Quella
di Charlie Crosby, pronipote del mercante ambulante di L’ultimo inverno, è una stagione all’inferno che segue
l’incapacità di elaborare il lutto per l’improvvisa perdita della figlia, Kate,
travolta da un’auto guidata dalla madre di tre figli. Fino ad allora, Charlie
Crosby è una specie di Chance, il giardiniere di Jerzy Kosinski, al quale
bastano il tagliaerba, la famiglia e le partite dei Red Sox per dare un senso
alla vita. L’indicibile dolore travolge senza pietà il suo bucolico tran tran e
si avviluppa in modo inestricabile al fatto che “ci sono sicuramente più
cittadini sotto i cinquemilaquattrocento acri di Enon che sopra di essi”. E’
proprio questo il primo punto sulla mappa del secondo capitolo dell’albero
genealogico dei Crosby (e dintorni). Abbandonato dalla moglie Susan, che,
davanti all’abulia del marito, ritorna alla solidità della sua famiglia
nordica, il calvario di Charlie è una forma di dissoluzione coltivata con
droghe (più o meno legali), alcol e solitudine. All’inizio la reazione è un
tentativo di trovare un minimo ordine, anche se tutto quello che riesce a dire
è che: “E’ una situazione strana, triste, e un po’ mi fa paura. Ma va tutto
bene”. Ben presto, una rapida involuzione lo trasforma in un elemento del
paesaggio di Enon,
una sorta di spirito notturno ondivago e caotico, riconosciuto il più delle
volte dalle anime più inquiete e gentili del villaggio. Il senso di Enon è in gran parte nella tolleranza locale
perché è negli elementi naturali e atmosferici che trova rifugio e Paul Harding
si conferma un anfitrione eccellente nel raccontare “tutta la luce, l’aria, la
terra e la gente di Enon, a partire dalla prima rotazione completa attorno al
sole; non solo, quindi, la sua breve e senza dubbio effimera carriera come
villaggio di coloni, ma anche i secoli in cui aveva fatto da casa ad anime ben
più originali e a un lungo tratto di foresta, o i millenni trascorsi sotto il
ghiaccio sul fondo di un oceano senza nome”. Enon (il villaggio e il romanzo stesso) è un
particolarissimo microcosmo, una specie di ecosistema in cui il tempo è una
variabile con un peso specifico non indifferente sulla sostanza dei legami,
delle leggende, delle storie e delle vite perché “il tempo è una forma di
misericordia”. Charlie Crosby lo proverà in prima persona mentre intraprenderà
la ripida discesa nel suo particolarissimo modello di autodistruzione e Paul
Harding riesce a mantenere sempre viva la tensione, pur concentrandosi in
pratica su un solo personaggio alla sbando e senza molto da dire. Lirico, bello
e doloroso, Enon è un
romanzo a senso unico, avvolto in un’aura metafisica ed eterea e allo stesso
tempo molto rozza e sporca nello svolgersi degli eventi. E’ quasi inevitabile
che non abbia sbocchi, compreso il prevedibile finale, perché il suo senso ultimo
è piuttosto da cercare in quella luce impalpabile, raffinata, crepuscolare,
eccentrica, molto New England, come un bizzarro quadro di Edward Hopper
illuminato da un’insegna al neon.
