Affrontando
con coraggio “il flusso della storia interrotto da catastrofi”
(va ricordato che Americus risale al 2004), Lawrence
Ferlinghetti celebra, una volta di più, la capacità della poesia di
promuovere “una mediazione fra noi e la realtà di ogni giorno”.
Ferlinghetti non sono percepisce quanto ne abbiamo bisogno
(parecchio), ma individua anche un ideale collocazione, dove la
poesia può funzionare da salutare raccordo perché “la nostra
memoria saccheggia il passato per fare il presente, sogna attraverso
i secoli, baratta il tempo con il tempo dei verbi, mentre la
cinepresa-occhio-segreto-della-mente rallegra e preoccupa il genere
umano (poiché la pallida agenda del pensiero ci rende tutti
codardi)”. La lucidità di questa premessa è più che sufficiente
a capire la volontà di Americus nel rendere omaggio a Charles
Olson (Maximus è una delle principali fonti d’ispirazione
per il titolo), William Carlos Williams (Paterson, in
particolare), Ezra Pound, Mark Twain, Gertrude Stein, Thomas Wolfe.
Sapendo che ciascuno è “un palinsesto del passato di tutti”, le
citazioni sanno essere implicite ed esplicite, persino allegre
quando Ferlinghetti dice che Omero è un rapper e Walt Whitman un
soulman. I continui richiami all’espressione artistica, in
generale, e a quella poetica nello specifico, riconducono comunque
alle origini, alla storia e alla colonizzazione di un continente,
l’America, vista come “il più grande esperimento terrestre con
la più grande chance di creare un essere umano più alto, un’anima
o animo incondizionati, gambe storte e sesso incerto, un tipo strambo
sulla punta avanzata della civiltà, viso pallido o mestizo a
suo agio sui due continenti d’America prodotto da molte culture e
calamità”. Dato che la poesia “serve molti padroni, non tutti
santi”, la riflessione tende a spostarsi, con un piglio maturo e
lirico, dal piano pubblico, verso un tono più personale e
crepuscolare visto che “la vita continua a rotolare” e la memoria
è “una spola fra passato e presente un treno dai finestrini
sbarrati con gli specchi spaccati”. Il refrain del tempo e della
storia ritorna come il tema in una suite jazzistica, eppure, anche
nel formato ridotto ed essenziale, Americus contiene molto
dell’idea di poesia di Lawrence Ferlinghetti, e nella sua parte
centrale elenca i tratti, le virtù, le necessità e la natura di una
scrittura la cui “funzione è smascherare con luce radiosa” e che
“appaga un bisogno e ricompone la vita”. L’incrollabile
esuberanza, nutrita da fame e passione, lo porta a decantare
quella poesia che “in quanto lingua originaria venne prima della
scrittura e ancora risuona in noi, musica muta, musica incompiuta”
e con ciò ammirando di nuovo & per sempre la primordiale unità
tra musica e poesia, Ferlinghetti si erge tra i “propagatori di
epopee velleitarie” e si fa accompagnare da Dante e Platone,
Virgilio e Socrate, Cervantes e Thoreau, Dario Fo e Jack Kerouac. Una
compagnia di ineguagliabili ciceroni che in Americus trova la
sua strada, dove la creatività è sempre in agguato, mentre la
poesia si snocciola in un flusso esotico, brillante e contagioso.
sabato 30 dicembre 2017
giovedì 28 dicembre 2017
Patti Smith
Un
ritratto dell’artista giovane con più cose da dire che strumenti
per dirle: Babel condensa il periodo più importante di Patti
Smith, quello che va dal 1974 al 1978, quando il suo grido di
battaglia era, come scriveva in Neo Boy: “Tutto è merda. La
parola arte deve essere ridefinita. Questa è l’età nella quale
ognuno crea”. Babel risolve l’incognita fecale con una
gamma impropria di soluzioni: gran parte delle canzoni confluite in
Radio Ethiopia ed Easter, frammenti di prosa, appunti,
poesie, stralci di un diario e di un epistolario che sono ancora un
work in progress. Sono tempi vorticosi e travolgenti e Babel
ne è l’immagine fedele, un riflesso naturale e spontaneo con tutto
il disordine e il caos di un’alluvione di parole in cerca di un
casa, ancora indisciplinate, non assoggettate, nemmeno uniformi. Un
canovaccio che raccoglie l’energia e l’entusiasmo da cui poi
Patti Smith ha attinto proiettando la sua scrittura su forme più
organiche, limate e adeguate alle riflessioni della maturità ma che
in Babel erompe nella certezza che “il potere della bellezza
viene sottovalutato”. Nell’irruenza dei vent’anni, Patti Smith
mette in mostra con forza sogni e visioni ricorrenti, lo slang delle
strade di New York e quell’anelito disperato per l’espressione
artistica in ogni sua variante che l’ha sempre distinta. “Il
montaggio di esperienze” richiama gli eroi e i punti di riferimento
che resteranno inamovibili: Rimbaud, Genet, Brancusi, Bresson, Caruso
(“L’opera è verità e Caruso la regina”), Pasolini (“Vittima
dei fascisti e di marchettari e della purezza della sua arte”), per
affermare con convinzione che “siamo tutti figli di Jackson
Pollock”. Sono colonne portanti dell’ambizioso impianto di Babel
che si ritroveranno spesso più in là negli omaggi di Patti Smith
perché “noi viviamo per un periodo di tempo lunghissimo nella
nostra immaginazione”, e quella è la materia di cui ci nutriamo.
Lo stile, la forma in sé, risente da una parte di un convitato di
pietra che aleggia su ogni pagina, dove tagli e cuciture riportano a
William Burroughs, e dall’altra dalla sanguigna urgenza di Patti
Smith che lancia segnali inequivocabili: “Ho voglia di muovermi
subito, di innamorarmi”. L’anima e l’adrenalina di Babel
sono quell’irruenza che poi è sfumata con il suo ritiro dalle
scene, la grande bandiera americana che adornava il palco ripiegata
un’ultima volta, le chitarre riposte, una famiglia a cui dedicare
il futuro. Nell’immediato di Babel c’è il rock’n’roll
che “come la scultura, è il corpo solido di un sogno. E’
un’equazione di volontà e visione”. All’appello rispondono
l’onnipresente Dylan (e i suoi animali), il Patti Smith Group, Tom
Verlaine, i Blue Öyster Cult che riprenderanno Fire Of Unknown
Origin, Little Richard e Mick Jagger, o meglio tutto l’universo
irraggiungibile dei Rolling Stones con la rilettura di Sister
Morphine e la dedica a Marianne Faithfull, figura eminente tra
le donne di cui Patti Smith ha celebrato drammi e tributi. I ritratti
delle sue eroine, Georgia O’Keeffe, Edie Sedgwick, Giovanna D’Arco,
e poi Jenny e Judith, sono parti di un processo di identificazione
perché se è vero che “l’arte ha bisogno di luce”, è
altrettanto necessaria una voce femminile che, per logica estensione,
rimanda a lei. Aveva già capito che “l’artista preserva se
stesso. Mantiene la sua spavalderia. E’ intossicato dal rituale
così come dal risultato”. Intuizione giusta, applicazione
famelica.
martedì 26 dicembre 2017
Joni Mitchell
Una
sorta di autobiografia si snoda in tre fitte conversazioni con Malka
Marom, a sua volta cantante trasformata in giornalista, e amica di
Joni Mitchell. L’occasione è propizia per attraversare mezzo
secolo e, da un punto di vista ideale, sono due le canzoni che
delimitano Both Sides, Now perché “se il passato e il
presente sono intrecciati, le tue azioni recenti mettono in moto ciò
che sta accadendo ora. E’ una concatenazione di eventi lunga e
misteriosa”. La prima è la celebre Woodstock il cui
ritornello (“Siamo polvere di stelle, siamo d’oro, e dobbiamo
fare in modo di tornare nel giardino”) è la dimostrazione concreta
che “si può sempre riavere la propria innocenza se si provano
sessanta secondi di stupore e incanto”. Curiose, paradossali e
rivelatrici le circostanze in cui è nato il simbolo di un’epoca
così, come le ricorda la stessa Joni Mitchell: “Non so perché
Woodstock mi commuovesse tanto. Le prime due o tre volte che
l’ho eseguita in pubblico mi sono dovuta fermare, tanto ero presa
dall’emozione. Credo fosse perché a Woodstock non c’ero andata
ma l’avevo vista in televisione, e mi era sembrata una cosa
incredibile, il fatto che in quelle circostanze la gente si fosse
aiutata a vicenda”. Un punto di non ritorno si intravede in un
verso di Come In From The Cold (l’album è Night Ride
Home e siamo già nel 1991) che dice: “Volevo soltanto entrare
a ripararmi dal freddo”. Tra questi due estremi, in Both Sides,
Now c’è tutto il senso per l’arte di una donna che ha rubato
alla vita, lottando con una sensibilità che “è guardata quasi con
disgusto dalla società, mentre è una ricchezza, dà tante
gratificazioni. Ti permette di sentire cose che gli altri non
sentono, come i cani che sentono certi suoni acuti”. Una sfida
costante, continua, laboriosa, spesso dolorosa, sempre faticosa,
contro “la nostra modernità ignorante” in una delle sue
accezioni più banali, ovvero l’industria dell’intrattenimento.
La lotta per l’originalità è uno dei temi su cui Joni Mitchell si
sofferma spesso e volentieri, sapendo che “le cose grandi arrivano
quasi sempre sul ciglio di un errore. Quello che arriva dopo l’errore
è spettacolare. Perciò se ti fissi sugli errori ti perdi la magia”.
