L’antologia
di saggi raccolta in Se vi pare che questo mondo sia brutto è
una piccola porzione della percezione di Philip Dick, ma tocca e
approfondisce uno dei temi più sensibili, il rapporto tra l’umanità
e lo sviluppo tecnologico. I primi due capitoli, in particolare
L’androide e l’umano e la sua successiva propaggine, Uomo,
androide e macchina, che risalgono rispettivamente al 1972 e al
1976, rivolgono l’attenzione a quell’incognita che si manifesta
con “una qualità meccanica, riflessa”. Philip Dick è esplicito
nel manifestare i suoi dubbi davanti l’evoluzione a tappe forzate
del cosiddetto progresso perché “forse, in realtà, stiamo
assistendo a una graduale fusione della natura generale delle
attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di
ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui siamo circondati”. La
sa disanima dell’androide, che “come ogni altra macchina, deve
funzionare al momento giusto”, è acuta e decisiva. Philip Dick si
rende conto che “queste costruzioni non imitano gli umani: per
molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già umane”.
Questo sdoppiamento è un elemento politico stringente perché
“l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto,
prevedibilità”. Quello che mancava a George Orwell in
termini di dettagli specifici, si trova in Philip Dick, nelle forme
di un disappunto per sia aver sbagliato profezie (“Ecco l’orribile
società tecnologica, che era il nostro sogno, la nostra visione del
futuro. Non siamo riusciti a immaginare nulla di abbastanza potente,
astuto o altro, che potesse impedire l’avvento di quella terribile
società da incubo”) sia per averle enunciate fin troppo bene
(“L’ininterrotta preparazione della tirannia di stato, che nei
circoli fantascientifici, con la nostra insistenza sull’avvento
della società antiutopica, abbiamo previsto per il mondo di domani,
quest’aumento dell’invadenza dello stato nella vita privata
dell’individuo, questo voler sapere tutto sul conto della persona
e, una volta saputo, o convinti di essere venuti a sapere, qualcosa
che può costituire una minaccia per lo stato, questo potere di
annientare l’individuo; insomma, tutto questo processo, come
facilmente si comprende, si serve della tecnologia come strumento”).
Se vi pare che questo mondo sia brutto contiene molto altro:
un arguto ritratto dal vivo del romanziere e dei suoi compiti, nel
saggio omonimo del 1977 e da lì una gimkana attraverso le possibili
soluzioni della realtà “quella cosa che,
anche se si smette di credervi, non scompare”. Premesso che “il
mondo del futuro, per me, non è un luogo, bensì un evento. Una
costruzione, ma non di un autore che usi le parole per scrivere un
romanzo o un racconto davanti a cui si possa semplicemente sedersi e
mettersi a leggere; una costruzione in cui non vi siano autore e
lettori, bensì un gran numero di personaggi in cerca di una trama”,
Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni,
un brano scritto nel 1978 e aggiornato nel 1985 torna sull’invadenza
della tecnologia, con maggior attenzione alle sue applicazione negli
strumenti di comunicazione. Se, fra tutti, “la visione televisiva è
una specie di apprendimento in stato di sonno”, il rimedio secondo
Philip Dick è non smettere di domandarsi cosa è reale “perché
siamo incessantemente bombardati da pseudorealtà prodotte da gente
estremamente sofisticata che adopera dispositivi elettronici
altrettanto sofisticati. Non diffido dei loro moventi. Diffido del
loro potere. Ne hanno moltissimo. Diffido dello stupefacente potere
di creare universi, universi della mente”. Qui entra in scena
l’ultima parte, Cosmogonia e
cosmologia che nelle sue
elaborazioni filosofiche non fa che confermare che “l’assenza
di qualcosa di vivo” resta “l’aspetto orrorifico, la visione
apocalittica di un futuro da incubo”. Non siamo molto lontani.
