mercoledì 17 dicembre 2025

Bob Dylan

Il regno delle ombre di Dylan contiene moltitudini e contraddizioni, contrasti e riflessi che si rimandano agli estremi senza soluzione di continuità, e fin qui non scopriamo nulla di nuovo. Quello riportato dalle 64 Lyrics, che è un po’ un’introduzione e un riassunto del sillabario di Bob Dylan, è un linguaggio in perenne formazione che si evolve mutando senza sosta, a partire da titolo. La numerologia che sottintende la scelta del 64 fa strani effetti. Pensiamo per un attimo alle canzoni del 1964, quelle scelte per quest’antologia e quelle rimaste fuori. Solo per quell’anno (per non parlare di quello dopo) bisognerebbe raddoppiare i volumi. È una delle tante, possibili e infinite deviazioni, ma è quella che può portarci dritto al centro del magma poetico di Dylan, un punto di partenza, visto che poi l’antologia copre tutta la carriera discografica con una cernita significativa e importante. Ogni canzone è un universo a parte e qui la selezione di Alessandro Carrera e Carlo Feltrinelli è una sorta di diagramma risolutivo che comincia a intravedersi soltanto collegando i punti, uno dopo l’altro. È un ritratto di Dylan con un senso panoramico, proprio di un’antologia, ma anche di un’attenzione maniacale ai dettagli, le rime, le metriche, e alle sfumature simboliche e metaforiche. È facile lasciarsi trasportare: le parole assumono posture differenti, colori prendono forma grazie alle libertà che si prende Dylan. La “voce”, intesa come espressione, è chiarissima anche nella pagina in bianco e nero. È un tourbillon di significati, un’avvolgente coltre linguistica come se qualcuno parlasse da una profondità sconosciuta con estrema naturalezza. La narrativa e l’invettiva si alternano e si completano a vicenda, basta pensare a Masters of War riletta oggi, più che mai aderente alla cupa realtà: “Voi che non avete mai fatto nient’altro se non fare per dopo distruggere, giocate col mondo che mio come fosse un giocattolo vostro. Mi mettete un’arma in mano e sparite alla mia vista, e quando volano il proiettili veloci vi siete riparati già lontano”. Le canzoni di Dylan, senza musica, senza voce, hanno un effetto straniante e sorprendente: assumono sembianze multiple e singolari nello stesso tempo. L’interpretazione e/o l’esegesi diventano una sfida complessa, figurarsi la traduzione. Penso ad All Along The Watchtower che, da Jimi Hendrix alla Dave Matthews Band, è diventata un tour de force senza fine per tutti e qui la ritroviamo nella sua scarna e misteriosa enunciazione. C’è qualcosa di apocalittico e rivelatore nelle canzoni di Dylan che emerge con maggiore decisione nella versione spogliata dai fuochi d’artificio della musica ed è, come scrive e canta in Scarlet Town, dove “tutte le forme umane appaiono in gloria”. Un traguardo che nel ventesimo secolo ha condiviso con Hemingway, Picasso, Hitchcock e pochi altri: il valore di un’antologia sta non solo nel ricordarlo, ma anche nell’evidenziare un laboratorio di idee linguistiche, le associazioni spontanee e quel flow inarrestabile, un flusso ininterrotto dove prende forma tutta una geografia, una storia e un’educazione in generale. Se c’è una destinazione è quella annunciata nel finale di Highlands: “C’è un modo di arrivarci, prima o poi lo troverò, ma col pensiero ci sono già arrivato, e per adesso va bene anche così”. Il carattere onnivoro delle vastità del background dylaniano è ben rappresentato dalle 64 Lyrics e se proprio serve un esempio, spicca quello di Murder Most Foul. Al 22 novembre 1963, Dylan ci arriva dopo Don DeLillo, James Ellroy, Stephen King e Lou Reed in The Day John Kenney Die e non c’è dubbio che i precedenti li conosca uno per uno, ma Murder Must Foul espande e condensa tutto un immaginario cominciato con Woody Guthrie e via via popolato da una folla multiforme composta dai Beatles, Blind Willie McTell, Charlie Patton, Wolfman Jack, Shakespeare ed Etta James, Oscar Peterson e Stan Getz, Ofelia e Robin Hood, Beethoven e Chopin, Charles Darwin e Neil Young, fino all’omaggio ai Rolling Stones in I Contain Multitudes, e chissà cosa ne avrebbe pensato Walt Whitman. Da tenere a portata di mano, Dylan una risposta ce l’ha sempre, anche se soffia ancora nel vento.