Il confronto con una carrellata di musicisti geniali e molto poco
politically correct, che va da Jaco Pastorius a Charles Mingus, da
Bob Dylan a Leonard Cohen, le rivela che “in questa società di
specialisti, il mio destino è quello di essere considerata una
dilettante”, ma forte delle letture di Kipling e Nietzsche, delle
visioni di Picasso e Van Gogh, o degli ascolti di Duke Ellington,
Charlie Parker e Lester Young, Joni Mitchell è riuscita a capire che
“se non possiamo fare a meno di guardare l’illusione, questa si
spezza. Sai sempre di star creando un’illusione, non importa quanto
ti sforzi di essere sincero”. Saperlo le è servito per costruire
un intero vocabolario emotivo che, proprio nelle canzoni, ha trovato
la sua espressione: “Uno dei miei interessi principali nella vita è
quello dei rapporti umani, delle interazioni e dello scambio di
emozioni, da persona a persona, fra individui, oppure su scala più
ampia, con un pubblico”. In questo caso specifico, che poi ha
occupato gran parte dei risultati del suo songwriting, la voce in
diretta di Joni Mitchell (“L’amore è un sentimento molto
difficile da tener vivo. E’ una pianta molto fragile, ecco. E’ un
sentimento particolare, perché soggetto a tanti cambiamenti. Il modo
in cui lo si prova all’inizio di una storia e tutti i cambiamenti
che subisce”) e quella nelle canzoni si alimentano a vicenda
(“L’amore richiede tanto coraggio, l’amore si prende tanti di
quegli accidenti” canta Face Lift) in un flusso inarrestabile che trova nelle parole di Both Sides, Now la sua definizione:
“Ormai ho visto la vita da entrambi i lati, vincere o perdere,
eppure, chissà come quel che ricordo sono illusioni, cos’è
davvero la vita non lo so”. Fin troppo sincera.
domenica 24 dicembre 2017
Terry Southern
Inseguendo
il gusto della sorpresa, dello scherno, dello sberleffo, Il grande
Guy incarna uno spirito dispettoso e tormentato, che si diverte a
irretire, provocare, stuzzicare e spargere zizzania, tutto in nome
del denaro, che deve sborsare per rimediare ai danni dei suoi
scherzi. Mecenate facoltoso e visionario, con interessi diversificati
e risorse economiche a quanto pare illimitate, Guy Grand è annoiato
e turbato da quello che è diventato e guardando i suoi colleghi di
tante scorrerie finanziarie, si vede come “un riflesso della loro
stessa pochezza: membro di club, personaggio da invitare a pranzo,
una minaccia, un uomo la cui società rappresentava una promessa e
insieme un pericolo”. A quel punto cominciano tutti gli scherzi che
costituiscono la trama e la spina dorsale del breve romanzo di Terry
Southern e che mettono alla prova molti luoghi comuni: proietta film
rallentati e al contrario, paga dei pugili per interpretare la boxe
in una chiave davvero inedita e se ne a caccia con un obice da
settantacinque millimetri, un’arma impropria perché il rinculo lo
sbalza a dieci metri “dove arrivava come uno straccio, ovviamente
privo di sensi”. Un colpo è sufficiente a mettere in fuga tutta la
selvaggina, e così finiscono anche i safari del grande Guy. Ogni
volta le rappresentazioni di quello che, in effetti, è un mondo al
contrario, generano stupore, imbarazzo, disorientamento, soprattutto
perché non sono chiari i motivi che spingono Il grande Guy a
dilapidare una fortuna in quel modo. Finché, di fronte all’ennesima
provocazione, qualcuno si chiede: “E se si trattasse di una sana
satira dei mass-media?”, domanda si adatta alla perfezione
anche per il romanzo in sé. Comunque sia, Il grande Guy
continua imperterrito e ogni volta alza il tiro, fino alla creazione
di una crociera su una nave di follie, una specie di sontuosa parodia
del Titanic, e alla generazione, nel capitolo conclusivo, di una
caricatura degli sconti commerciali che scatena orde di famelici
consumatori in cerca del negozio più conveniente, che nel frattempo
è sparito o si è trasferito dall’altra parte della città. E’
quello che lascia credere il perfido meccanismo studiato da Guy
Grand, almeno le folle ipnotizzate dai pressi impensabili “così
potevano concludere che non si era trattato di un sogno, non solo, ma
che il miracolo era ancora in corso”. La feroce ricostruzione di
una società votata ai consumi e all’avidità è sempre mitigata
dall’ironia e dalla una leggerezza, anche naïf,
volendo, di Terry Southern, sempre disposto a un tono
accondiscendente, colloquiale, poco spigoloso, umoristico, come è
nella tradizione di Mark Twain o del contemporaneo Richard Brautigan.
Terry Southern, in realtà, ha però una percezione critica e
caustica che filtra nelle battute e negli aneddoti di Guy Grand che
induce a una seria riflessione sulla concezione stessa del libero mercato,
che, proprio nella sua natura, è “capriccioso”. Un modo di dire
la verità, ovvero che è molto pericoloso, con una congrua dose di
senso dell’umorismo, non a caso, la cifra finale che definisce Il
grande Guy.
giovedì 21 dicembre 2017
Andre Dubus
Quando
Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till,
rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel
Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con
il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella
discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett
Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte
a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se
non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine
così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei
cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che
tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le
morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile
serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal
bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è
afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a
condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di
ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si
sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di
alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette
il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni.
Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di
visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la
nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò
che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è
solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina
la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si
incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti,
dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è
stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è
il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito
come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot
americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in
parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un
racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta
collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati
attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza
alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del
dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due
racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una
volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il
quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di
quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si
scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata,
è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più
corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti
parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui
poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra,
ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è
l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto
straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei
marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una
famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in
cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro,
dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota.
Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può
dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett
Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e
scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”.
Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane
nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne
condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando
di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima
inutile serata.
venerdì 15 dicembre 2017
Larry McMurtry
C’è
tutto il West in Lonesome Dove:
la leggenda e la realtà della terra promessa, le durissime
condizioni della vita sulla frontiera, il fascino di orizzonti
straordinari, la moltitudine di cowboy, fuorilegge, soldati,
giocatori d’azzardo e cacciatori di bisonti, comanche e kiowa,
messicani e irlandesi, coloni, puttane, sceriffi e altri disperati
che sanno di aver passato gli anni migliori “a combattere dalla
parte sbagliata”. Questo vale soprattutto per Call e Gus alias
Augustus, due ranger del Texas, veterani delle guerre indiane e degli
scontri con i banditi, che hanno avviato un ranch, proprio a Lonesome
Dove che è dove tutto ha inizio e
fine pur essendo un buco nella terra del border. E’ la partenza e
l’arrivo, perché quando si ripresenta Jake Spoon, un vecchio
compagno d’armi di Call e Gus, l’idea di trovare un posto nuovo
(e di appropriarsene), che in sé è uno dei miti fondanti
dell’America, diventa il suggerimento di trasferirsi nei territori
in gran parte inesplorati del Montana. Il viaggio principale, lungo
tutto l’asse del West e attraverso Texas, Kansas, Wyoming e
Nebraska, ha affluenti e diramazioni lungo tutto il suo percorso,
proprio come i fiumi che attraversa. Un guado sicuro non c’è mai e
la prima perdita avviene per i morsi di un branco di micidiali
mocassini acquatici. Ci sono serpenti ovunque (crotali, in genere),
ma sono un pericolo relativo per i cavalieri (“Se rallenti per un
serpente, tanto vale che cammini”). Altre intemperie sono ben più
dolorose: la sete e la fame nella siccità, il freddo e i fulmini nei
temporali, le asperità delle piste e tutti gli ostacoli naturali,
flora e fauna comprese, di un paesaggio mutevole, bellissimo e
crudele, che si stringe attorno alle vicende umane, nonostante gli
spazi infiniti. Gus e Call sono i primi a restare incastrati dal
bagaglio che si portano dietro. Sono uno l’opposto dell’altro:
Gus, che visto il nome ha qualcosa di imperiale, è logorroico,
scansafatiche, sicuro di sé, con una vista (e una mira) infallibile,
mentre Call è ossessionato dal lavoro, lunatico e ombroso. Si
compensano, perché sono entrambi combattenti formidabili con un’idea
sommaria della giustizia che coincide con la vendetta perché “se
ti metti con un fuorilegge, muori con lui”. Le esplosioni di
violenza sono repentine e lancinanti e determinano anche i furiosi
cambi di registro di Larry McMurtry. Succede quando incontrano
indiani non pacificati, o la feroce dei dei Suggs, o prima ancora
quando l’inafferrabile Blue Duck rapisce Lorena. Lei è solo la
prima di una mezza dozzina di personaggi femminili che determinano i
destini di chi è partito da Lonesome
Dove, con un riguardo particolare
dovuto Elmira, che pare insopportabile e forse è soltanto un po’
troppo indipendente, e a Clara, che è una meta segreta nel cuore di
Gus. La loro presenza contribuisce in modo determinante
all’equilibrio che distingue il tono di Larry McMurtry: Lonesome
Dove si snoda come un’infinita
ballata e a più di trent’anni dalla sua comparsa (risale al 1985)
rispecchia alla perfezione l’epigrafe di T. K. Whipple che lo
introduce: “Tutta l’America si trova in fondo a una strada
selvaggia, e il nostro passato non è morto ma vive ancora in noi. I
nostri avi avevano la civiltà dentro; fuori, la natura selvaggia.
