Saigon,
Illinois è compresso tra due eventi
che sono rimasti scolpiti della memoria, in virtù del ruolo via via
predominante della televisione. Il clamore dell’offensiva del Tet,
con il drammatico assalto all’ambasciata americana, offre il
background iniziale, e l’arrivo sulla luna dell’Apollo 11, nel
luglio del 1969, non delimitano soltanto l’arco temporale in cui si
svolge il romanzo di Paul Hoover, ma sottolineano anche la drastica
metamorfosi di un intero immaginario che il protagonista di Saigon,
Illinois, Jim Holder spiega in modo
molto semplice: “Eravamo abituati a vedere Sid Caesar fare delle
smorfie a Imogene Coca o Charley Weaver leggere una lettera del
pubblico a casa, e ora non si poteva nemmeno guardare un notiziario
senza rimanere pietrificati sul divano”. Jim Holder fa riferimento
alla scena di un’esecuzione sommaria nelle strade di Saigon e
riporta alla memoria la storica fotografia di Eddie Adams (vinse il
premio Pulitzer per quel reportage) che ritraeva il comandante della
polizia sudvietnamita, il generale Nguyen Van Ngoc Loan, sparare a
sangue freddo a un sospetto vietcong. Dopo la guerra, Nguyen Van Ngoc
Loan andò a gestire una pizzeria nei sobborghi di Washington. La
bizzarra parabola sembra scritta da Paul Hoover che ha una
sensibilità tutta sua nel raccontare la scelta di Jim Holder che,
nell’estate del 1968, decide di negarsi alla leva, scegliendo il
servizio alternativo in un ospedale. Va notato che il punto di vista
disincantato di Jim Holder non riguarda soltanto l’aspetto
pacifista, ma anche le posizioni anticonformiste che emersero nel
corso di quegli anni. Nella sua prospettiva,“i veri
angeli della desolazione non erano
motociclisti fuorilegge e beatnik suburbani; erano comuni impiegati
di drogheria, meccanici, presidenti di banche e casalinghe che
credevano nell’inevitabilità, quindi nella bellezza della prima
alba nucleare. Erano le fenici che si alzavano dalle ceneri
dell’America delle piccole città e lo sapevano: era questo a
conferire loro una tale spaventosa fiducia nei propri odi
quotidiani”. L’ospedale dove andrà a lavorare Jim Holder, il
Metropolitan di Chicago, ne è la perfetta metafora istituzionale: la
sua burocrazia riflette la società della cosiddetta maggioranza
silenziosa che è andata in guerra, convinta della sua necessità. Il
tran tran è farraginoso: c’è sempre un supervisore che dispone e
controlla, ci sono ruoli, mansioni e organigrammi da aspettare o
sotterfugi e regole non scritte da assecondare nonostante la costante
emergenza in corsia. L’ospedale diventa il centro della vita di Jim
Holder, e non solo per le mansioni che è chiamato a svolgere: è
anche una sorta di labirinto emotivo dove incontra amore, pietà,
perfidia e (va da sé) dolore e morte. L’esperienza è drammatica,
anche se Paul Hoover ha un modo del tutto singolare di sottolineare
con l’ironia (e il sarcasmo, quando è necessario) i momenti più
tragici e gli episodi salienti che incidono sulla trama e
sull’andamento della storia. Jim Holder rimane incastrato quando,
nel corso di una manifestazione pacifista, si prende la sua razione
di manganellate e si ritrova ospite dello stesso ospedale dove deve
finire il dovere patriottico. A quel punto le sue opinioni, già
tollerate a fatica dall’amministrazione sanitaria, diventano
ingombranti, e viene licenziato. L’ufficio di leva, e da lì il
Vietnam, lo aspettano. Ormai alla fine, Jim Holder esprime senza
censure la sua disillusione, anche nei confronti di un evento tutto
sommato innocuo e neutro come l’allunaggio, che a dispetto
dell’entusiasmo generale, vede così: “Armstrong probabilmente
aveva anche lui delle battute e cose da fare scritte da qualche
pubblicitario della NASA, anche se la sua avventura era reale. Un
passo avanti per l’umanità, un cazzo”. Paul Hoover rende bene il
clima confuso dell’America a cavallo tra il 1968 e il 1969, della
frattura verticale tra le generazioni e dell’ambigua conduzione dei
conflitti e offre un punto di vista inedito rispetto all’enorme
massa bibliografica legata alla guerra del Vietnam. A Jim Holder non
resta che l’alternativa on the road che, nello scorcio finale,
appare come una conseguenza logica, diretta e spontanea, quasi ovvia,
ma solo perché la costruzione di Paul Hoover è molto fedele e
puntuale. Nonostante tutto, anche la fuga verso la California è
ammantata dallo stesso velo di amarezza che pervade l’intero
Saigon, Illinois.
Inevitabile perché riporta su un piano emotivo il fallimento di una
nazione intera, quella che Allen Ginsberg chiamava “la caduta
dell’America”. A quel punto, lo status di Jim Holder passa da
parziale obiettore di coscienza (e furono 3250 gli obiettori finirono
in carcere) a renitente, insieme ad altri 570.000 giovani americani.
Di questi molti fuggirono in Canada o in Europa, 209.517 vennero
processati e solo nel 1974 il presidente Gerald Ford promulgò gli
atti per una prima clemenza, poi completata dall’amnistia varata da
Jimmy Carter nel 1977. Toccante e utile, perché era una storia che
ancora doveva essere raccontata.
Grazie, Marco, for the interview. Paul Hoover
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