lunedì 27 novembre 2017
giovedì 23 novembre 2017
Thomas Harris
Quando Hannibal Lecter, nel suo antro sotterraneo dove è rinchiuso senza futuro, dice a Clarice Starling che vive “la memoria al posto del panorama”, s’intravede la sottile filigrana che abbraccia tutto Il silenzio degli innocenti. Il susseguirsi delle scene è scandito da un ritmo preciso, che non sbaglia un colpo ed è dettato da tutta una serie di piccoli agganci e di rimandi nella trama, distribuiti da Thomas Harris senza risparmiarsi eppure con meticolosa accortezza. Tutto è incastrato proprio come il meccanismo di sparo di un’arma da fuoco: semplice, solido, micidiale, ineluttabile. Il silenzio degli innocenti è costruito nello stesso modo, a partire dalla triangolazione che unisce Hannibal Lecter, Jack Crawford e Clarice Starling che è l’architrave di uno schema preciso e reiterato. Tutto ruota attorno ad una serie di figure che si incastrano per le estremità. Clarice Starling, “remota e bella. Una ragazza che sembra un tramonto d’inverno” nella descrizione di Frederick Chilton, è l’elemento catalizzatore che mette in comunicazione linee diverse, le asseconda e, comprendendole, riesce a renderle intellegibili al lettore. Anche nel corso di una storia tutt’altro che semplice, come è Il silenzio degli innocenti. Jack Crawford, elegante e tormentato, acuto e concentrato distribuisce le carte ma è con Hannibal Lecter che Thomas Harris ha colto uno di quei personaggi destinati a pesare per sempre nell’immaginario. Inserita in una cornice ben delimitata, e senza sbavature, la scrittura resta lineare, senza particolari pretese stilistiche, accattivante, eppure Thomas Harris ha uno spiccato senso per il dettaglio, un modo coinvolgente di attirare il lettore e non mollarlo mai. Con molto mestiere, senza dubbio, ma anche con l’abilità raffinata nell’elencare le svolte fondamentali, nel renderli chiari, scegliendo dialogo per dialogo quali leve usare per svelare il passaggio successivo. Come spesso capita nel confronto tra Clarice Starling e Jack Crawford, in particolare quando le dice: “Mi dia retta: un delitto confonde già abbastanza le idee anche senza bisogno che le indagini mescolino le carte. Non si lasci mettere fuori strada da un’orda di poliziotti. Abbia fiducia nei suoi occhi. Ascolti se stessa. Mantenga il delitto ben separato da quanto succede intorno a lei. Non cerchi di imporre a quell’individuo uno schema o una simmetria. Conservi una mentalità aperta, e lasci che sia lui a rivelarsi”. La realizzazione è impeccabile e Thomas Harris alza il tiro perché non sembra importante chi sia il responsabile degli efferati omicidi, piuttosto l’intricato sottobosco di conflitti (psicologici, procedurali, politici) che sottintendono la ricerca dell’assassino e la sua cattura, e ancora di più “le indegnità subite dalla vittima, l’esposizione agli elementi e agli occhi di estranei suscitano collera, se il tuo lavoro ti permette di andare in collera”. Si capisce perché Hannibal Lecter sia sempre al centro dell’attenzione, un magnete malefico e perverso che, come si sa, nasconde, dietro un’affettata cortesia, un maniaco cannibale. Attorno a lui, Thomas Harris ha costruito un romanzo che nello stesso tempo è una sceneggiatura finita e pronta all’uso. Non a caso le differenze con la bella riduzione cinematografica di Jonathan Demme sono (per una volta) al minimo sindacale: la storia era già perfetta così.