Noi viviamo nella civiltà che loro hanno creato, ma in cuor nostro
quel mondo selvaggio perdura. Viviamo ciò che sognarono e ciò che
loro vissero, noi lo sogniamo”. Larry McMurtry, alla fine di tutte
le peregrinazioni, degli scontri a fuoco, delle esecuzioni e dei
duelli, delle fatiche di amori trovati, perduti o dimenticati, giunge
alla stessa conclusione perché dall’argilla del Rio Grande
all’erba florida del Montana “la terra è un grande ossario. Però
è bella, alla luce del sole”. Epico.
mercoledì 13 dicembre 2017
Charles Simic
La
nutrita selezione di poemi che compone Hotel
Insonnia rappresenta l’antologia
ideale per compiere un primo passo verso la conoscenza di Charles
Simic. Ci sono versi che vanno da Macelleria
del 1971 (“Qualche volta cammino a
notte fonda e mi fermo davanti a una macelleria chiusa. C’è solo
una luce nel negozio, la luce del forzato che scava il suo tunnel”)
al 1999 con Il topo nella radio
(“Dopo gli ultimi notiziari, prendi coraggio, per grattare un paio
di volte alla parete del tuo nascondiglio. Ora che le luci sono
spente, avverti il freddo, la desolata solitudine, e così porgi il
tuo quesito, o forse un saluto sentito? E resta la notte, senza
stelle, interminabile e in ogni caso senza traccia di pietà”)
nonché un’appendice di tre poesie (Gli
scritti dei mistici, Madonne
ritoccate con il pizzo e Nel
mezzo) risalenti alle sue prime
esperienze letterarie. La poesia di Charles Simic è una “spiegazione
parziale” fatta soprattutto di immagini: un Sasso,
le Angurie,
un Mozzicone di matita rossa,
una Forchetta,
un Muro,
dove “un incredibile mondo multiforme che accerchia da ogni lato”
viene riletto attraverso liriche brevi, schegge perfezionate con un
lavoro di intaglio certosino, che punta a sottolineare e a
evidenziare le sporgenze e le asperità e nello stesso tempo ad
armonizzarle. La frammentarietà (come scrive in San
Tommaso d’Aquino: “Ho lasciato
pezzi di me ovunque”) non impedisce a Charles Simic di avere una
visione completa di un mondo dove gli oggetti prendono vita, dove
“specchi & miracoli” sono, in effetti, gli strumenti per
capire, come scriveva ancora in La
vita delle immagini, che “tutti
noi siamo una sintesi di realtà e irrealtà. E tutti noi indossiamo
una maschera. Perfino dentro la nostra mente tentiamo di continuo di
nasconderci a noi stessi, solo per essere ripetutamente smascherati”.
Nel corso di Hotel Insonnia,
che non nasconde la sua precisa collocazione temporale nelle
intemperie della seconda metà del Novecento, Charles Simic si
concede spesso a volto scoperto. Succede in Scena
di strada (“Questo secolo strano,
con la sua strage degli innocenti, e il volo sulla luna, ora mi sta
aspettando, in una città strana, nella via in cui mi sono perso”)
e ancora di più in Leggere la storia
dove confessa: “A volte, quando leggo in biblioteca, intravedo i
condannati a morte dei secoli passati, e i loro carnefici. Me le vedo
davanti quelle pallide facce, come succede a un giudice che legga la
sentenza, e provo meraviglia al pensiero che ancora non esisto”. E’
proprio lì che convivono una dimensione intima, introspettiva,
persino onirica e una più scrupolosa, attenta e “politica”. Non
a caso Leggere la storia è dedicata
a Hans Magnus Enzesenberger, che potrebbe spiegare così quel
delicato equilibrio: “Ora, non si può certo far parte di tutto
ovunque, mi dico, stringo i denti e continuo a leggere”. E’ un
destino condiviso con Charles Simic che, nell’appendice di Hotel
Insonnia, svela le fonti primarie
della sua poesia: “Non esagero quando dico che non posso nemmeno
pisciare senza un libro in mano. Leggo per addormentarmi e per
svegliarmi. Ho sempre letto al lavoro, in tutti i lavori che ho
fatto, nascondendo il libro tra le carte sulla scrivania o nel
cassetto mezzo aperto. Anche nella mia bara aperta, un giorno,
reggerò un libro. Il libro tibetano
dei morti sarebbe molto appropriato,
ma preferirei un manuale sul sesso o le poesie di Emily Dickinson”.
Un’abitudine che non ha controindicazioni o effetti collaterali, se
non la crescita spontanea di una rara sensibilità.
martedì 5 dicembre 2017
Paul Hoover
Saigon,
Illinois è compresso tra due eventi
che sono rimasti scolpiti della memoria, in virtù del ruolo via via
predominante della televisione. Il clamore dell’offensiva del Tet,
con il drammatico assalto all’ambasciata americana, offre il
background iniziale, e l’arrivo sulla luna dell’Apollo 11, nel
luglio del 1969, non delimitano soltanto l’arco temporale in cui si
svolge il romanzo di Paul Hoover, ma sottolineano anche la drastica
metamorfosi di un intero immaginario che il protagonista di Saigon,
Illinois, Jim Holder spiega in modo
molto semplice: “Eravamo abituati a vedere Sid Caesar fare delle
smorfie a Imogene Coca o Charley Weaver leggere una lettera del
pubblico a casa, e ora non si poteva nemmeno guardare un notiziario
senza rimanere pietrificati sul divano”. Jim Holder fa riferimento
alla scena di un’esecuzione sommaria nelle strade di Saigon e
riporta alla memoria la storica fotografia di Eddie Adams (vinse il
premio Pulitzer per quel reportage) che ritraeva il comandante della
polizia sudvietnamita, il generale Nguyen Van Ngoc Loan, sparare a
sangue freddo a un sospetto vietcong. Dopo la guerra, Nguyen Van Ngoc
Loan andò a gestire una pizzeria nei sobborghi di Washington. La
bizzarra parabola sembra scritta da Paul Hoover che ha una
sensibilità tutta sua nel raccontare la scelta di Jim Holder che,
nell’estate del 1968, decide di negarsi alla leva, scegliendo il
servizio alternativo in un ospedale. Va notato che il punto di vista
disincantato di Jim Holder non riguarda soltanto l’aspetto
pacifista, ma anche le posizioni anticonformiste che emersero nel
corso di quegli anni. Nella sua prospettiva,“i veri
angeli della desolazione non erano
motociclisti fuorilegge e beatnik suburbani; erano comuni impiegati
di drogheria, meccanici, presidenti di banche e casalinghe che
credevano nell’inevitabilità, quindi nella bellezza della prima
alba nucleare. Erano le fenici che si alzavano dalle ceneri
dell’America delle piccole città e lo sapevano: era questo a
conferire loro una tale spaventosa fiducia nei propri odi
quotidiani”. L’ospedale dove andrà a lavorare Jim Holder, il
Metropolitan di Chicago, ne è la perfetta metafora istituzionale: la
sua burocrazia riflette la società della cosiddetta maggioranza
silenziosa che è andata in guerra, convinta della sua necessità. Il
tran tran è farraginoso: c’è sempre un supervisore che dispone e
controlla, ci sono ruoli, mansioni e organigrammi da aspettare o
sotterfugi e regole non scritte da assecondare nonostante la costante
emergenza in corsia. L’ospedale diventa il centro della vita di Jim
Holder, e non solo per le mansioni che è chiamato a svolgere: è
anche una sorta di labirinto emotivo dove incontra amore, pietà,
perfidia e (va da sé) dolore e morte. L’esperienza è drammatica,
anche se Paul Hoover ha un modo del tutto singolare di sottolineare
con l’ironia (e il sarcasmo, quando è necessario) i momenti più
tragici e gli episodi salienti che incidono sulla trama e
sull’andamento della storia. Jim Holder rimane incastrato quando,
nel corso di una manifestazione pacifista, si prende la sua razione
di manganellate e si ritrova ospite dello stesso ospedale dove deve
finire il dovere patriottico. A quel punto le sue opinioni, già
tollerate a fatica dall’amministrazione sanitaria, diventano
ingombranti, e viene licenziato. L’ufficio di leva, e da lì il
Vietnam, lo aspettano. Ormai alla fine, Jim Holder esprime senza
censure la sua disillusione, anche nei confronti di un evento tutto
sommato innocuo e neutro come l’allunaggio, che a dispetto
dell’entusiasmo generale, vede così: “Armstrong probabilmente
aveva anche lui delle battute e cose da fare scritte da qualche
pubblicitario della NASA, anche se la sua avventura era reale. Un
passo avanti per l’umanità, un cazzo”. Paul Hoover rende bene il
clima confuso dell’America a cavallo tra il 1968 e il 1969, della
frattura verticale tra le generazioni e dell’ambigua conduzione dei
conflitti e offre un punto di vista inedito rispetto all’enorme
massa bibliografica legata alla guerra del Vietnam. A Jim Holder non
resta che l’alternativa on the road che, nello scorcio finale,
appare come una conseguenza logica, diretta e spontanea, quasi ovvia,
ma solo perché la costruzione di Paul Hoover è molto fedele e
puntuale. Nonostante tutto, anche la fuga verso la California è
ammantata dallo stesso velo di amarezza che pervade l’intero
Saigon, Illinois.
Inevitabile perché riporta su un piano emotivo il fallimento di una
nazione intera, quella che Allen Ginsberg chiamava “la caduta
dell’America”. A quel punto, lo status di Jim Holder passa da
parziale obiettore di coscienza (e furono 3250 gli obiettori finirono
in carcere) a renitente, insieme ad altri 570.000 giovani americani.
Di questi molti fuggirono in Canada o in Europa, 209.517 vennero
processati e solo nel 1974 il presidente Gerald Ford promulgò gli
atti per una prima clemenza, poi completata dall’amnistia varata da
Jimmy Carter nel 1977. Toccante e utile, perché era una storia che
ancora doveva essere raccontata.
venerdì 1 dicembre 2017
Robert Palmer
La
storia di Deep Blues coincide con quella di Robert Palmer.
Figlio di un’era in cui raccontare un disco aveva una sua logica,
Robert Palmer applicava alla critica musicale lo stesso spirito di
ricerca che lo alimentava nella vita. Ruotava tutto attorno alla
musica: suonata (al clarinetto e al sassofono), raccontata, filmata.