venerdì 12 dicembre 2025

Ian Frazier

In un momento speciale del suo “viaggio nelle praterie nordamericane” Ian Frazier ha un’epifania sulle note di When Doves Cry di Prince e urla, proprio in the middle of nowhere: “Avrebbe potuto funzionare”. Si riferisce alle parole d’ordine della terra dei liberi e della casa dei coraggiosi: democrazia, eguaglianza, libertà e, più di tutto, felicità. Il condizionale (obbligatorio) è un’ombra pesante che si estende lungo tutti I Grandi Piani come un sudario, mentre Ian Frazier si divide tra una scintilla di rimpianto (“Per un momento immaginavo il passato riscritto, guerre non combattute, i bisonti e gli indiani non distrutti, le praterie intatte”) e la realtà che non si può negare (“Non avremmo dovuto trasformare tutto in una disgraziata confusione, e il continente e noi stessi!”). Tra tanti diari di viaggio americani, I Grandi Piani rappresentano un luogo sintomatico dell’America e ne sono sintesi ed espressione geologica, antropologica e culturale. Tenendo ben presente che “l’America è come un’onda sonora che raggiunge la massima frequenza alle estremità, e la minima al centro”, per Ian Frazier I Grandi Piani “sono come uno schermo sul quale gli americani hanno proiettato i loro sogni per un certo periodo e poi se ne sono del tutto scordati”. Con notevole dimestichezza, riesce a raccontare tutto, compresi protagonisti  e leggende e che comprendono Bonnie e Clyde, Doc Holliday, Sitting Bull, Bob Wills & The Texas Playboys, John Brown, il generale Custer, Lewis e Clark e Woody Guthrie, proprio nel mezzo delle tempeste di sabbia. La figura più importante è quella di Crazy Horse: nella descrizione che ha affascinato anche Larry McMurtry, l’identificazione con i Grandi Piani sono dove sarà sempre libero ha dei fondamentali significativi perché “una volta, nell’immaginazione, l’America era talmente vasta da non avere confini. Dopo che gli europei vi si stabilirono e cominciarono a cambiarla, lavorandoci dalle coste all’interno, la sua vastità cominciò a diminuire nell’immaginazione”. Ian Frazier elabora impressioni e ricordi con poche frasi utili, sincopate: il tono è garbato, a tratti ironico, se non proprio scanzonato, ma quello che dice tocca l’intima profondità dell’America. Le “note di vagabondaggio” comprendono osservazioni naturali e scientifiche, istantanee e brevi documentazioni delle tappe, delle soste e di una visione dopo l’altra. Si tratta di orizzonti che sono soggetti a mutazioni imprevedibili, che capovolgono le condizioni vitali e, non bisogna dimenticarlo, “per la fantasia i Grandi Piani sono, sotto molti aspetti, il luogo perfetto. Sono così immensi che non è possibile sapere tutto quello che c’è da sapere e la fantasia non finisce mai”. Questa è un po’ la propensione di Ian Frazier che ha il tratto del viaggiatore libero ed esperto, che si lascia attirare da ogni occasione, osservando e vivendo tutti i dettagli delle trasformazioni del terreno, dai pascoli ai campi arati fino alle strutture sotterranee dei missili balistici Minuteman. La loro descrizione, a partire dal motivo per cui vengono dislocati in zone asciutte, è uno sfoggio di abilità ed eleganza narrative che Ian Frazier conclude definendo l’arsenale apocalittico come  “un inimmaginabile tesoro in armi seppellite sotto la terra da cui abbiamo tratto tanti tesori, armi per le quali le nostre migliori speranze sono che un giorno potremo farle a pezzi e gettarle via e per cui le altre nostre migliori speranze certamente sono che rimangano sotto la prateria, assorbendo timore e manutenzione, non usate per sempre”. Questo e altri passaggi conducono la via via a uno state of mind dove “la gioia sembra un prodotto della geografia, come i deserti provocano estasi mistiche e le brughiere inglesi tristezza. Una volta che la felicità invade questi spazi aperti non c’è nulla che possa fermarla”. Ecco, tra le bellezze selvagge e la loro predazione, dei luoghi come degli esseri umani, I Grandi Piani raccontano che ancora che “dopotutto c’era davvero qualcosa”. Sì, un grande spazio vuoto.