lunedì 20 novembre 2017
Jack London
A
saldo delle inclinazioni ideologiche, Jack London si è sempre
schierato dalla parte degli ultimi, facendo notare che a generare la
spaccatura è “la mancanza del benessere che non è mai stato
creato”. Nell’assemblaggio di Il senso della vita (secondo
me), la prima parte ha il tono e il ruolo del pamphlet, anche se
Jack London ha ragioni da vendere quando dice che “con le risorse
naturali del mondo, le macchine inventate, una organizzazione
razionale della produzione e della distribuzione e una parimenti
razionale eliminazione dello spreco, i lavoratori sani di corpo non
dovrebbero lavorare più di due o tre ore al giorno per nutrirsi,
vestirsi, pagarsi un alloggio, istruirsi e concedersi una giusta
quantità di beni secondari. Non dovrebbero esistere più il bisogno
materiale e le condizioni disagiate, né bambini sfruttati, né
uomini, donne e bambini che vivono e muoiono come bestie. Non
dovrebbe essere solo la materia a essere padroneggiata, ma anche la
macchina”. Jack London è stato un precursore perché ancora una
decina d’anni dopo Lewis Mumford articolava lo stesso concetto
nella Storia dell’utopia: “Le macchine la cui produzione
era così grande da poter vestire tutti gli uomini e i nuovi metodi e
i nuovi strumenti in agricoltura che promettevano raccolti così
abbondanti da poterli nutrire tutti, proprio quegli strumenti che
dovevano fornire all’intera comunità i fondamenti concreti per una
vita felice, si trasformarono per la maggior parte della gente, che
non possedeva né capitali né terre, in qualcosa di molto simile
agli strumenti di tortura”. Su questo l’America narrata in Il
senso della vita (secondo me) collima con la definizione di Karl
Marx: “Un paese in cui lo sviluppo industriale sia più avanzato
che in altri presenta semplicemente a questi ultimi un’immagine del
loro futuro”. Più avvincenti i due racconti che, collegati tra
loro da un sottile filo rosso, compongono la seconda parte, Il
sogno di Debs e A sud dello Slot. Il sogno di Debs,
in particolare, ha una verve tutta sua: è crudo, realistico e
intenso. Racconta che “per un’intera generazione lo sciopero
generale era stato il sogno delle organizzazioni dei lavoratori”, e
quando si manifesta lo osserva dal punto di vita di un ricco
faccendiere che si ritrova, all’improvviso, a vivere senza servitù,
senza agi e senza le superflue abitudini: “Fu soltanto quando
arrivai al club nel pomeriggio che ebbi una prima sensazione di
allarme. Regnava una totale confusione. Non c’erano olive per i
cocktail, e il servizio era caotico”. Nel raccontare gli effetti
dello sciopero generale che trasforma San Francisco, Jack London
ribalta, con perfida ironia, gli schemi e il tratto è ancora più
incisivo in A sud dello Slot, a partire proprio dalla linea di
demarcazione che divide la città, ma anche le classi, è netta, per
quanto invisibile. Quando Freddie Drummond, professore e ricercatore
universitario, diventa Bill Totts, per capire come si vive davvero A
sud dello Slot, si sdoppia in un’impossibile schizofrenia. Bill
Totts alias Freddie Drummond si troverà a dover scegliere da quale
parte stare, e la scelta avverrà ancora nel corso di uno sciopero.
Un racconto che è complementare e contiguo a Il sogno di Debs,
e per tornare a Il senso della vita (secondo me), lo è anche
al richiamo che “un semplice capriccio dello spirito non può far
nascere una rivoluzione mondiale”. Su questo non c’è dubbio.
mercoledì 15 novembre 2017
James Ellroy
Los
Angeles è Hollywood e le fotografie sulla scena del crimine hanno
l’atmosfera del cinema noir. Lo scambio è inevitabile, l’osmosi
continua, e figurarsi se questo James Ellroy non lo sa, anzi lo sa e
lo spiega benissimo: “Perché le foto dei morti nelle scene del
crimine sono così belle? Perché sono sempre di qualcun altro, ed è
improbabile che noi finiamo stecchiti davanti a un albergo a
ore della East 5th Street. Perché l’accumulo di particolari da
film suggerisce un mondo che è insieme simile e distante dal nostro.
