sabato 30 luglio 2011
Hunter S. Thompson
giovedì 28 luglio 2011
Sherwood Anderson
Il romanzo perduto di Sherwood Anderson è una raccolta spicciola di storie, saggi e frammenti inediti che vertono in particolare sul rapporto con l’arte e in particolare dell’arte con la vita a formare un piccolo ma ottimo assaggio dell’autore di Winesburg, Ohio. L’avviso, peraltro messo in evidenza degli Appunti sul realismo, dice con molta chiarezza: “Nessuno sembra mai rendersi conto del atto che l’arte è l’arte. Non è la vita. La vita dell’immaginazione resterà sempre divisa da quella della realtà. Si nutre della vita reale, è vero, ma non coincide con la vita stessa, non potrà mai”. Un’avvertenza che avrebbe dovuto seguire il protagonista del romanzo perduto che non è di Sherwood Anderson, ma quello di uno scrittore inglese protagonista dell’omonimo racconto. Come un antico alchimista si dedica al suo libro giocandosi il posto di lavoro, i legami famigliari finché la scrittura lo travolge senza pietà. Succede perché, come scrive altrove Sherwood Anderson, “l’immaginazione deve nutrirsi continuamente perché la vita immaginativa possa continuare ad avere un significato”. Non è automatico che gli sforzi vengano ripagati e questo è senza dubbio una delle estremità a cui tende la letteratura, che Il romanzo perduto racconta con una punta di perfida e realistica ironia. Il suo autore prova un “dolce senso di soddisfazione per averlo fatto, quel qualcosa”, soltanto che rimane la sorpresa finale, messa lì in bella vista da Sherwood Anderson, non solo a siglare un racconto esemplare, ma anche a inaugurare la navigazione tra le onde della scrittura. Quasi a richiamare il fallimento, l’inconsistenza, la natura volubile, se non proprio volatile, della materia del romanzo perduto, con Noi, ragazzini delle arti e con Quando qualcosa ci sta a cuore Sherwood Anderson si addentra nei gangli più intimi della scrittura a partire dall’essenza primordiale dell’immaginazione: “L’equivoco nasce dal fatto che tutti, non solo gli artisti di mestiere, sono dotati di una certa fantasia. La sola differenza è che la gente comune ha paura di affidarsi alla propria immaginazione, mentre l’artista ci sguazza da mattina a sera”. La definizione è lungimirante perché la connessione tra talento e tempo è quasi una formula matematica, per quanto il risultato rappresenti sempre un’incognita. Ricorda Sherwood Anderson: “I nostri tentativi di scrivere e dipingere, il nostro sforzo, era solo parte di qualcosa che desideravamo: tutti noi eravamo convinti che i nostri sforzi sarebbero evaporati in niente”. La motivazione, che in fondo è anche il senso implicito di questa bella antologia, è tutta in quell’appello a scrittori e lettori che Sherwood Anderson chiama “una nuova responsabilità: perché non è forse il fatto stesso di prendersi a cuore la sorte di ciò che ci sta intorno a lasciarcene intuire la musica segreta? E così ogni volta che qualcosa ci sta davvero a cuore vibriamo noi stessi di bellezza e musica”. A corollario si trovano anche i suoi Appunti sul realismo e un Galateo per conversazioni con scrittori, ideale per affrontare un dialogo tanto improbabile quanto indispensabile.