martedì 9 dicembre 2025

Grace Paley

Aveva capito benissimo Salman Rushdie quando diceva che quella di Grace Paley era “una voce determinata come non mai a chiamare le cose con il loro vero nome”. Con il raro dono della brevità, le frasi misurate verso per verso e costruite per sottrazione, parola dopo parola, secondo un’infinita sequenza ritmica dove spazi e punteggiatura vengono interpretati come parti del discorso, non meno di pause e silenzi, Grace Paley nomina quello che esiste lontano e vicino a lei, in città e oltre. New York è lo scenario, il labirinto, il campo da gioco, il terreno da attraversare, casa sua e una cassa di risonanza. Grace Paley ne ascolta echi e riverberi, suoni, frammenti e rumori che diventano poesia come spiega in La natura di questa città: “Le parole costano poco ma l’assortimento è vasto e ad assistere al dialetto c’è una regola per tutti e in ogni frase una grammatica perfetta”. I luoghi d’elezione sono numerosi, da Battery Park (protagonista in Alla Battery: “Sono ferma su un piede solo sulla prua della grande Manhattan mi sporgo in avanti mi proietto un poco nel porto lucente. Se solo un topografo in elicottero passasse sopra la mia ombra potrei rimanere impressa per sempre sulle mappe di questa città”) alla dimensione domestica, dove “l’ascoltatrice” sceglie l’ambito famigliare per esplorare le emozioni ed estrapolare una lingua composita e originale. La percezione di una realtà cosmopolita, con l’orecchio sensibile alle notizie che popolano l’aria, si adatta a origliare parti di conversazioni con lo specifico scopo dichiarato in Abitare: “Dove potremmo instaurare modelli di benessere e agiatezza in garbata crescita il che richiede ovviamente che la terra non salti in aria o venga irrimediabilmente avvelenata e che tu e io restiamo se non amanti almeno cordiali creatori di famiglia e continuità”. I ruoli si intrecciano e si sovrappongono: non c’è alcuna distanza tra i bambini e la madre, ogni aspettativa è una componente immaginifica che in Vita descrive così: “Certi si prefiggono imprese altri dicono fai come ti pare vivi e basta altri ancora dicono uh uh non ti scorderò mai evento della mia prima vita”. Le sequenze sono un continuo alternarsi tra dentro e fuori, interno ed esterno, lei e il resto del mondo, visibile e invisibile. In Domanda si  chiede: “Dato che il cuore è fatto per durare, perché non dura?”, per trovare in seguito una possibile risposta in Certi giorni: “Certi giorni non sono innamorata e il mio cuore gira a vuoto”. L’impasse è momentaneo, giusto il tempo di un respiro, perché “poi arriva lei, l’artista e racconta la storia delle storie” e Una poesia sul raccontare la ritrova “voltandosi indietro a guardare la bellezza”. Questi sbalzi sorprendono la stessa Grace Paley e in Parole ammette: “Cos’è successo? La lingua mi sfugge, le belle specifiche parole della mia vita vengono meno quando chiamo”. Con Grace Paley, le incombenze del poeta si snodano e si attorcigliano attorno alla sua identità che necessariamente deve essere doppia, se non proprio multipla, o moltitudine. Basta scorrere il lungo elenco di Responsabilità, dove sono allineate parecchie ipotesi, tutte valide: È responsabilità del poeta cantarlo in tutte le melodie originali e tradizionali dei poemi cantati e narrati. È responsabilità del poeta ascoltare le dicerie e farle girare così come i narratori decantano la storia della vita”. Il consiglio che spunta all’improvviso, ma non inaspettato, è “forse è solo che dovresti parlare più semplice”, perché come diceva, ancora, in Certi giorni: “Non serve poi molto, aria, buonsenso, energia un rumoroso prendere e un sonoro restituire”. Ammirevole.