A sua volta, Deep Blues è stato l’elemento che ha
condensato tutte le passioni di Robert Palmer tanto è vero che il
libro si è rivelato una porta aperta verso l’omonimo film e la
relativa colonna sonora. Al centro di Deep Blues, c’è il
Delta, il cuore del blues, il punto di partenza e di arrivo, estremi
che sono stati ripercorsi proprio sul campo. Una lunga traversata a
ritroso, nel tempo e tra due continenti: la povertà (ancora oggi),
la schiavitù, l’Africa. Non è soltanto un viaggio metaforico: tra
l’altro avendo accompagnato, con Brian Jones alla scoperta dei
Master of Jajouka, Robert Palmer ha conosciuto a fondo le radici
africane del blues ed essendo cosciente che si tratta di “una
forma letteraria e musicale” proiettata da “una fusione di musica
e poesia ottenuta a una temperatura emozionale altissima” si è
avvicinato, se non altro, a circoscriverne il DNA culturale. L’ha
fatto attraverso il contatto diretto con i protagonisti che, a
partire da Muddy Waters, hanno messo a disposizione la loro
testimonianza vitale per guidare Robert Palmer in “un enorme campo
di sentimenti”. Il suo lavoro, in Deep
Blues,
si rivela un ibrido altrettanto denso: le storie orali raccolte on
the road sono corroborate da un’attentissima dissertazione sulle
condizioni sociali e politiche in cui il blues ha preso forma perché
la sua originalità “non è questione di sedersi a
creare dal nulla le canzoni. Anzi un blues singer con un pezzo fatto
interamente o quasi di frasi, versi e strofe rubati rivendicherà
ugualmente come sua la canzone, e avrebbe ragione. Da un punto di
vista lirico, l’arte di scrivere canzoni blues equivale al
combinare frasi, versi e strofe che hanno un’eco emozionale
compatibile formando un insieme che rifletta le esperienze, i
sentimenti e gli umori del cantante e quelli degli ascoltatori. E più
spesso che no il risultato è assolutamente originale”. La vera
scoperta di Robert Palmer è quella che non dichiara, almeno non in
modo esplicito, ed è stata nell’aver colto la contemporaneità
della dimensione collettiva e universale del blues con l’espressione
individuale, quest’ultima riassunta così: “Ogni artista blues
attinge a un coacervo di queste fonti e all’infuenza di altri
artisti blues, e tira fuori qualcosa che è tipicamente suo. L’unico
modo per definire il blues con una certa precisione sarebbe
considerare il repertorio di ogni artista blues”. Il suo è stato
qualcosa di più di un tentativo di descrivere qualcosa
di illimitato. Affascinato dalle atmosfere del Delta, trascinato nei
misteri lungo i crossroads (e la sua interpretazione sui presunti
patti mefistofelici merita di essere assunta a standard per tutte le
analisi prossime venture), coinvolto al punto di rendersi conto che
“il blues più deep chiede ai suoi ascoltatori di affrontare
le proprie gioie, dolori, brame e, soprattutto, la propria
mortalità”, Robert Palmer non tornò più a casa, lasciandoci Deep
Blues quasi come un testamento spirituale.
lunedì 27 novembre 2017
Philip Dick
L’antologia
di saggi raccolta in Se vi pare che questo mondo sia brutto è
una piccola porzione della percezione di Philip Dick, ma tocca e
approfondisce uno dei temi più sensibili, il rapporto tra l’umanità
e lo sviluppo tecnologico. I primi due capitoli, in particolare
L’androide e l’umano e la sua successiva propaggine, Uomo,
androide e macchina, che risalgono rispettivamente al 1972 e al
1976, rivolgono l’attenzione a quell’incognita che si manifesta
con “una qualità meccanica, riflessa”. Philip Dick è esplicito
nel manifestare i suoi dubbi davanti l’evoluzione a tappe forzate
del cosiddetto progresso perché “forse, in realtà, stiamo
assistendo a una graduale fusione della natura generale delle
attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di
ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui siamo circondati”. La
sa disanima dell’androide, che “come ogni altra macchina, deve
funzionare al momento giusto”, è acuta e decisiva. Philip Dick si
rende conto che “queste costruzioni non imitano gli umani: per
molti aspetti fondamentali, esse in realtà sono già umane”.
Questo sdoppiamento è un elemento politico stringente perché
“l’androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto,
prevedibilità”. Quello che mancava a George Orwell in
termini di dettagli specifici, si trova in Philip Dick, nelle forme
di un disappunto per sia aver sbagliato profezie (“Ecco l’orribile
società tecnologica, che era il nostro sogno, la nostra visione del
futuro. Non siamo riusciti a immaginare nulla di abbastanza potente,
astuto o altro, che potesse impedire l’avvento di quella terribile
società da incubo”) sia per averle enunciate fin troppo bene
(“L’ininterrotta preparazione della tirannia di stato, che nei
circoli fantascientifici, con la nostra insistenza sull’avvento
della società antiutopica, abbiamo previsto per il mondo di domani,
quest’aumento dell’invadenza dello stato nella vita privata
dell’individuo, questo voler sapere tutto sul conto della persona
e, una volta saputo, o convinti di essere venuti a sapere, qualcosa
che può costituire una minaccia per lo stato, questo potere di
annientare l’individuo; insomma, tutto questo processo, come
facilmente si comprende, si serve della tecnologia come strumento”).
Se vi pare che questo mondo sia brutto contiene molto altro:
un arguto ritratto dal vivo del romanziere e dei suoi compiti, nel
saggio omonimo del 1977 e da lì una gimkana attraverso le possibili
soluzioni della realtà “quella cosa che,
anche se si smette di credervi, non scompare”. Premesso che “il
mondo del futuro, per me, non è un luogo, bensì un evento. Una
costruzione, ma non di un autore che usi le parole per scrivere un
romanzo o un racconto davanti a cui si possa semplicemente sedersi e
mettersi a leggere; una costruzione in cui non vi siano autore e
lettori, bensì un gran numero di personaggi in cerca di una trama”,
Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni,
un brano scritto nel 1978 e aggiornato nel 1985 torna sull’invadenza
della tecnologia, con maggior attenzione alle sue applicazione negli
strumenti di comunicazione. Se, fra tutti, “la visione televisiva è
una specie di apprendimento in stato di sonno”, il rimedio secondo
Philip Dick è non smettere di domandarsi cosa è reale “perché
siamo incessantemente bombardati da pseudorealtà prodotte da gente
estremamente sofisticata che adopera dispositivi elettronici
altrettanto sofisticati. Non diffido dei loro moventi. Diffido del
loro potere. Ne hanno moltissimo. Diffido dello stupefacente potere
di creare universi, universi della mente”. Qui entra in scena
l’ultima parte, Cosmogonia e
cosmologia che nelle sue
elaborazioni filosofiche non fa che confermare che “l’assenza
di qualcosa di vivo” resta “l’aspetto orrorifico, la visione
apocalittica di un futuro da incubo”. Non siamo molto lontani.
giovedì 23 novembre 2017
Thomas Harris
Quando Hannibal Lecter, nel suo antro sotterraneo dove è rinchiuso senza futuro, dice a Clarice Starling che vive “la memoria al posto del panorama”, s’intravede la sottile filigrana che abbraccia tutto Il silenzio degli innocenti. Il susseguirsi delle scene è scandito da un ritmo preciso, che non sbaglia un colpo ed è dettato da tutta una serie di piccoli agganci e di rimandi nella trama, distribuiti da Thomas Harris senza risparmiarsi eppure con meticolosa accortezza. Tutto è incastrato proprio come il meccanismo di sparo di un’arma da fuoco: semplice, solido, micidiale, ineluttabile. Il silenzio degli innocenti è costruito nello stesso modo, a partire dalla triangolazione che unisce Hannibal Lecter, Jack Crawford e Clarice Starling che è l’architrave di uno schema preciso e reiterato. Tutto ruota attorno ad una serie di figure che si incastrano per le estremità. Clarice Starling, “remota e bella. Una ragazza che sembra un tramonto d’inverno” nella descrizione di Frederick Chilton, è l’elemento catalizzatore che mette in comunicazione linee diverse, le asseconda e, comprendendole, riesce a renderle intellegibili al lettore. Anche nel corso di una storia tutt’altro che semplice, come è Il silenzio degli innocenti. Jack Crawford, elegante e tormentato, acuto e concentrato distribuisce le carte ma è con Hannibal Lecter che Thomas Harris ha colto uno di quei personaggi destinati a pesare per sempre nell’immaginario. Inserita in una cornice ben delimitata, e senza sbavature, la scrittura resta lineare, senza particolari pretese stilistiche, accattivante, eppure Thomas Harris ha uno spiccato senso per il dettaglio, un modo coinvolgente di attirare il lettore e non mollarlo mai. Con molto mestiere, senza dubbio, ma anche con l’abilità raffinata nell’elencare le svolte fondamentali, nel renderli chiari, scegliendo dialogo per dialogo quali leve usare per svelare il passaggio successivo. Come spesso capita nel confronto tra Clarice Starling e Jack Crawford, in particolare quando le dice: “Mi dia retta: un delitto confonde già abbastanza le idee anche senza bisogno che le indagini mescolino le carte. Non si lasci mettere fuori strada da un’orda di poliziotti. Abbia fiducia nei suoi occhi. Ascolti se stessa. Mantenga il delitto ben separato da quanto succede intorno a lei. Non cerchi di imporre a quell’individuo uno schema o una simmetria. Conservi una mentalità aperta, e lasci che sia lui a rivelarsi”. La realizzazione è impeccabile e Thomas Harris alza il tiro perché non sembra importante chi sia il responsabile degli efferati omicidi, piuttosto l’intricato sottobosco di conflitti (psicologici, procedurali, politici) che sottintendono la ricerca dell’assassino e la sua cattura, e ancora di più “le indegnità subite dalla vittima, l’esposizione agli elementi e agli occhi di estranei suscitano collera, se il tuo lavoro ti permette di andare in collera”. Si capisce perché Hannibal Lecter sia sempre al centro dell’attenzione, un magnete malefico e perverso che, come si sa, nasconde, dietro un’affettata cortesia, un maniaco cannibale. Attorno a lui, Thomas Harris ha costruito un romanzo che nello stesso tempo è una sceneggiatura finita e pronta all’uso. Non a caso le differenze con la bella riduzione cinematografica di Jonathan Demme sono (per una volta) al minimo sindacale: la storia era già perfetta così.