Perché il subconscio è intorpidito da immagini sepolte e frammenti
sinaptici che riemergono dalla memoria razziale e la nostra vita va a
finire nel gorgo di quello spiritus mundi in perpetua
evoluzione che chiamiamo storia, e toccare i confini della vita
orrifica di allora vuol dire affermare il nostro transito
terreno ora, nonché riaffermare entrambi come luminosamente
unici e piattamente banali, perché alla fine siamo tutti uniti come
un solo essere con un’anima sola, e alla fine l’arte è
l’elemento che permette la fusione di vivi e morti, uniti e
riconciliati”. Le immagini inchiodano il momento senza possibilità
di errori o divagazioni. Il rigoroso bianco e nero delle fotografie
coglie qualcosa in più delle due dimensioni, nell’ottica di James
Ellroy che sottolinea a ripetizione “il gesto ambiguo, l’effimera
corrente sotterranea, la consapevolezza pervasiva del fatto che il
gioco è truccato”. Mostrano una Los Angeles di “allora” che è
il seme per quella di “adesso”. E’ un refrain che torna spesso
nei commenti e nelle didascalie di James Ellroy, come se le
fotografie fossero la connessione tra due città nel tempo, quella di
allora con una sua cruda, spietata e distorta eleganza e
quella di adesso, che non esiste. Una Los Angeles che è
sparita e che rimane nella memoria dato che, come spiega Glynn
Martin, “il crimine possiede, per sua natura, una sorta di
continuità immune al passare del tempo”. La Los Angeles di allora
ha ancora un volto umano, persino nella disperazione. Anche se il
vero motto del dipartimento guidato da William Parker era “reprimere
e sopprimere”, che è un po’ diverso da “proteggere e servire”,
la polizia, piaccia o meno, non girava armata come un esercito in
assetto da combattimento. Ci sono smorfie e sguardi molto perplessi
davanti alle posizioni scomposte dei cadaveri di un’omicidio o di
un suicidio. Le foto hanno una dignità geometrica. Sembrerà strano,
ma c’è quasi compassione, più che “disprezzo” e tutto è più
modesto e accurato. Le forme appaiono eleganti: le automobili sono
tutte curve e imbottiture, le strade sono più larghe, libere e
pulite, luoghi che sono stati set cinematografici prima di diventare
scene del crimine, e viceversa. La commistione tra fiction e realtà
è elevata a regola quotidiana. In più c’è un elemento di
nostalgia, nemmeno troppo velato, nei commenti di James Ellroy:
questi sono i suoi luoghi oscuri in una luce diversa, e i continui
richiami a Perfidia, American Tabloid e Dalia Nera
sono riferimenti naturali e spontanei per gli adepti di Los Angeles.
Non si può veramente andarsene, è la città in cui vai “in
vacanza, e torni a casa in libertà vigilata”. Un potere ipnotico
che vale per la prosa di James Ellroy che è inseparabile da Los
Angeles e volutamente volgare. Se per l’occasione cita con rispetto
Saul Bellow e Don DeLillo, le sue fonti di ispirazione sono sempre
quelle sul campo: i “ragazzi del coro” di Joseph Wambaugh, Lenny
Bruce, Charlie Parker e John Coltrane in un buco fumoso e Dexter
Gordon che suona il sassofono in galera. Il film non finisce mai.
mercoledì 8 novembre 2017
Lewis Mumford
Per
trent’anni Lewis Mumford tenne sul New
Yorker la rubrica The Sky Line,
nella quale affrontava, di volta in volta, i principali cambiamenti
architettonici (e non solo) di New York. Da una prospettiva singolare
e pungente, già annunciata nel primo dei due racconti autobiografici
che costituiscono l’apertura di Passeggiando
per New York, a tutti gli effetti una
raccolta antologica delle sue Sky Lines:
“Karl Marx definiva la mia classe d’origine piccola borghesia.
Col che egli non la considerava tanto una classe, come del resto
neanch’io, ma quella era l’angolatura da cui vedevo New York. E
ciò mi consentiva una visuale ben più ampia di quanto voi o Marx
potreste pensare”. Alla sua penna caustica non sfugge nulla, che si
tratti del Rockfeller Center, del Radio City Music Hall, dei docks o
degli slums, con accenti polemici che non si piegano davanti a niente
e nessuno, sindaco e autorità varie comprese. La visuale di Lewis
Mumford non si accontenta di esprimere un parere estetico, che
comunque avrebbe già un suo valore. Quando guarda uno dei simboli
delle architetture di New York, lo sviluppo verticale dei
grattacieli, cresce in parallelo un senso critico che non concede
alcun spazio all’ambiguità: “In altre parole, l’alto
grattacielo è il trastullo dell’uomo d’affari, il suo
giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chiama
alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il romantico
disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine
che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle
fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa
sentire fiorente anche quando è la causa delle sue perdite di
denaro. Nell’interesse della congestione, l’uomo d’affari è
disposto a rendere le strade intransitabili, a perdere migliaia di
dollari al giorno in spostamenti a vuoto e in ritardi, a sprecare
milioni nella costruzione di più metropolitane per promuovere più
congestione, e in generale a far fronte a ogni tipo di seccatura,
fintanto che può nutrire il suo iperbolico sogno romantico”. Fin
troppo eloquente: non si tratta quindi soltanto di Scritti
sull’architettura della città, come dice
il sottotitolo di Passeggiando per New York,
ma di un modo di affrontare la realtà, partendo dal basso,
camminando nelle strade e coltivando l’arte, il gusto e lo spirito
d’osservazione per cogliere i cambiamenti fondamentali di una città
e della sua vita. L’ottica riflette la metropoli e ne coglie gli
aspetti più importanti: “Non mi è mai piaciuta l’espressione
stile internazionale riferita alla forma moderna, poiché mi è
sempre parsa implicare una uniformità e una esteriorità, prive di
colore o di variazioni regionali, tuttavia; le fonti della migliore
forma moderna sono davvero internazionali. Il punto è che più
numerose sono le fonti utilizzate, maggiori sono le probabilità di
trovare proprio quelle combinazioni che si intonano squisitamente
alle circostanze locali. L’ultimo modo per realizzare un vero stile
regionale è quello di praticare l’isolamento culturale”. Non
manca l’entusiasmo per l’architettura moderna, per il design
innovativo, ma il più delle volte Lewis Mumford è spietato, e
altrettanto ironico, nel ricordare, dietro ogni spigolo di New York,
che “il caos non ha bisogno di essere progettato”.
