino “gli oggetti quotidiani
della vita”, come li definisce ancora Henry James, tendono ad evocare l’humus
da cui gli spettri prendono forma, a partire dalle parole e dai silenzi. Sembra
paradossale che la realtà sia il loro habitat ideale e invece ha una sua logica
stringente se ci fida di Virginia Woolf quando scrive che i fantasmi “hanno la
loro origine in noi” ed è l’autorevole indicazione che porta a comprendere quel
senso unico che Giro di vite imbocca dall’incipit fino al finale
agghiacciante, emblematico, perfetto.
mercoledì 10 luglio 2013
John Williams
Quando John Williams, all’inizio di Stoner, lascia filtrare l’idea
che non c’è “nient’altro”, ovvero che c’è molto poco da raccontare, suggerisce
già tutta l’essenza di un personaggio che si muove nella vita come se fosse
qualcosa di inevitabile. I costanti e reiterati tentativi di William Stoner di
prendere le distanze dal dolore, dalla fatica delle emozioni e dell’ambizione e
di rendere la vita un fiume tranquillo, di considerarla normale quando tanto
normale non è mai, sono persino commoventi. Figlio poverissimo della terra
americana, William Stoner si laurea e trova la sua vocazione per la letteratura
tutta nell’alveo dell’università e dell’insegnamento. Nonostante il mondo,
fuori, sia nel frattempo travolto da due guerre mondiali, la sua ricerca di un
ordine, limitato e monotono finchè si vuole, ma pur sempre un ordine, è tanto
insistente quando votata al fallimento. Non si chiamerebbe vita, allora, e
l’impossibilità della realtà diventa il vero fulcro di Stoner che prova “perfino a
essere felice, di tanto in tanto” anche se è difficile, dovendo combattere ogni
giorno con quell’infernale virus che sono gli altri. Tra i protagonisti che
irrompono nella routine quotidiana di Stoner, vanno annoverati
almeno la moglie, Edith Elaine Boswick, con cui popola un triste matrimonio
alias “un lungo armistizio, che aveva tutta l’aria di un punto morto” e il
barone universitario Hollis Lomax che lo coinvolge in una ventennale faida e da
lì in qualcosa che è solo “una sorta di perenne insoddisfazione”. La
coincidenza della biografia di William Stoner con il romanzo è perfetta,
un’identificazione totale che è possibile grazie a uno stile asciutto, pulito,
preciso nei dettagli fino all’ossessione. E’ evidente che John Williams è uno
scrittore di livello superiore, in grado di siglare un classico come è a tutti
gli effetti Stoner
ed è altrettanto chiaro che il suo rifugiarsi nella lettura e nella scrittura
ha qualcosa di famigliare perché la realtà non poi così interessante e perché
anche per William Stoner “la serenità tanto agognata andava in mille pezzi
appena realizzava quanto poco tempo aveva per leggere tutte quelle cose e
imparare quello che doveva sapere”. Non appare casuale che l’unico personaggio
con cui sviluppa un minimo di empatia sia Katherine Driscoll, sua amante e
appassionata letterata dato che con Stoner “l’amore per la
letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si
rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e
parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva
sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi
dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con
orgoglio”. Come scrive Peter Cameron nella sentita postfazione di Stoner, non ultimo svelando il
suo vitale paradosso: “Ecco uno dei regali che dobbiamo all’arte: la sensazione
che non tutto è perso, che alcune cose restano perfette e inviolabili”. E’
proprio l’anima di Stoner. Essenziale.
venerdì 5 luglio 2013
Patti Smith
E’ interessante il continuo lavoro di ricostruzione del
passato, l’utilizzo della scrittura come strumento per riformulare la lettura
di una biografia, di una storia, di una vita, la sua in particolare. Il ritorno
all’infanzia a fragili increspature dei ricordi, a nodi di legami intrecciati,
aggrovigliati in immagini senza cornici è celebrato da Patti Smith assecondando
cicli regolari perché è quel momento inafferrabile in cui “vaghiamo nella vita,
castoni senza pietra. Finché un giorno non prendiamo una svolta ed eccola lì a
terra davanti a noi, una goccia di sangue sfaccettato, più reale di un
fantasma, sfolgorante. Se ci muoviamo, rischierà di sparire. Se non agiamo,
nulla sarà redento. C’è un modo per risolvere questo piccolo enigma. Dire la
propria preghiera. Non importa in che modo. Perché una volta finito si
possiederà l’unico gioiello che valga la pena di conservare. L’unica gemma
degna di essere regalata”. E’ lei la principale tessitrice di sogni che propaga
attraverso una scrittura dalla forma mutevole e impalpabile le suggestioni
della memoria e dell’emozione scardinata dal tempo e dalla vita. In
prospettiva, comincia tutto con I tessitori di sogni, un piccolo libro che
viene dal passato e da un frangente molto delicato dell’esistenza di Patti Smith,
coinvolta in una conduzione famigliare difficoltosa, in un primo, timido
comeback con Dream Of Life e con il marito Fred Sonic Smith avviato lungo un doloroso
crepuscolo (morirà tre anni dopo la prima pubblicazione di I tessitori di
sogni).
Nei rari momenti di tranquillità, Patti Smith si rifugiava in un angolo incolto
e selvaggio del suo giardino per lasciarsi avvicinare dal soffio dell’arte,
dell’ispirazione, della bellezza da “una di quelle cose inesplicabili. Perché è
una modalità in cui si entra senza aspettative o finalità. Quando, persi nei
propri pensieri, si sente un colpetto sulla spalla e ci si ritrova scagliati
lontano, in un turbine di polvere, sballottati e frenati di colpo”. Anche se
nella rilettura e nella scrittura degli anni successivi quel periodo sarà di
volta in volta reinterpretato e circondato da una luce più morbida e sfocata,
la sincerità di Patti Smith emerge in queste pagine come “un folle patchwork di
verità, di quelle selvagge e caotiche, che non hanno quasi nulla a che fare con
la verità”. I suoi piccoli rituali bucolici, il minuscolo taccuino da riempire
con “attenzione” e “accortezza” nel tentativo di “catturare qualcosa di lontano
e portarlo vicino” si risolvono in un tessuto impressionistico, a tratti
criptico, frammentario ed evanescente che però si conclude con una singolare
epifania: “Il destino ha voluto che seguissi un cammino molto lontano da quello
dei miei antenati, tuttavia i loro costumi sono anche i miei. E nei miei
viaggi, quando vedo una collina punteggiata di pecore o un bastone poggiato tra
le foglie di castagno, mi sento invadere dal desiderio di essere di nuovo ciò
che non sono mai stata”. Un fragile turning point che, da lì in poi, ha segnato
la sua vita e la sua percezione in modo indelebile.
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