Raymond Euripides Trevitt o meglio Raymond se ne va in giro per la città prendendo a calci i suoi giorni e combinandone di ogni colore. Il padre è un professore universitario incapace di sollevare la testa dai libri e la madre, salvo il minimo sindacale di affetto, è altrettanto assente. Con questi presupposti, Raymond è il protagonista che si presenta alla vita e all’età adulta con un carico impossibile di contraddizioni ed è costretto a svolgere riti di passaggio crudeli e dai risvolti drammatici. Gli impulsi autodistruttivi sono all’ordine del giorno, come una strada obbligata, un percorso di guerra, una linea da superare che viene spostata sempre più in là. Chiamandosi Euripides vale la pena riassumere la sua storia con un frammento dell’illustre antenato: “Molti uomini, a causa del riso,
producono gioie illusorie: ma io
odio i buffoni che per mancanza dei saggi
hanno bocche senza freno, e non
vanno verso armonia d’uomini, ma nel riso degne case abitano, e dalle navigazioni giungono salvi a casa”. Raymond è proprio uno di loro e la sua storia viaggia sulle ali di un linguaggio spiccio e pratico e a metà strada, è il caso di dirlo, Io sono Raymond arranca e anche la scrittura sembra ripetersi con una certa stanchezza inseguendo le gesta di Ray e Zock, l’amico di una vita, e delle ragazze che tormentano. Poi è come se venisse varcato un limite e si apre una ferita, una frattura netta circoscritta da due eventi tragici. Nel primo, Zock alias Zachary Crowe, rimane ucciso in un incidente stradale in cui guidava lo stesso Euripides. Nel secondo la vittima è un suicida, un compagno d’armi, perché lui stesso a un certo punto pensa che l’esercito possa essere una soluzione con le sue regole, al disordine e al caos che la sua presenza riesce a generare. L’unico amico che trova è il figlio del comandante che che si fa esplodere una granata addosso facendogli guadagnare la classica ferita da un milione di dollari che lo rispedisce alla vita civile. Il segmento di romanzo compreso tra le due morti è una terra di nessuno che separa la vita dei figli da quella dei genitori ed è dove Raymond si accorge della distanza e della separazione: “Sono diventato ciò che sono, credo, anche grazie a loro o loro malgrado, che più o meno è la stessa cosa. E se non erano i genitori che avrei desiderato se avessi potuto scegliere, so che nemmeno io sono stato il figlio che loro avrebbero voluto. E così tutto si pareggia. In un mondo come questo, sarebbe insensato pretendere di più”. Essere giovani ed essere già vecchi: è come se Raymond fosse il romanzo, il dramma, come se non ci fosse altra storia, oltre alla sua, fino a quando non si rende conto che “non siamo ricordati per ciò che siamo, per i gesti che veramente più ci rappresentano, ma molto più spesso per piccole cose, per un evento fuori dall’ordinario, che ci proietta, anche solo per un minuto, oltre i recinti delle nostre esigenze”. Non è facile da capire ed è l’essenza della tragedia del crescere, per tutti, anche per chi si chiama Euripide.
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