domenica 5 novembre 2017
Barry Hannah
Barry
Hannah continua a essere un oggetto non ben identificato nei corsi e
ricorsi della letteratura americana. Basta inoltrarsi in Mezzanotte
e non sono ancora famoso per accorgersi quanto scomoda e
spigolosa sia ancora oggi la sua narrativa: non è politically
correct, non è né accomodante, né consolatoria, meno che mai
riflessiva o indulgente. Il senso dell’umorismo, indispensabile
anche per chi legge, è tagliente, il tono abrasivo, i bersagli
dichiarati senza tanti patemi, e nessuna esitazione. Un tratto
anarcoide che, con gran gusto e disgusto, prende di mira ogni forma
di istituzione, a partire da quella più celebrata, la famiglia. Una
parte rilevante dei racconti di Mezzanotte e non sono ancora
famoso mette in mostra coppie più o meno disintegrate, avventure
impossibili e matrimoni in cui molte cose che non vanno. Succede in
modi e casi diversi con La nostra casa segreta, Amare
troppo a lungo, Moglie e amici a pranzo, Sorda e muta
o (è chiaro fin dal titolo) in Osservate l’estremo strazio del
marito. Quando Barry Hannah li lascia trasportare, l’eccesso è
inevitabile, come succede nelle due pagine urticanti di Pete
resiste all’uomo della sua vecchia stanza, nel caotico Venir
vicino a Donna, e ancora di più nell’irriverente E’
proprio vero, con lo psicologo Lardner, che raccoglie (e
commenta) le registrazioni dei suoi pazienti, annotando a margine che
ormai “le grandi domande sembrano averci risparmiato”. Barry
Hannah non concede nulla nemmeno agli agli eroi: dall’attualità
del conflitto in Vietnam (la raccolta risale al 1978) riportata in
Testimonianza di un pilota e nell’apoteosi di Mezzanotte
e non sono ancora famoso, ai “southern accents” della guerra
di secessione in Strappato a forza dalla tomba e Quo vadis,
sporcaccione?, i toni grotteschi celebrano in una luce acida le
gesta belliche, che poi, nel trionfo comico e brutale di Sapevo
che non era il tipo per me, eppure l’ho seguito vengono
riassunte così: “Siamo solo dei predoni e dei maniaci: lo capisco
dalla luce che guizza nello sguardo degli uomini. Tutti stanno
diventando sempre più pazzi pere la semplice pazzia d’esser troppo
lontani da casa per farvi decentemente ritorno”. In realtà tutti i
protagonisti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono
comunque fuori posto: hanno sempre qualcosa da nascondere, una
menomazione, un difetto, una lacuna, che spesso determinano una
svolta nelle singole storie. C’è soprattutto l’imprevedibile,
che è il dato caratteristico di Barry Hannah, lo sbalzo, la nota
stridente: un racconto non finisce mai come comincia, la sorpresa è
dietro ogni angolo, e, per quanto brillante, l’urto scomodo tocca
tutti i partecipanti. Nessuna compassione, nessun rimpianto: i
racconti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono collegati
uno all’altro da minuscoli riferimenti, un nome, un’ossessione,
un tema ricorrente, ma soprattutto dall’infausto destino che
associa i protagonisti. Un’unica elegia, a suo modo significativa,
s’intravede in Tutti quei vecchi volti intenti lungo la
ringhiera, dove un manipolo di anziani che osserva Oliver
manovrare la sua barca con a bordo la ragazza “come a Pearl Harbour
nel 1941” commentano dal molo, e con uno scampolo di saggezza: “Qui
siamo tutti abbastanza vecchi da capire che fine faranno gli
sciocchi”. E’ un messaggio che Barry Hannah scrive con
l’inchiostro simpatico, da usare con le dovute precauzioni.