martedì 26 luglio 2011
Gertrude Stein
lunedì 25 luglio 2011
William Carlos Williams
mercoledì 20 luglio 2011
Jenny Siler
martedì 19 luglio 2011
Kaye Gibbons
Il linguaggio è diretto, rustico, naturale: Maggie Barnes, la madre volubile e incontrollabile e Hattie, la figlia che è la protagonista di A occhi chiusi dialogano in un modo impossibile, eppure il confronto è serrato, continuo, martellante. Il quadro famigliare, con il padre che cerca con infinita pazienza di tenere insieme fili sfuggenti spinge Hattie ad accellerare i tempi e A occhi chiusi è la dolorosa ricostruzione di un’infanzia trascorsa accanto a una donna, una madre, intenzionata “a far parte dell’umiltà” nonostante la malattia, il disagio e la confusione. Hattie usa il ricordo come una leva per ritrovare qualcosa che le è sfuggito e per trovare un ordine a dimensioni troppo ingombranti. “Fui sottoposta a una tale valanga di idee e sensazioni insolite che avrei impiegato anni a scavare tra le macerie, stupita da quanto la vita mi stava mostrando, incerta su quanto si aspettava che custodissi” dice nel cuore di A occhi chiusi e si comprende il suo stupore. La dinamica dei rapporti è ondivaga e segue le tempeste emotive della madre che si trascina tra cupe depressioni e inarrestabili momenti di euforia. Il padre, per quanto stoico nelle sue sopportazioni, non può esserle d’aiuto più di quel tanto. Una delle spiegazioni all’improvvisa attività sessuale della madre arriva così, senza troppe perifrasi: “Devi sapere che uomini e donne si esercitano a fare bambini. C’è gente che non fa altro nella vita. A quanto pare, ultimamente tua madre ha una gran voglia di esercitarsi. Ma non preoccuparti prima o poi si fermerà a riprendere fiato”. La felicità, o anche solo una parvenza di serenità, è una chimera e in un continuo clima di conflitto Hattie impara a sopravvivere attraverso le parole. Un’iniziazione di cui lei stessa si accorge ben presto: “Già allora avevo la netta sensazione che in casa nostra avvenisse qualcosa di cui non ero al corrente. Conversazioni ed eventi mi passavano sopra la testa, e io trascorrevo il mio tempo a origliare la vita della casa”. A occhi chiusi è l’estremo possibile della sua scrittura, dove si incontrano i temi “southern” così come una raffinata evoluzione dello stile, in cui i dialoghi, figli di una radicata cultura orale, vengono definiti e impreziositi ma non edulcorati. Un aspetto che ha un riscontro autobiografico e sincero: in un’intervista Kaye Gibbons ricordava che nelle sue radici sudiste “c’è una tradizione oratoria molto radicata a tutti i livelli. Amiamo esprimerci in maniera colorita, folkloristica. Amiamo moltissimo le metafore. Cerco di dare alla mia scrittura e alla struttura dei romanzi un contenuto più denso, voglio mostrare un po’ più di quello che sta in profondità. Non sono brava a descrivere i paesaggi o le coreografie e sento che non lo sono nemmeno per le fisionomie. Così, quello che conta per me sono le motivazioni delle conversazioni. Per il resto, mi basta lasciare degli appunti, poi il lettore è libero di immaginarsi quello che vuole”. Soprattutto con A occhi chiusi, un romanzo da “sentire” più che leggere.