martedì 2 dicembre 2025

Earl Thompson

C’è il tatuaggio e ci sono ferite che ti costringono a ricordare chi sei e da dove vieni. Non si possono cancellare ed è così che Earl Thompson non fa sconti: Tattoo è un romanzo pieno di dolore e di miseria umana che si trasmette come una malattia contagiosa. Ti si incolla addosso per osmosi con l’aura di Jack alias John Andersen, che è un loser come pochi. Il padre è in carcere, la madre anche, e lui vive con i nonni in una roulotte, tutto molto white trash. Jack è solo “il ragazzo” e come tale deve ancora scoprire e capire i risvolti della vita che verrà, comprese quelle pulsioni che non riesce a controllare. Tutti gli sforzi per integrarsi e/o per redimersi sono inutili anche se la sua idea, in fondo, è molto semplice ed essenziale: “Avrebbe voluto che tutti potessero essere trattati come gentiluomini. E basta con le stronzate sul fatto che quel diritto bisognava guadagnarselo”. La differenza è proprio lì e Jack, sognando l’eroismo, si arruola in marina per non consumarsi nel buco nero di Wichita, Kansas. La vita militare non è certo la soluzione migliore, ma per il suo limitatissimo background è la sola alternativa, e lo sarà per ben due volte nel corso di Tattoo. La seconda guerra mondiale sta finendo, è questione di giorni: Jack arriva in marina e si ritrova prigioniero della stessa feroce miscela di noia, sesso e violenza che Earl Thompson condensa nelle scene turpi di un’assurda battaglia tra commilitoni a base di resti di polli e dello stupro di gruppo di un’ufficiale ubriaca e priva di sensi. Il dispiegamento nell’oceano Pacifico a caccia degli ultimi soldati giapponesi che non si arrendono e in attesa degli sviluppi della rivoluzione cinese non cambia molto. Se per Jack “i libri erano diventati il suo stabilizzatore giroscopico” con la lettura di H. G. Wells, John Steinbeck, James M. Cain, Bret Harte ed Erskine Caldwell, la vera ossessione resta il sesso che lo spinge ad avventurarsi nei bordelli sulla costa. Earl Thompson non lascia nulla all’immaginazione del lettore, i dettagli sono degni di un voyeur, la scrittura, lineare e senza particolari sfumature,  segue un ritmo meccanico con insistenza maniacale che ha l’effetto di mettere in risalto la decadenza, il disorientamento e l’infinita tensione che aleggia intorno a Jack. Al ritorno, con il minimo prestigio guadagnato con l’uniforme della marina, prova a trovare una collocazione dignitosa e ci guadagna solo un turbinio di guai senza fine. La voglia di vivere e di emergere si scontra con i muri delle istituzioni, la famiglia, l’azienda, la chiesa, la scuola, le forze armate. Lo scontro è impari e faticoso e la vicenda opprimente e angosciante di Jack assorbe e condensa la storia americana dell’immediato dopoguerra, un clima di turbolenza con l’esplosione di un’idea di gioventù che deve trovare un posto tra porzioni di tran tran provinciale e grandi drammi mondiali. Per Jack non c’è una via d’uscita e dopo essersi bruciato ogni occasione, gli resta soltanto un’ultima spiaggia, l’esercito, e torna ad arruolarsi. Solo che c’è sempre una guerra americana dietro l’angolo, la disciplina e le gerarchie lo inchiodano a un grado infimo, e viene chiamato in Corea a comandare una formazione di carri armati, dove nel gelo e nel fango scompare ogni parvenza di umanità. Se Jack è l’antagonista di se stesso, Earl Thompson non segue altro schema e nemmeno una particolare costruzione della trama: Tattoo (nella traduzione di Tommaso Pincio) è un romanzo spietato che, con un suo peso specifico, racconta come le deviazioni americane, dalla feroce competitività quotidiana alla natura stessa dell’onnipresente complesso militare e industriale, sono il brodo di coltura ideale per lo sviluppo di un violenza che esplode da un momento all’altro. Sia un stupida rissa o un conflitto internazionale, non è una questione che si può spiegare o argomentare per vie semplici: i particolari, come i tatuaggi, non mentono ed è necessario affrontare una massa enorme di pagine (sono quasi ottocento) per rendersi conto che Tattoo è un’immersione inequivocabile in una realtà brutale.