venerdì 30 maggio 2014
lunedì 26 maggio 2014
Charles Baxter
L’amore è una tavola imbandita che non trova
ospiti perché “in verità ci sono solo due realtà: quella della gente innamorata
o che si ama e quella di tutti gli altri che ne stanno fuori”. E’ il soggetto
di Festa d’amore,
il dipinto più rappresentativo di Bradley Smith, uno dei principali
protagonisti, il cui significato recondito, ma non troppo, aleggia su tutto il
romanzo. Chloé Barlow e Oscar Metzger, Harry ed Esther Ginsberg e poi Bradley
Smith e la geometria variabile delle sue relazioni, prima Kathryn, poi Diana e
infine Margaret, vivono tutti l’amore in modo diverso, cercando di comprenderlo
attraverso il sesso, la pazienza, il silenzio, la volontà, sempre sull’orlo del
fallimento visto che “non puoi dettare a te stesso ciò che vuoi. Una cosa o la
desideri o non la desideri”. Si rincorrono come se stessero circumnavigando
all’infinito lo stesso paio di isolati deviando soltanto in occasione degli
angoli, verso destinazioni impreviste. Il paesaggio è la realtà suburbana della
provincia che Charles Baxter dimostra di conoscere alla perfezione come un
Richard Ford un po’ acido, un Raymond Carver meno crudo, un John Cheever senza
whiskey, un Richard Yates più sereno. La forma colloquiale per raccontare la
sua Festa d’amore
si traduce in un modo molto lineare e pulito di impostare il linguaggio, mentre
il racconto segue traiettorie imprevedibili perché come dice Charles Baxter “mi
piace fare smarrire il lettore. La forma narrativa standard che va da un punto
A a un punto B non mi interessa”. Anche se i personaggi sono molto attinenti
alla realtà della storia, Festa d’amore si sviluppa circondato da un’aura
insonne come se fosse un sogno di una notte di mezza estate. Charles Baxter
porta i personaggi dentro spazi e sprazzi onirici, interpretati da pittoresche
figure femminili, in particolare la cartomante Maggaroulian e la signora
Watkins che vive nei boschi, circondata da bambini di gesso. Hanno sempre il
compito di imprimere alla storia una svolta o di indicare una breccia come dice
lo stesso Charles Baxter: “Spesso sono i pazzi a vedere la felicità e io sono
sempre più interessato ai matti, a quelli che, tolti gli ormeggi, riescono ad
avere visioni luminose sul futuro”. E’ per questo che Festa d’amore alterna la sua voce a
quella dei personaggi (Bradley Smith è il più costante) nel raccontare le
storie (d’amore) e non sempre è facile seguire il sottile filo che le unisce, che è
quello “della felicità e della possibilità o meno di esservi inclusi”. Forse la
felicità non coincide proprio con una Festa d’amore, ma almeno è
un’alternativa alla “triviale infelicità”, che Charles Baxter cerca di evitare
applicandosi con grande fervore alla sua principale occupazione: “Essere uno
scrittore ti fa vivere bene. Non c’è routine nel pensare all’idea di un libro.
Sarebbe come se una donna descrivesse la propria partecipazione a un parto. Il
giorno ideale per me è questo: svegliarsi, fare colazione, scrivere, pranzare,
passeggiare, schiacciare un pisolino, bere del vino, fare l’amore, dormire”.
Bel programma, sempre valido.
lunedì 19 maggio 2014
George Saunders
L’egoismo
è inutile racchiude l’Elogio
della gentilezza, il
discorso di George Saunders ai laureandi della Syracuse University l’11 maggio
2013, la parte più significativa tratta da L’uomo megafono e una bella intervista conclusiva.
L’assemblaggio, in apparenza, potrebbe ingannare perché anche nei diversi
formati, una lecture piuttosto che un saggio, l’orientamento di George Saunders
è sempre verso l’insolito, l’imprevisto, la deviazione di percorso. E’
esplicito nell’esortazione all’università (“Fate le cose che vi orientano verso
i grandi interrogativi, ed evitate quelle che vi svalutano e vi rendono
banali”) e lo è ancora di più quando riflette in termini generali (“Ciò che per
noi è reale nell’esperienza di tutti i giorni dovrebbe trovare posto anche nella
nostra visione filosofica, nel nostro pensiero personale, altrimenti, abbiamo a
che fare con un classico esempio di dissociazione”). In filigrana a L’egoismo
è inutile non è
difficile scovare i tratti fondamentali della scrittura e delle ossessioni di George
Saunders, in particolare la sua vocazione per il racconto in chiave critica e
polemica: “Le storie migliori nascono da una misteriosa spinta verso la ricerca
della verità, insita nel racconto che ha subito una revisione approfondita;
sono complesse, spiazzanti, ambigue; tendono a rallentarci anziché a
velocizzarci. Ci rendono più umili, ci fanno immedesimare con persone che non
conosciamo, perché ci aiutano a immaginarle, e quando riusciamo a
immaginarcele, perché la storia è raccontata bene, le vediamo sostanzialmente
simili a noi”. L’egoismo è inutile
è un minuscolo manuale di istruzioni che riassume in poche dozzine di pagine
alcune delle contraddizioni più laceranti dei nostri tempi perché “noi
consideriamo il linguaggio un prodotto del pensiero (facciamo un pensiero e poi
scegliamo una frase con cui esprimerlo), ma il pensiero è a sua volta un
prodotto del linguaggio (tentando, grazie alle parole, di trasmettere un
significato preciso, capiamo meglio ciò che pensiamo)”. E’ facile capire che
George Saunders vede giusto quando dice che “l’informazione deficiente ha un
costo, anche quando l’informazione deficiente viene data senza secondi fini. E
il costo dell’informazione deficiente è direttamente proporzionale
all’onnipresenza del messaggio”. E così non è difficile essere d’accordo con
George Saunders quando dice che abbiamo bisogno (un disperato bisogno) di
“piccole dosi di specificità”. Ci servono perché “la capacità di una cultura di
capire se stessa e il mondo è fondamentale per la sua sopravvivenza. Ma oggi
siamo guidati nell’arena del dibattito pubblico da veggenti che sanno
soprattutto tenerci incollati a guardarli”. E’ proprio questo, in fondo, il
senso dell’Elogio della gentilezza
e, volendo, lo spirito che alimenta i propositi della sua narrativa. Lo stesso
George Saunders lo conferma con
estrema chiarezza: “Ad ogni modo: il punto è che il nostro primo compito è
guardare la realtà e stabilire cosa è vero”. A volte, per cominciare, basta un piccolo libro.