lunedì 20 novembre 2017
Jack London
A
saldo delle inclinazioni ideologiche, Jack London si è sempre
schierato dalla parte degli ultimi, facendo notare che a generare la
spaccatura è “la mancanza del benessere che non è mai stato
creato”. Nell’assemblaggio di Il senso della vita (secondo
me), la prima parte ha il tono e il ruolo del pamphlet, anche se
Jack London ha ragioni da vendere quando dice che “con le risorse
naturali del mondo, le macchine inventate, una organizzazione
razionale della produzione e della distribuzione e una parimenti
razionale eliminazione dello spreco, i lavoratori sani di corpo non
dovrebbero lavorare più di due o tre ore al giorno per nutrirsi,
vestirsi, pagarsi un alloggio, istruirsi e concedersi una giusta
quantità di beni secondari. Non dovrebbero esistere più il bisogno
materiale e le condizioni disagiate, né bambini sfruttati, né
uomini, donne e bambini che vivono e muoiono come bestie. Non
dovrebbe essere solo la materia a essere padroneggiata, ma anche la
macchina”. Jack London è stato un precursore perché ancora una
decina d’anni dopo Lewis Mumford articolava lo stesso concetto
nella Storia dell’utopia: “Le macchine la cui produzione
era così grande da poter vestire tutti gli uomini e i nuovi metodi e
i nuovi strumenti in agricoltura che promettevano raccolti così
abbondanti da poterli nutrire tutti, proprio quegli strumenti che
dovevano fornire all’intera comunità i fondamenti concreti per una
vita felice, si trasformarono per la maggior parte della gente, che
non possedeva né capitali né terre, in qualcosa di molto simile
agli strumenti di tortura”. Su questo l’America narrata in Il
senso della vita (secondo me) collima con la definizione di Karl
Marx: “Un paese in cui lo sviluppo industriale sia più avanzato
che in altri presenta semplicemente a questi ultimi un’immagine del
loro futuro”. Più avvincenti i due racconti che, collegati tra
loro da un sottile filo rosso, compongono la seconda parte, Il
sogno di Debs e A sud dello Slot. Il sogno di Debs,
in particolare, ha una verve tutta sua: è crudo, realistico e
intenso. Racconta che “per un’intera generazione lo sciopero
generale era stato il sogno delle organizzazioni dei lavoratori”, e
quando si manifesta lo osserva dal punto di vita di un ricco
faccendiere che si ritrova, all’improvviso, a vivere senza servitù,
senza agi e senza le superflue abitudini: “Fu soltanto quando
arrivai al club nel pomeriggio che ebbi una prima sensazione di
allarme. Regnava una totale confusione. Non c’erano olive per i
cocktail, e il servizio era caotico”. Nel raccontare gli effetti
dello sciopero generale che trasforma San Francisco, Jack London
ribalta, con perfida ironia, gli schemi e il tratto è ancora più
incisivo in A sud dello Slot, a partire proprio dalla linea di
demarcazione che divide la città, ma anche le classi, è netta, per
quanto invisibile. Quando Freddie Drummond, professore e ricercatore
universitario, diventa Bill Totts, per capire come si vive davvero A
sud dello Slot, si sdoppia in un’impossibile schizofrenia. Bill
Totts alias Freddie Drummond si troverà a dover scegliere da quale
parte stare, e la scelta avverrà ancora nel corso di uno sciopero.
Un racconto che è complementare e contiguo a Il sogno di Debs,
e per tornare a Il senso della vita (secondo me), lo è anche
al richiamo che “un semplice capriccio dello spirito non può far
nascere una rivoluzione mondiale”. Su questo non c’è dubbio.
mercoledì 15 novembre 2017
James Ellroy
Los
Angeles è Hollywood e le fotografie sulla scena del crimine hanno
l’atmosfera del cinema noir. Lo scambio è inevitabile, l’osmosi
continua, e figurarsi se questo James Ellroy non lo sa, anzi lo sa e
lo spiega benissimo: “Perché le foto dei morti nelle scene del
crimine sono così belle? Perché sono sempre di qualcun altro, ed è
improbabile che noi finiamo stecchiti davanti a un albergo a
ore della East 5th Street. Perché l’accumulo di particolari da
film suggerisce un mondo che è insieme simile e distante dal nostro.
Perché il subconscio è intorpidito da immagini sepolte e frammenti
sinaptici che riemergono dalla memoria razziale e la nostra vita va a
finire nel gorgo di quello spiritus mundi in perpetua
evoluzione che chiamiamo storia, e toccare i confini della vita
orrifica di allora vuol dire affermare il nostro transito
terreno ora, nonché riaffermare entrambi come luminosamente
unici e piattamente banali, perché alla fine siamo tutti uniti come
un solo essere con un’anima sola, e alla fine l’arte è
l’elemento che permette la fusione di vivi e morti, uniti e
riconciliati”. Le immagini inchiodano il momento senza possibilità
di errori o divagazioni. Il rigoroso bianco e nero delle fotografie
coglie qualcosa in più delle due dimensioni, nell’ottica di James
Ellroy che sottolinea a ripetizione “il gesto ambiguo, l’effimera
corrente sotterranea, la consapevolezza pervasiva del fatto che il
gioco è truccato”. Mostrano una Los Angeles di “allora” che è
il seme per quella di “adesso”. E’ un refrain che torna spesso
nei commenti e nelle didascalie di James Ellroy, come se le
fotografie fossero la connessione tra due città nel tempo, quella di
allora con una sua cruda, spietata e distorta eleganza e
quella di adesso, che non esiste. Una Los Angeles che è
sparita e che rimane nella memoria dato che, come spiega Glynn
Martin, “il crimine possiede, per sua natura, una sorta di
continuità immune al passare del tempo”. La Los Angeles di allora
ha ancora un volto umano, persino nella disperazione. Anche se il
vero motto del dipartimento guidato da William Parker era “reprimere
e sopprimere”, che è un po’ diverso da “proteggere e servire”,
la polizia, piaccia o meno, non girava armata come un esercito in
assetto da combattimento. Ci sono smorfie e sguardi molto perplessi
davanti alle posizioni scomposte dei cadaveri di un’omicidio o di
un suicidio. Le foto hanno una dignità geometrica. Sembrerà strano,
ma c’è quasi compassione, più che “disprezzo” e tutto è più
modesto e accurato. Le forme appaiono eleganti: le automobili sono
tutte curve e imbottiture, le strade sono più larghe, libere e
pulite, luoghi che sono stati set cinematografici prima di diventare
scene del crimine, e viceversa. La commistione tra fiction e realtà
è elevata a regola quotidiana. In più c’è un elemento di
nostalgia, nemmeno troppo velato, nei commenti di James Ellroy:
questi sono i suoi luoghi oscuri in una luce diversa, e i continui
richiami a Perfidia, American Tabloid e Dalia Nera
sono riferimenti naturali e spontanei per gli adepti di Los Angeles.
Non si può veramente andarsene, è la città in cui vai “in
vacanza, e torni a casa in libertà vigilata”. Un potere ipnotico
che vale per la prosa di James Ellroy che è inseparabile da Los
Angeles e volutamente volgare. Se per l’occasione cita con rispetto
Saul Bellow e Don DeLillo, le sue fonti di ispirazione sono sempre
quelle sul campo: i “ragazzi del coro” di Joseph Wambaugh, Lenny
Bruce, Charlie Parker e John Coltrane in un buco fumoso e Dexter
Gordon che suona il sassofono in galera. Il film non finisce mai.
mercoledì 8 novembre 2017
Lewis Mumford
Per
trent’anni Lewis Mumford tenne sul New
Yorker la rubrica The Sky Line,
nella quale affrontava, di volta in volta, i principali cambiamenti
architettonici (e non solo) di New York. Da una prospettiva singolare
e pungente, già annunciata nel primo dei due racconti autobiografici
che costituiscono l’apertura di Passeggiando
per New York, a tutti gli effetti una
raccolta antologica delle sue Sky Lines:
“Karl Marx definiva la mia classe d’origine piccola borghesia.
Col che egli non la considerava tanto una classe, come del resto
neanch’io, ma quella era l’angolatura da cui vedevo New York. E
ciò mi consentiva una visuale ben più ampia di quanto voi o Marx
potreste pensare”. Alla sua penna caustica non sfugge nulla, che si
tratti del Rockfeller Center, del Radio City Music Hall, dei docks o
degli slums, con accenti polemici che non si piegano davanti a niente
e nessuno, sindaco e autorità varie comprese. La visuale di Lewis
Mumford non si accontenta di esprimere un parere estetico, che
comunque avrebbe già un suo valore. Quando guarda uno dei simboli
delle architetture di New York, lo sviluppo verticale dei
grattacieli, cresce in parallelo un senso critico che non concede
alcun spazio all’ambiguità: “In altre parole, l’alto
grattacielo è il trastullo dell’uomo d’affari, il suo
giocattolo, il suo gingillo; nella sua voglia di grandezza, lo chiama
alternativamente un tempio o una cattedrale e osserva il romantico
disordine di altezze della città moderna con la stessa beatitudine
che l’industriale vittoriano provava per le ciminiere delle
fabbriche che eruttavano fuliggine e gas fetidi. Il grattacielo lo fa
sentire fiorente anche quando è la causa delle sue perdite di
denaro. Nell’interesse della congestione, l’uomo d’affari è
disposto a rendere le strade intransitabili, a perdere migliaia di
dollari al giorno in spostamenti a vuoto e in ritardi, a sprecare
milioni nella costruzione di più metropolitane per promuovere più
congestione, e in generale a far fronte a ogni tipo di seccatura,
fintanto che può nutrire il suo iperbolico sogno romantico”. Fin
troppo eloquente: non si tratta quindi soltanto di Scritti
sull’architettura della città, come dice
il sottotitolo di Passeggiando per New York,
ma di un modo di affrontare la realtà, partendo dal basso,
camminando nelle strade e coltivando l’arte, il gusto e lo spirito
d’osservazione per cogliere i cambiamenti fondamentali di una città
e della sua vita. L’ottica riflette la metropoli e ne coglie gli
aspetti più importanti: “Non mi è mai piaciuta l’espressione
stile internazionale riferita alla forma moderna, poiché mi è
sempre parsa implicare una uniformità e una esteriorità, prive di
colore o di variazioni regionali, tuttavia; le fonti della migliore
forma moderna sono davvero internazionali. Il punto è che più
numerose sono le fonti utilizzate, maggiori sono le probabilità di
trovare proprio quelle combinazioni che si intonano squisitamente
alle circostanze locali. L’ultimo modo per realizzare un vero stile
regionale è quello di praticare l’isolamento culturale”. Non
manca l’entusiasmo per l’architettura moderna, per il design
innovativo, ma il più delle volte Lewis Mumford è spietato, e
altrettanto ironico, nel ricordare, dietro ogni spigolo di New York,
che “il caos non ha bisogno di essere progettato”.