Christopher Dickey
lunedì 18 luglio 2011
Philip Dick
Per una ragione non meglio spiegata, ad un certo punto, intorno al 1986, il tempo ha cominciato a scorrere In senso inverso, proprio come recita il titolo di questo inquietante romanzo di Philip K. Dick. I morti risorgono, la gente vomita invece che mangiare, quindi dice merda al posto di cibo e viceversa, come è naturale e logico che sia in un contesto ribaltato: non è soltanto il tempo ad andare al contrario, ma tutta la vita. Nel 1998, anno in cui è ambientato In senso inverso, la Fase Hobart, il principio su cui si regge tutto il romanzo, giunge al culmine con la rinascita dell’Anarca Peak, un leader spirituale di colore dal carisma infinito. Attorno a questo evento si sviluppa in modo esponenziale l’intreccio di passioni, interessi, risvolti storici di In senso inverso. Non tutto però va al contrario: nella Los Angeles e nel mondo di In senso inverso la burocrazia, la sete di potere e le conseguenti lotte intestine alle istituzioni, una dilagante solitudine, persino una certa latente disinformazione (riassunta in un lapidario: “Tutto ciò che sappiamo lo leggiamo sui giornali”) appartengono di diritto alla realtà. Non che ci sia una qualche forma di condanna o una morale nello scorrere di In senso inverso, anche perché come scriveva lo stesso Philip Dick nel monumentale Mutazioni “lo scrittore non ha alcuna autorità morale; non più del pubblico, comunque, e spesso meno di questo. Quale morale può mai insegnare? Quel che può fare è presentare le proprie idee”. Scritto nello stesso periodo di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? a cui come è noto si è ispirato Ridley Scott per Blade Runner, In senso inverso di idee ne offre una valanga, a partire dai diversi e numerosi registri con cui Philip Dick incolla il lettore alle pagine fino all'atmosfera generale del romanzo, gotica e densa di riferimenti che diventano basi importanti per qualsiasi percezione del futuro, sia essa fantascientifica o meno. Non ha mai avuto la paura di confrontarsi con i problemi etici, filosofici o soltanto tecnici e razionali che lo sviluppo tecnologico impone ed anzi, alcune sue visioni hanno anticipato di diversi anni soluzioni scientifiche e catastrofi tecnologiche (con punte di vera e propria profezia, perché nel 1981 in Predizioni scriveva: “1985. Intorno a questa data, o prima, si verificherà un incidente nucleare di proporzioni gigantesche, in Urss o negli Stati Uniti, in seguito al quale verrano chiuse tutte le centrali nucleari” e almeno per quanto riguarda la prima parte della previsione ha centrato il bersaglio) e interpretando con ammirevole lungimiranza parecchi temi scottanti quali la manipolazione genetica o la clonazione, oggi di dominio pubblico. In senso inverso ne sfiora altrettanti e d’altra parte conferma che la scrittura permette di modificare il tempo. Come diceva Philip Dick (ancora in Mutazioni): “Quel che mi importa è scrivere, l’atto di produzione del romanzo, perché mentre lo sto compiendo, in quel momento particolare, vivo davvero nel mondo di cui sto scrivendo”. L’unico che conta.
Francis Scott Fitzgerald
giovedì 14 luglio 2011
Walter Mosley
Romanzo d’iniziazione torbido e feroce, Il viaggio è un curioso flashback nelle vite di Ezekiel Rawlins e Raymond Alexander. Nomi per esteso di Easy e Mouse che, come si sa, sono i suoi personaggi preferiti di Walter Mosley alla cui saga ha dedicato un bel po’ di romanzi. In particolare il primo, ma anche Mouse, un tizio che non ci mette un attimo ad infilare il coltello nella pancia di qualcuno e dare “una rimescolata alla minestra” come direbbe lui. Il problema è che si deve sposare (prima o poi capita) e per mettere insieme il gruzzolo necessario decide di partire verso la città del Texas di cui è originario. E’ il 1939, Easy lo segue e dopo un po’, come capita a gran parte dei viaggi americani, se non tutti, l’orizzonte si perde. Un po' perché il paesaggio non lascia scampo e Easy e Mouse si trovano davanti a pianure piatte e monotone, ma tutt’altro che aride. Come notano anche loro durante Il viaggio: “Dicono che questa zona è come un deserto, e hanno ragione, qualche volta. Ci sono strisce di terreno su cui non cresce quasi mai niente, ma anche qui le cose non sono così semplici. Il Texas contiene tutti i tipi di terra: argilla rossa, zolle grigie e fertile terriccio marrone, trasportato o lavorato con il sudore da poveri contadini che cercano di farci crescere qualcosa. Quella terra ti dà una sensazione di fiducia perché è così tanta e così diversa, e soprattutto, perché ha la pazienza di starsene lì e di non cercare mai un posto migliore”. Un po’ perché quando