Per
trent’anni Lewis Mumford tenne sul New
Yorker la rubrica The Sky Line,
nella quale affrontava, di volta in volta, i principali cambiamenti
architettonici (e non solo) di New York. Da una prospettiva singolare
e pungente, già annunciata nel primo dei due racconti autobiografici
che costituiscono l’apertura di Passeggiando
per New York, a tutti gli effetti una
raccolta antologica delle sue Sky Lines:
“Karl Marx definiva la mia classe d’origine piccola borghesia.
Col che egli non la considerava tanto una classe, come del resto
neanch’io, ma quella era l’angolatura da cui vedevo New York. E
ciò mi consentiva una visuale ben più ampia di quanto voi o Marx
potreste pensare”. Alla sua penna caustica non sfugge nulla, che si
tratti del Rockfeller Center, del Radio City Music Hall, dei docks o
degli slums, con accenti polemici che non si piegano davanti a niente
e nessuno, sindaco e autorità varie comprese. La visuale di Lewis
Mumford non si accontenta di esprimere un parere estetico, che
comunque avrebbe già un suo valore. Quando guarda uno dei simboli
delle architetture di New York, lo sviluppo verticale dei
grattacieli, cresce in parallelo un senso critico che non concede
alcun spazio all’ambiguità: “In altre parole, l’alto
grattacielo è il trastullo dell’uomo d’affari, il suo
giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chiama
alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il romantico
disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine
che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle
fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa
sentire fiorente anche quando è la causa delle sue perdite di
denaro. Nell’interesse della congestione, l’uomo d’affari è
disposto a rendere le strade intransitabili, a perdere migliaia di
dollari al giorno in spostamenti a vuoto e in ritardi, a sprecare
milioni nella costruzione di più metropolitane per promuovere più
congestione, e in generale a far fronte a ogni tipo di seccatura,
fintanto che può nutrire il suo iperbolico sogno romantico”. Fin
troppo eloquente: non si tratta quindi soltanto di Scritti
sull’architettura della città, come dice
il sottotitolo di Passeggiando per New York,
ma di un modo di affrontare la realtà, partendo dal basso,
camminando nelle strade e coltivando l’arte, il gusto e lo spirito
d’osservazione per cogliere i cambiamenti fondamentali di una città
e della sua vita. L’ottica riflette la metropoli e ne coglie gli
aspetti più importanti: “Non mi è mai piaciuta l’espressione
stile internazionale riferita alla forma moderna, poiché mi è
sempre parsa implicare una uniformità e una esteriorità, prive di
colore o di variazioni regionali, tuttavia; le fonti della migliore
forma moderna sono davvero internazionali. Il punto è che più
numerose sono le fonti utilizzate, maggiori sono le probabilità di
trovare proprio quelle combinazioni che si intonano squisitamente
alle circostanze locali. L’ultimo modo per realizzare un vero stile
regionale è quello di praticare l’isolamento culturale”. Non
manca l’entusiasmo per l’architettura moderna, per il design
innovativo, ma il più delle volte Lewis Mumford è spietato, e
altrettanto ironico, nel ricordare, dietro ogni spigolo di New York,
che “il caos non ha bisogno di essere progettato”.
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