domenica 5 novembre 2017
Barry Hannah
Barry
Hannah continua a essere un oggetto non ben identificato nei corsi e
ricorsi della letteratura americana. Basta inoltrarsi in Mezzanotte
e non sono ancora famoso per accorgersi quanto scomoda e
spigolosa sia ancora oggi la sua narrativa: non è politically
correct, non è né accomodante, né consolatoria, meno che mai
riflessiva o indulgente. Il senso dell’umorismo, indispensabile
anche per chi legge, è tagliente, il tono abrasivo, i bersagli
dichiarati senza tanti patemi, e nessuna esitazione. Un tratto
anarcoide che, con gran gusto e disgusto, prende di mira ogni forma
di istituzione, a partire da quella più celebrata, la famiglia. Una
parte rilevante dei racconti di Mezzanotte e non sono ancora
famoso mette in mostra coppie più o meno disintegrate, avventure
impossibili e matrimoni in cui molte cose che non vanno. Succede in
modi e casi diversi con La nostra casa segreta, Amare
troppo a lungo, Moglie e amici a pranzo, Sorda e muta
o (è chiaro fin dal titolo) in Osservate l’estremo strazio del
marito. Quando Barry Hannah li lascia trasportare, l’eccesso è
inevitabile, come succede nelle due pagine urticanti di Pete
resiste all’uomo della sua vecchia stanza, nel caotico Venir
vicino a Donna, e ancora di più nell’irriverente E’
proprio vero, con lo psicologo Lardner, che raccoglie (e
commenta) le registrazioni dei suoi pazienti, annotando a margine che
ormai “le grandi domande sembrano averci risparmiato”. Barry
Hannah non concede nulla nemmeno agli agli eroi: dall’attualità
del conflitto in Vietnam (la raccolta risale al 1978) riportata in
Testimonianza di un pilota e nell’apoteosi di Mezzanotte
e non sono ancora famoso, ai “southern accents” della guerra
di secessione in Strappato a forza dalla tomba e Quo vadis,
sporcaccione?, i toni grotteschi celebrano in una luce acida le
gesta belliche, che poi, nel trionfo comico e brutale di Sapevo
che non era il tipo per me, eppure l’ho seguito vengono
riassunte così: “Siamo solo dei predoni e dei maniaci: lo capisco
dalla luce che guizza nello sguardo degli uomini. Tutti stanno
diventando sempre più pazzi pere la semplice pazzia d’esser troppo
lontani da casa per farvi decentemente ritorno”. In realtà tutti i
protagonisti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono
comunque fuori posto: hanno sempre qualcosa da nascondere, una
menomazione, un difetto, una lacuna, che spesso determinano una
svolta nelle singole storie. C’è soprattutto l’imprevedibile,
che è il dato caratteristico di Barry Hannah, lo sbalzo, la nota
stridente: un racconto non finisce mai come comincia, la sorpresa è
dietro ogni angolo, e, per quanto brillante, l’urto scomodo tocca
tutti i partecipanti. Nessuna compassione, nessun rimpianto: i
racconti di Mezzanotte e non sono ancora famoso sono collegati
uno all’altro da minuscoli riferimenti, un nome, un’ossessione,
un tema ricorrente, ma soprattutto dall’infausto destino che
associa i protagonisti. Un’unica elegia, a suo modo significativa,
s’intravede in Tutti quei vecchi volti intenti lungo la
ringhiera, dove un manipolo di anziani che osserva Oliver
manovrare la sua barca con a bordo la ragazza “come a Pearl Harbour
nel 1941” commentano dal molo, e con uno scampolo di saggezza: “Qui
siamo tutti abbastanza vecchi da capire che fine faranno gli
sciocchi”. E’ un messaggio che Barry Hannah scrive con
l’inchiostro simpatico, da usare con le dovute precauzioni.
giovedì 2 novembre 2017
Wallace Stevens
Harmonium
è uno snodo fondamentale della poesia di Wallace Stevens, una
raccolta che ripercorre e ricompone in un’unica, voluminosa
panoramica gran parte della sua poesia, e della sua idea di poesia
che, come scriveva in Trasporto della
vita, nasce dalla consapevolezza
“che viviamo in un luogo non nostro, e che non siamo noi”. Un
modo sfuggente per introdurre l’identificazione totale con la
poesia come mondo, non una variazione o una creazione
dell’immaginazione, ma proprio come un altro mondo, “come icona”,
che sta per immagine, visione, una dimensione che apre un varco dove
“l’assurdo della vita ci balena in strani vincoli”. Il dilemma
tra le porte spalancate dalla “finzione suprema” e “il senso
ordinario delle cose” è il cuore pulsante, che divide e unisce,
che intreccia e scioglie ciò che è sufficiente, e ciò che non lo
è. L’appello di Wallace Stevens è sempre mascherato dato che,
come scriveva in Uomo che porta un
oggetto, “la poesia deve resistere
all’intelligenza quasi con successo”, ma almeno in un caso
diventa esplicito. Succede con Sfumature
di un tema Williams: “Non
partecipare ad alcuna umanità che ti soffonda della propria luce.
Non essere chimera del mattino, mezzo uomo, mezza stella”. Sono le
“metafore di un magnifico”, come avverte il titolo di un altro
componimento, e diffondono i segnali verso l’ignoto, l’invisibile,
l’infinito. Una direzione che Wallace Stevens ribadisce in Dicendo
addio, addio, addio (“”In un
mondo senza un paradiso a seguire, le soste sarebbero conclusioni,
più commosse di addii, più profonde, e ciò sarebbe dire addio,
ripetere addio, solo essere lì e solo guardare), in Il
sublime americano (“Ci si abitua
al tempo, al passaggio e al resto; se il sublime si riduce allo
spirito stesso, spirito e spazio, lo spirito vuoto, nello spazio
vacuo. Che vino si beve? Che pane si mangia?”) e, a maggior
ragione, con Té al palazzo di Hoon
dove afferma: “Ero il mondo in cui camminavo, e quel che vedevo
udivo o sentivo veniva da me solo; qui mi ritrovavo più vero, più
strano”. La stranezza, l’eccentricità e l’originalità sono
avvinghiate in cerca di un senso e Harmonium
è la più solida dimostrazione di come “una poesia non è
necessario che abbia un significato, e come la maggior parte delle
cose in natura, spesso non ne ha”. E’ l’essenza in sé dei
fenomeni di Wallace Stevens che, come “l’ascoltatore” in L’uomo
di neve, “che ascolta nella neve e
nulla in sé, vede nulla che non sia lì, e il nulla che è”,
osserva sospeso tra prima e dopo, tra apparente e invisibile e tra
creazione e costruzione. Il contrasto, paradossale a prima vista,
riappare anche in Fosforo legge alla
sua stessa luce (“Guarda,
realista, senza sapere cosa ti aspetti”) e ancora in Veleggiando
dopo pranzo: (“Non è affatto quel
che si vede”). Nel celebrare e identificare la poesia di Wallace
Stevens, Harmonium
è fatto di vette e abissi che lo stesso poeta ha voluto spiegare
così: “Non solo i bambini vivono in un mondo d’immaginazione.
Tutti lo facciamo. ma dopo avervi vissuto nella misura che vi vive un
poeta, il desiderio di tornare al mondo quotidiano diviene tanto
acuto che ci strappa dal mondo immaginativo nel modo più deciso. Un
altro modo di dire questo è che dopo aver scritto una poesia è bene
fare un giro dell’isolato, dopo troppa mezzanotte è piacevole
udire il lattaio, ed è qui il senso della poesia, il mondo
immaginativo è dopo tutto il solo mondo reale”. Convincente.
martedì 31 ottobre 2017
Fredric Jameson
Fredric
Jameson ci tiene a precisare, fin da subito, che per comprendere Il
desiderio chiamato utopia bisogna distinguere “l’esperienza
esistenziale” dal “tempo storico”, l’immagine soggettiva e la
destinazione collettiva, le identità e le differenze, i sogni
partoriti dalle ideologie e le variabili architettoniche. Un fatto, a
livello preliminare, è assodato e decisivo: “La forma utopica è
di per sé una significativa riflessione sulla differenza,
sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità
sociale. Non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento
fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato
liberando visioni utopiche come tante scintille dalla coda di una
cometa”. Questo è il senso compiuto su cui prospera Il
desiderio chiamato utopia che poi, nella sua estrapolazione e nel
confronto con la realtà, si svela sempre un percorso tortuoso e
problematico, prima di tutto, perché “il politico è sempre un
errore categoriale che nasce nei momenti di crisi o di più profonda
contraddizione e prende la forma in cui appare in base alla natura
della crisi. Sarebbe allettante ma superficiale limitarsi a osservare
che lo stesso spazio del politico (e del potere) varia in maniera
talmente radicale a seconda del modo di produzione del quale è
funzione da non poter essere generalizzato e da resistere a qualsiasi
definizione concettuale”. Anche l’analisi di Fredric Jameson in
quei frangenti diventa (parecchio) contorta: si avvita in
speculazioni filosofiche, sociologiche e psicologiche fin troppo
erudite, specifiche e comunque ostiche, almeno a una prima lettura.