cominciano ad accorgersi che “la strada è piena di vipere” le variazioni sul percorso diventano frequenti e incontrollabili, in particolare modo quando gli ospiti indesiderati hanno le sembianze di fantasmi e ricordi che appaiono in continuazione. A volte, sotto la stesa ombra, specie dentro un blues: “Una volta Blind Lemon Jefferson suonava qui, più di quindici anni fa, ma mi ricordo quanto suonava bene come se fosse passata una settimana”. Citare il più spiritato e lancinante dei bluesman è impegnativo, però appropriato e non soltanto per la comune denominazione geografica. Sulle sue note Il viaggio diventa anche un pellegrinaggio nel tempo, verso il passato, dentro la miseria, quella che tutti i personaggi di Walter Mosley conoscono bene perché come si sente dire Easy “i poveri non hanno tempo di preoccuparsi delle raffinatezze, Ease; un disgraziato non può nemmeno guardarsi il culo perché basta che abbassi gli occhi un attimo ed è finita”. Il linguaggio, si sarà, capito è questo e Walter Mosley non fa altro che sbatterlo sulla pagina senza tante esitazioni, dandogli quel tanto di dignità necessaria a garantire l’esistenza dei suoi personaggi preferiti. E funziona perché con l'ombra della seconda guerra mondiale che incombe, Eazy e Mouse rotolano sulle strade, tra le paludi e i juke joint, sbagliando e riprovando e cercando di cogliere quella “piccolissima luce” che è la vita, come direbbe James Baldwin, non smettono un attimo di parlare, parlare, parlare. Il rap deve essere nato così.
mercoledì 13 luglio 2011
Richard Ford
domenica 10 luglio 2011
Washington Irving
C’era una volta New York è il risultato di un intreccio di vite, un quadro di Mondrian le cui perpendicolari e parallele sono tracciate dalle gesta di governatori e condottieri che rispondono al nome di Peter Stuyvesant, Wouter Van Twiller, William Kieft. Protagonisti in una città che era ancora un isola, fondatori di una nazione dentro la nazione, eppure anche le loro apparizioni sul territorio magnetico di New York sarebbero rimaste fugaci e imponderabili perché come scrive Washington Irving “per quanto possiamo avere grande opinione di noi stessi, e per quanto possiamo suscitare il vuoto plauso della massa, è certo che anche i migliori tra noi non riempiono in realtà che uno spazio minuscolo nel mondo, ed è ugualmente certo che anche quel piccolo spazio viene rapidamente occupato di nuovo non appena lo lasciamo vacante”. Se non fosse per lo storico che si ispira a Senofonte, Sallustio, Tucidide, Tacito e Livio l’oblìo avrebbe avuto la meglio e non a caso la stesura di Washington Irving è ridondante: un florilegio di arabeschi e di speculazioni filosofiche trascinato da una scrittura che ha il suono degli zoccoli dei cavalli sui ciottoli della Bowery. Un andamento insieme maestoso e ruspante con il tono del vociare della street life che offre un’articolazione alla storia eccessiva e fuorviante e non di meno fedele allo spirito dei tempi e dell’opera stessa. Anche lo stratagemma studiato da Washington Irving per la genesi di C’era una volta New York appartiene alle dimensioni caotiche della città: un manoscritto abbandonato in un albergo viene pubblicato giusto per ripianare i debiti di un ospite ormai fuggitivo. Non unico e non ultimo: anche nella prosa lussureggiante di Washington Irving gli elementi conflittuali di una città che è stata un avamposto (e un’avanguardia) vengono riportati nell’insieme ed evidenziati angolo dopo angolo. Sono le discendenze di New Amsterdam, le origini di Battery Park, le radici del nome di Manhattan gli highlights della ricostruzione “mitica” di Washington Irving dove New York diventa una terra di frontiera a cui lo storico alias il narratore, conferisce, non senza una certa furbizia, “un’antichità che risaliva fino alle regioni del dubbio e della favola”. La lezione di C’era una volta New York vale proprio per l’intenzione estrema che sembra coinvolto e assorbito soltanto soltanto dall’oggetto del desiderio metropolitano, ma è certo e convinto che tutti i miti hanno bisogno di essere raccontati per esistere. New York compresa perché “le città di per sé, e in effetti gli imperi di per sé, non sono nulla senza uno storico. E’ il narratore paziente che registra con gioia la loro prosperità quando nascono, che divulga ed elogia lo splendore del loro sommo apice, che puntella i loro pericolanti monumenti commemorativi quando si avviano verso la decadenza, che rimette insieme i loro frammenti sparsi quando marciscono, e che devono raccoglie infine le loro ceneri nel mausoleo della sua opera e innalza un trionfale monumento, è costui che trasmette la loro fama alla posterità”. Esagerato.