giovedì 2 novembre 2017
Wallace Stevens
Harmonium
è uno snodo fondamentale della poesia di Wallace Stevens, una
raccolta che ripercorre e ricompone in un’unica, voluminosa
panoramica gran parte della sua poesia, e della sua idea di poesia
che, come scriveva in Trasporto della
vita, nasce dalla consapevolezza
“che viviamo in un luogo non nostro, e che non siamo noi”. Un
modo sfuggente per introdurre l’identificazione totale con la
poesia come mondo, non una variazione o una creazione
dell’immaginazione, ma proprio come un altro mondo, “come icona”,
che sta per immagine, visione, una dimensione che apre un varco dove
“l’assurdo della vita ci balena in strani vincoli”. Il dilemma
tra le porte spalancate dalla “finzione suprema” e “il senso
ordinario delle cose” è il cuore pulsante, che divide e unisce,
che intreccia e scioglie ciò che è sufficiente, e ciò che non lo
è. L’appello di Wallace Stevens è sempre mascherato dato che,
come scriveva in Uomo che porta un
oggetto, “la poesia deve resistere
all’intelligenza quasi con successo”, ma almeno in un caso
diventa esplicito. Succede con Sfumature
di un tema Williams: “Non
partecipare ad alcuna umanità che ti soffonda della propria luce.
Non essere chimera del mattino, mezzo uomo, mezza stella”. Sono le
“metafore di un magnifico”, come avverte il titolo di un altro
componimento, e diffondono i segnali verso l’ignoto, l’invisibile,
l’infinito. Una direzione che Wallace Stevens ribadisce in Dicendo
addio, addio, addio (“”In un
mondo senza un paradiso a seguire, le soste sarebbero conclusioni,
più commosse di addii, più profonde, e ciò sarebbe dire addio,
ripetere addio, solo essere lì e solo guardare), in Il
sublime americano (“Ci si abitua
al tempo, al passaggio e al resto; se il sublime si riduce allo
spirito stesso, spirito e spazio, lo spirito vuoto, nello spazio
vacuo. Che vino si beve? Che pane si mangia?”) e, a maggior
ragione, con Té al palazzo di Hoon
dove afferma: “Ero il mondo in cui camminavo, e quel che vedevo
udivo o sentivo veniva da me solo; qui mi ritrovavo più vero, più
strano”. La stranezza, l’eccentricità e l’originalità sono
avvinghiate in cerca di un senso e Harmonium
è la più solida dimostrazione di come “una poesia non è
necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle
cose in natura, spesso non ne ha”. E’ l’essenza in sé dei
fenomeni di Wallace Stevens che, come “l’ascoltatore” in L’uomo
di neve, “che ascolta nella neve e
nulla in sé, vede nulla che non sia lì, e il nulla che è”,
osserva sospeso tra prima e dopo, tra apparente e invisibile e tra
creazione e costruzione. Il contrasto, paradossale a prima vista,
riappare anche in Fosforo legge alla
sua stessa luce (“Guarda,
realista, senza sapere cosa ti aspetti”) e ancora in Veleggiando
dopo pranzo: (“Non è affatto quel
che si vede”). Nel celebrare e identificare la poesia di Wallace
Stevens, Harmonium
è fatto di vette e abissi che lo stesso poeta ha voluto spiegare
così: “Non solo i bambini vivono in un mondo d’immaginazione.
Tutti lo facciamo. ma dopo avervi vissuto nella misura che vi vive un
poeta, il desiderio di tornare al mondo quotidiano diviene tanto
acuto che ci strappa dal mondo immaginativo nel modo più deciso. Un
altro modo di dire questo è che dopo aver scritto una poesia è bene
fare un giro dell’isolato, dopo troppa mezzanotte è piacevole
udire il lattaio, ed è qui il senso della poesia, il mondo
immaginativo è dopo tutto il solo mondo reale”. Convincente.
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