Del resto, una certa impalpabilità dell’utopia è ammessa dallo
stesso Jameson: “E’ paradossale che una forma che dipende in
maniera tanto assoluta dalle circostanze storiche (fiorisce soltanto
in condizioni specifiche e in rari frangenti) debba sembrare
essenzialmente astorica, che una forma che scatena inevitabilmente
passioni politiche sembri evitare o abrogare del tutto la politica, e
che un testo tanto dipendente dal capriccio e dall’opinione dei
singoli sognatori sociali si trovi disarmato di fronte alle istanze
del soggetto individuale e della sua azione fondatrice”. Funziona
molto meglio dove la dimensione dell’utopia è messa in discussione
nelle invenzioni letterarie, quelle fantascientifiche su tutte, non
solo per la loro capacità di mostrare mondi irraggiungibili e futuri
remoti, ma anche perché evidenziano “un elemento caratterizzato da
una parola decisamente sospetta, entusiasmo. E’ la vocazione
intellettuale nel suo stadio più febbrile e spassionato, al culmine
della propria eccitazione potenziale, impegnata in una missione che
più di qualsiasi altra sembra concentrare ciò che definisce
l’intellettuale, cioè il rapporto con la scrittura”. Fredric
Jameson attinge a una fornitissima bibliografia, con lo spirito di
Philip Dick a vegliare sui romanzi di Michael
Swanwick, Greg Bear, Samuel Delany, Isaac Asimov, Arkady
e Boris Strugatzki, Olaf Stapledon e Ursula Le Guin, la più
citata, a cui tocca il compito di semplificare lo sguardo verso le
architravi delle utopie e delle distopie: “Le cose non hanno uno
scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte
svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? La
cosa non ha importanza, è che siamo una parte. Come un filo di lana
in un tappeto o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e
noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che
soffia sull’erba”. Così, sì, il desiderio, e pure l'utopia, sono chiarissimi.
sabato 28 ottobre 2017
Henry James
La
panchina della desolazione è la risposta, compressa in un
brevissimo romanzo, al soggetto proposto da Henry James con questo
dettato: “Scoprite lo stato d’animo, indovinate la natura
dell’agitazione da cui è posseduta la persona così stranamente
rappresentata”. Il centro dell’attenzione è Herbert Dodd, una
personalità senza pretese, fin troppo concentrato su se stesso al
punto che Kate Cookham, dietro la minaccia di trascinarlo in
tribunale, pretende e ottiene da un sostanzioso risarcimento per la
loro mancata unione. Matrimonio è una parola che non appare tra i
due, e una delle tante che Henry James lascia in sospeso: Herbert
Dodd, modesto libraio, si ritrova a subire il peso di un debito che
non sarà mai in grado di ripagare. Anche dopo aver sposato Nan
Drury, la sua resa lo porterà a riflettere sul “senso ritrovato
della desolata e inutile consapevolezza che aveva accompagnato l’atto
del suo matrimonio”. Con la diafana e fragile Nan Drury sulla
panchina va in scena la debolezza, l’arrendevolezza di un uomo e le
sue contorsioni davanti alle intemperie dell'amore. Le qualità di
Herbert Dodd non sono moltissime, e con tutto il grave fardello che
lo accompagna, vedrà dissolversi la sua famiglia e rimanerrà, solo,
sulla panchina in contemplazione del “mondo del suo presente
squallore”. E’ lì che assiste alla danza di “spettri di
stagioni morte”, fino a quando non riappare Kate Cookham. La forma
ellittica della storia ruota attorno ai due, proprio come se fossero
i fuochi, e se nella prima parte è concentrata sull’inerzia di
Herbert Dodd, nella seconda vede lei protagonista di un colpo di
scena, ma che lui, ancora una volta, interpreta a senso unico visto
che “tutto era stato costruito su quella profanazione, ma, non
sapeva come, stranissimamente, la cosa gli sfuggiva; così che, nel
più bizzarro dei modi concepibili, quando sentì che non doveva
lasciarla andare, fu come alzare la mano per salvare il
passato, l’orrendo, concreto inalterabile passato, esattamente in
quanto lei era stata la causa che quel passato era esistito e che
egli aveva dovuto subirlo”. Herbert Dodd e Kate Cookham sono due
magneti che si attraggono e si respingono nello stesso tempo e l’idea
di un “rapporto sociale” che viene tradito, la frattura che
paradossalmente li lega ancora è uno stretto legame platonico che
si consuma proprio con La panchina della desolazione come
ritrovo, una boa attorno alla quale gira la storia, e il suo
capolinea finale. La tensione è palpabile, e se non si capisce cosa
possa volere lei, si vede dove è arrivato lui, quando, firmando una
sorta di malinconico armistizio con se stesso, dichiara: “Ho
pensato per lunghi anni, credo, tutto quello che ero capace di
pensare. Ho pensato che non so pensare più. Quindi è finita”. E’
quasi un sollievo: la pressione è continua, anche nell’arco di un
centinaio di pagine Henry James articola frasi lunghe, elaborate,
ipnotiche, uno stile che si definisce fin dall’incipit quando
introduce La panchina della desolazione ricordando che “le
parole erano state dette nude e crude; ma una volta dette, sul punto,
anzi, d’essere pronunciate, egli sentì di poter affermare a se
stesso che esse gettavano, quasi la donna avesse girato un
interruttore elettrico, la luce più viva proprio sulle sue ragioni”.
Perfetto.
martedì 24 ottobre 2017
Megan Mayhew Bergman
Forse
è soltanto un’involontaria coincidenza, ma i Paradisi minori
di Megan Mayhew Bergman cominciano dedicando tutta l’attenzione
agli uccelli per finire con i pesci. Quasi un’evoluzione al
contrario, con una specie, quella umana, che resta indefinita e
prigioniera di se stessa, a metà strada tra la sofferenza in
cattività e l’amaro sollievo dell’estinzione. La coabitazione
sullo stesso pianeta di esseri che non sanno ed esseri senzienti e
convinti della propria indifferenza, genera il substrato che pervade
i racconti di Paradisi minori. E’ un tema che si snoda in
sottofondo, per quanto gli animali siano in risalto in ogni storia,
ma che tende a sottolineare l’innata conflittualità degli esseri
umani, le loro complicate relazioni, i frutti dolci e acidi che
maturano nei pensieri, perché “la verità è che siamo pazzi,
malati d’amore, tutti quanti”, come si dice in L’arte della
casalinga. E’ un racconto commovente dove tutto è doppio: due
madri, due case, un pappagallo che ripete, ma soprattutto una donna
che si riflette nello specchio della vita senza ritrovarsi. Un
problema che gli altri animali evidentemente non hanno. E’ su
questo fragile equilibrio che si muove la narrativa di Paradisi
minori: la sensazione che fra noi e gli animali ci sia una
connessione più intensa di quello che sembri, se non altro perché
“siamo parassiti del mondo, tutti quanti”, come dice uno dei
personaggi di Le balene di ieri. E’ uno dei racconti più
interessanti per via dell’intransigenza ambientalista del
protagonista, che è ossessionato dall’incubo della
sovrappopolazione e della resistenza di Lauren, la sua compagna, che
è rimasta incinta. La diatriba genera tensione a sufficienza per
immaginarlo come un capitolo di un romanzo, forse l’inizio, e a
suo modo risolve anche uno dei nodi cruciali dei Paradisi minori
quando Lauren immagina come “tutti i dilemmi cerebrali del mondo
non possano niente contro i fatti fondamentali della biologia”.
Anche gli altri racconti sono immediati e fruibili: cesellati con il
gusto dell’artigianato, semplici e raffinati nello stesso tempo,
offrono molti interrogativi sui cui soffermarsi scrutando le parole
che, alla fine, convergono sempre nel ripercorrere tutti gli
spostamenti dei personaggi che, uno dopo l’altro, si allontanano da
casa. L’ecologia dei sentimenti ha una sua specifica e principale
funzione nell’inseguirsi e perdersi, trovarsi e lasciarsi, un’altra
abitudine che gli animali, più fortunati di noi, non hanno. C’è,
in tutto questo movimento, molta America nei Paradisi minori di
Megan Mayhew Bergman con tutta la cultura e le atmosfere della
wilderness e insieme con la radicata convinzione di poter accedere
alla “terra trasformata”, come la chiamava William Cronon. Lo
spazio che siamo chiamati ad abitare non è infinito e quando la
protagonista di Un’altra storia a cui lei non crederà dice
“mi viene in mente che ogni tanto finiamo per abitare in luoghi che
non ci appartengono”, non fa altro che riflettere, oltre alle
proprie condizioni personali, sull’invadenza e la pericolosa
insipienza del genere umano. Megan Mayhew Bergman ha una sua
delicatezza nel confrontarsi con gli animali, domestici o selvatici
che siano, per come penetrano nella nostra esistenza e per come noi
decidiamo e pesiamo sulla loro. L’emblema è il coyote che si
aggira disorientato e affamato nell’habitat stravolto di Caccia
notturna: ci ricorda che gli animali subiscono le tensioni e le
paure che creiamo e sopportiamo noi, solo che non hanno la
letteratura per esorcizzarle.