venerdì 8 luglio 2011
William Goldman
lunedì 4 luglio 2011
Don DeLillo
In anni di guerre lontane e senza fine, Elster ha elaborato teorie e speculazioni per il Pentagono perché “la guerra crea un mondo chiuso, e non soltanto per quelli che combattono, ma anche per quelli che tramano, gli strateghi. Solo che la loro guerra è fatta di acronimi, proiezioni, contingenze, metodologie”. Il suo lavoro è stato sviluppare una filosofia per creare modelli utili al pensiero militare, tra estrapolazioni metafisiche e haiku estemporanei. Jim Finley vuole filmarlo, una sola inquadratura, come una testimonianza, ispirato da 24 Hour Psycho, una videoistallazione di Douglas Gordon in cui il film di Alfred Hitchcock è stato rallentato per durare un giorno intero. L’idea è provare che “ci vuole un’attenzione estrema per vedere cosa succede davanti a te. Ci vuole impegno, pio sforzo, per vedere cosa stai guardando”, ma Elster è sfuggente e svanisce nelle strade di New York. L’incontro avviene soltanto nel deserto californiano, dove si è ritirato, perché “le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere il tempo dalla natura”. Portandosi dietro il suo bagaglio di delusioni e di rimpianti, Jim lo raggiunge e nella notte americana i due si cucinano frittate, bevono, fissano il cielo e parlano anche se entrambi sanno “la vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte, nessuno può farlo, mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo, percepiamo, persi nei ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici”. L’arrivo, e poi la repentina e irrisolta scomparsa della figlia di Elster, Jessie, scardina per sempre il fragile equilibrio e Don DeLillo, dentro una cornice e una situazione che ricorda moltissimo le prospettive di Sam Shepard, si muove con le conoscenze di uno scienziato e la cautela di un chirurgo: sa che nei rapporti e nei dialoghi dell’umana realtà “quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E’ questo che la letteratura vuole curare”. Punto omega è un taglio chirurgico che pulisce, ma non cura la ferita della percezione che resta pur sempre “un momento, un pensiero, che arriva e scompare, ognuno di noi, su una strada in un posto qualsiasi, e questo è tutto quanto”, e niente di più. In bilico tra un mondo digitale e il deserto preistorico, tra il rumore di fondo e il silenzio totale, tra una visione rallentata per la volontà di un artista e l’osservazione immobile imposta dalla natura, il Punto omega è un bivio desertico e notturno tra “il tempo che si sgretola” e “la coscienza che si accumula”: un luogo più immaginario che concreto, più naturale che costruito in cui Elster può rivelare a Jim l’esattezza della sua filosofia: “Abbiamo bisogno di sapere cose che gli altri non sanno. E’ quello che nessuno sa di te che ti permette di conoscerti”. Il limite del romanzo è implicito nella sua forma, nella prosa: per dire che che la realtà è l’alfa non l’omega, come ha fatto Wallace Stevens, serve la poesia e quello è un estremo a cui Don DeLillo non è ancora arrivato.