martedì 13 maggio 2014
Louise Erdrich
Il
giorno dei colombi non è
un romanzo lineare. Segue piuttosto l’andamento di una sorta di spirale con le
storie che si avvicinano l’una all’altra più si va avanti. Onde che si
propagano secondo un ritmo netto, in rilievo, preciso, che tradisce la sua derivazione
dalla musica, così come la descrive la stessa Louise Erdrich: “La musica era
qualcosa in più della musica: almeno di quella che siamo abituati ad ascoltare.
La musica era vero e proprio sentimento. Il suono entrava immediatamente in
relazione con qualcosa di profondo e gioioso. Quei momenti straordinari di vera
conoscenza che dobbiamo mascherare con la vita quotidiana. La musica andava al
fondo dei nostri terrori. Cose che avevamo vissuto e non avremmo mai voluto
ripetere. Sbrindellate fantasie, desideri inconfessati, paure, ma anche piaceri
sorprendenti. No, non possiamo vivere così, fino a questo punto. Ma ogni tanto
qualcosa di spezza come il ghiaccio e noi piombiamo nel fiume della nostra
esistenza”. Sono le storie che tengono insieme la vita: sono il collante, sono
l’architettura, sono il territorio comune, l’humus fertile del linguaggio. Non
a caso è più che centrale la figura di Mooshum, lo storyteller che conserva la
memoria perché le storie hanno ripercussioni, si propagano all’infinito e infine
vivono di vita propria. Potrebbe essere un esercizio interessante, quello di
ricostruire l’impossibile albero genealogico che lega tutti i personaggi
attorno alla figura secolare di Mooshum, ma l’anagrafe (qui) è volubile proprio
come le traiettorie dei colombi. Pur nel fragile contesto delle riserve, Louise
Erdrich crea più contee in cui la storia e la vita quotidiana si accavallano,
s’intessono con le leggende che formano la parte vitale, l’anima vera e propria
del romanzo. Gli stessi personaggi si incastrano uno nell’altro come tanti
segmenti che via via si sommano e come una serie di accordi vanno a formare una
sinfonia. E’ questa la ricchezza del racconto: c’è posto per tutta la gamma
delle possibili azioni umane, dalla lotta per la pura e semplice sopravvivenza
nella lunga, intensa sequenza degli uomini imprigionati nella spedizione della
prateria alle colte letture del giudice Coutts, che è un esegeta di Marco
Aurelio. Anche Louise Erdrich sembra essersi essersi ispirata ai suoi Pensieri: “Guarda sotto la superficie: non
lasciarti sfuggire la qualità o il valore intrinseco delle cose”. C’è posto per
tutto, ironia compresa, perché Louise Erdrich ha questa straordinaria capacità
di conservare uno spunto di comicità anche nelle condizioni più drammatiche o
enigmatiche. C’è una lunga scena in cui due dei principali protagonisti,
Geraldine e Joseph, pescano una grossa tartaruga che merita da sola il prezzo
da pagare per Il giorno dei colombi.
Li ritroveremo entrambi in La casa tonda con cui Il giorno dei colombi s’inanella in modo spontaneo,
“camminando sull’aria”, formando una specie di flusso ipnotico: nelle sue
molteplici forme (simbolica, onirica, metaforica) è uno splendido tentativo di
mettere ordine nel caos della vita, e capita soltanto con la grande
letteratura.
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