lunedì 23 ottobre 2017
Stephen Crane
“Sei
un uomo?” chiede un bambino affamato e solitario all’essere
stremato e impolverato che sta risalendo la collina. Non c’è posto
per gli eroi nelle cronache belliche di Stephen Crane, non c’è
alcuna celebrazione degli atti di valore, anche quando sono
sconsiderati e o disinteressati. Il più delle volte scoprono
situazioni surreali, paradossali o semplicemente folli. Cambiano i
fronti, da Cuba alla Grecia alla guerra civile americana, ma
l’impressione è come se “l’umanità intera stesse scappando in
un’unica direzione, troncati tutti i legami che ci uniscono alla
terra”. Stephen Crane vede il delirio degli uomini in guerra e lo
racconta a distanza ravvicinata, e non solo: sembra percepire con
spiccata sensibilità le emozioni più intime e profonde, o almeno
quello che ne resta perché “il gran carnevale del dolore” lascia
attoniti, ammutoliti, privi di ogni forza. Quando si ha la certezza
che “la sconfitta è morte, a meno che non si verifichi un
miracolo” non resta molto, e Stephen Crane narra la partecipazione
e lo stupore, che rimane inalterato anche dopo pagine e pagine sangue
e fango, per la trasformazione degli esseri viventi in un’altra
materia, molto simile alla terra, come se fossero già morti e
inumati, senza rendersene conto. Questa visione è esplicita
nell’incipit di Un mistero di eroismo: dettaglio di una
battaglia americana: “Le uniformi scure degli uomini erano così
impolverate per i combattimenti incessanti tra i due eserciti che il
reggimento sembrava quasi parte dell’argine di argilla che lo
proteggeva dalle granate. In cima alla collina una batteria litigava
con altri cannoni lanciando tremendi ruggiti, e la fanteria poteva
scorgere nitidamente delineati contro il cielo blu gli artiglieri, i
cassoni e i cavalli. Quando veniva sparato un pezzo d’artiglieria,
una striscia rossa rotonda come un tronco guizzava bassa nel cielo,
simile a un lampo mostruoso”. L’acuto senso per “la meraviglia
della tragedia umana” di Stephen Crane si rivela proprio in quei
minuscoli dettagli che si stagliano prepotenti nei racconti. Un
bottone insanguinato in La faccia in su mette a rischio la
sepoltura di un ufficiale, la postura irregolare di una sentinella
scatena il terrore in Il manicomio privato del sergente,
l’acqua che entra troppo lentamente nella borraccia ancora in Un
mistero di eroismo: dettaglio di una battaglia americana, i
puledri intrappolati nelle fiamme in Il veterano, un canto che
risuona all’improvviso nell’oscurità del campo di battaglia, una
preghiera ricordata a fatica sotto il fuoco incrociato del nemico,
l’insensatezza degli ordini superiori, l’amputazione del braccio
di un tenente come se fosse la normalità nella logica estensione
della ferocia dei combattimenti: nelle storie di La morte e il
bambino non c’è nessuna gloria, nessun riconoscimento,
imperversano soltanto paura, disperazione, distruzione finché la
pazzia non appare come l’unica via di fuga praticabile. A quel
punto la risposta alla domanda del bambino che vede arrancare
qualcosa sul pendio, sgorga spontanea dai reportage di Stephen Crane:
è “solo un soldato, senza più nulla di umano”.
venerdì 20 ottobre 2017
John Barth
I
personaggi, l’ambiente, lo stesso tema sembrerebbero fare di La
fine della strada una coda ingombrante dell’umanità già vista
con L’opera galleggiante: insegnanti logorroici, linde e un
po’ asettiche periferie urbane, nevrosi in carriera, legami in
rapida trasformazione. In realtà, se L’opera galleggiante
tratteggiava la rete mutevole dei rapporti umani, La fine
della strada punta una linea d’ingrandimento sui nodi, sulle
intersezioni, sugli agganci. Il protagonista, Jacob Horner (“Ero un
uomo di notevole onestà entro limiti di un dato stato d'animo, ma
avevo poca resistenza”) insegnante di inglese, si trasferisce in
una cittadina della provincia americana dove diventa ospite fisso dei
coniugi Rennie e Joe Morgan con cui sviluppa un’ambigua e
controversa relazione. Lui resta al vertice di un triangolo, una
figura geometrica particolarmente cara a John Barth, che vede i due
coniugi Joe e Rennie Morgan alle altre due estremità. Ognuno di
loro, con una maschera diversa, con i repentini cambiamenti di umore,
le improvvisazioni sull’anima e le mille piccole deviazioni della
vita quotidiana e del suo linguaggio vengono indirizzati da John
Barth in un abbraccio contrastato, carico di presagi perché la loro
comunicazione viaggia da un estremo all'altro: dai silenzi
imbarazzati alle risate isteriche, dalle lunghe speculazioni
filosofiche a battute ingolfate di sarcasmo. Una voluminosa partitura
di parole che John Barth asseconda con uno spirito tutto suo: “Ma
in fondo al cuore sono ancora un arrangiatore: il mio massimo
piacere, nel campo della scrittura, è prendere una melodia
preesistente e improvvisando come un jazzista all’interno dei
limiti di quella melodia, riorchestrarla a seconda della mie
esigenze”. E’ grazie a questo vortice che La fine della strada
trascina il lettore nel vortice di Jacob Horner e dei suoi
ospiti, un dramma che si percepisce riga dopo riga, una mutazione che
non concede nulla ai protagonisti, che vengono travolti dalla loro
stessa storia. L’abilità di John Barth sta nel trasformarci in una
sorta di voyeur, suggerendoci poche indicazioni, ma mettendoci sempre
in condizioni di vedere l’intera scena, di percepire la tensione di
un dialogo, di condividere le vite alla deriva. A quel punto la
formazione teatrale e cinematografica di John Barth diventa
predominante nell’interpretare La fine della strada: “Per
ora basti dire che per gran parte del nostro tempo, se non sempre,
siamo tutti dispensatori di ruoli, ed è saggio chi si rende conto
che il suo dispensare ruoli è, nel migliore dei casi, un’arbitraria
deformazione della personalità degli attori; ma è anche più saggio
chi vede, oltre a ciò, che questo arbitrio è probabilmente
inevitabile, e sembra ad ogni modo necessario se uno vuol raggiungere
il fine che desidera”. Tutto lì, perché poi La fine della
strada è la dimostrazione pratica di quello che John Barth disse
in un’intervista di qualche anno fa: “Nella storia della
letteratura, i grandi romanzi sono sempre riusciti a mettere in scena
dei grandi problemi, senza richiedere una guida alla lettura o un
testo che spiegasse al lettore, dal di fuori, a cosa stava andando
incontro”. Dovrebbe essere sempre così.
mercoledì 18 ottobre 2017
Emily Dickinson
Il
coraggio della poesia di Emily Dickinson nasce dalla consapevolezza
di un metodo che coincide con lo scopo ultimo, come lei stessa
declamava nella lirica numero 680: “Ognuno, il proprio
ideale assoluto deve raggiungere, da solo, la solitudine con il
coraggio di una vita di silenzi. Lo sforzo è la sola solitudine, la
sopportazione di se stesso, la sopportazione di forze contrarie, e un
credo intatto”. Questa vocazione, nitida, immacolata, convinta e
ribadita più volte (scriveva ancora nel scrive nel 1863: “Ogni
vita converge verso un centro, espresso o silenzioso, nella natura
umana di ognuno esiste un fine”), si concentra e si scontra con il
“processo continuo” di vivere, e di conseguenza, con la pratica
quotidiana della scrittura che per Emily Dickinson è sempre
un’interpretazione, il frutto di un’elaborata percezione e di una
sostanziale distanza da se stessa che descriveva così: “Quando
parlo di me come soggetto della poesia, non ho in mente me, ma una
persona immaginaria”. Nelle sue poesie, c’è sempre un
interlocutore, una voce che ascolta in silenzio, dall’altra parte e
segue l’andamento fluente delle poesie di Emily Dickinson. Le
parole sono levigate, una per una, le rime sono le battute di un
ritmo solido, sinuoso, continuo, scandito con la precisione di un
metronomo e con il voluttuoso ondeggiare e inarrestabile del mare,
una visione ricorrente, simbolo dell’infinito e di “come s’è
cantato per tenere fuori il buio”. Ecco, la poesia di Emily
Dickinson è una trincea contro l’oscurità e l’idea di un Eden
sulla terra, un Eden nella realtà (“Sono viva, suppongo”) eppure
costruito nelle pieghe dell’immaginazione forse spiega quella che
Emily Dickinson chiamava “evanescenza”. I versi sono pregiati, e
precisi, intagliati con maniacale attenzione: “eterei”, eppure
così concreti nell’ordine dei vocaboli, e della punteggiatura (il
risultato è quella che Harold Bloom ha definito “ortografia
nitida”) e rispetto dell’idea che come diceva nella lirica numero
669: “Nessun romanzo in vendita assorbe un uomo quanto
abbeverarsi al suo personale, la finzione fa questo, diluisce fino a
farlo plausibile, il nostro romanzo, se è ristretto
abbastanza da far credere che non è vero”. E’ quello lo schema
invisibile, la trama, la rete di nodi che lega le poesie. E’ lì
dentro che Emily Dickinson riesce a contenere la cristallina
essenzialità delle sue liriche, concentrate nella misura necessaria
e sufficiente, sulla pagina, e nella produzione generale, limitata,
in qualche modo persino disinteressata, come riportava Barbara Lanati
da L’alfabeto dell’estasi: “Pare il successo dolcissimo
a chi non l’ha conosciuto. Solo chi ne ha doloroso il bisogno
conosce il sapore di un nettare. Non uno della folla purpurea che
oggi ha conquistato la bandiera saprà con tanta chiarezza dire ciò
che vittoria è come chi, nell’agonia dell’esclusione, battuto,
sente risuonare dilacerato e preciso lo stridore lontano del
trionfo”. Emily Dickinson resta “un’eccezione” americana,
estrema, nel dubbio e così nella certezza che “la coscienza è
l’unica casa di cui adesso si sappia”. Dopo, è tutto
relativo, anche la poesia.
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