Quando
Blind Boy Grunt alias Bob Dylan cantava The Death Of Emmett Till,
rileggeva un drammatico episodio dell’agosto 1955, avvenuto nel
Mississippi: di fatto un linciaggio rimasto senza colpevoli, che, con
il suo grave senso di ingiustizia, ha segnato uno spartiacque nella
discriminazione razziale. Uno dei versi di The Death Of Emmett
Till riassumeva così l’amarezza e il disorientamento di fronte
a quello spietato omicidio, e alla sua ambigua e tragica coda: “Se
non dite niente davanti a una cosa come questa, contro un crimine
così ingiusto, allora i vostri occhi sono pieni della terra dei
cadaveri e la testa l’avete piena di polvere”. Sono parole che
tornano spontanee quando, nelle discussioni dei protagonisti di Le
morti in mare (il primo racconto di Un’ultima inutile
serata), riappare il fantasma di Emmett Till. Gerry viene dal
bayou, è cattolico, con ascendenze francesi, mentre Willie è
afroamericano e arriva da Philadelphia. Insieme si trovano a
condividere una cabina sulla portaerei Ranger in qualità di
ufficiali della marina degli Stati Uniti. La fragile armonia che si
sviluppa tra loro viene messa a dura prova da un flusso continuo di
alcol, incidenti verbali, scontri fortuiti, finché Gerry non ammette
il disagio: “Ho l’impressione che di notte il mondo ci abbandoni.
Smettiamo di vederlo. Scompare e rimaniamo con quel poco che resta di
visibile; e senza quelle distrazioni che il giorno ci rivela, la
nostra vista non è solo limitata, ma si affina e si concentra su ciò
che per la maggior parte di noi è il mondo, noi stessi”. Non è
solo per la condizione notturna che Le morti in mare determina
la natura dei racconti che seguono. E’ come se i racconti si
incastrassero uno nell’altro, per via di alcuni temi ricorrenti,
dalla guerra del Vietnam (la portaerei Ranger, infatti, è
stata una delle principali navi impiegate in quel conflitto) che è
il substrato, con un sentore di sconfitta bruciante, di Vestito
come foglie d’estate alle contraddizioni del melting pot
americano che emergono di nuovo in Dopo la partita e, in
parte, in La terra dove sono morti i miei padri. E’ un
racconto dove prendono forma persino dei contorni noir, a sua volta
collegato a Le morti in mare perché entrambi sono imperniati
attorno a un omicidio, per quanto in gran parte accidentale. Senza
alcun timore, Andre Dubus prosegue come se non avesse paura del
dolore, non temesse l’ignoto e con Molly e Rose, due
racconti tra i suoi più belli e dolenti in assoluto, mostra, una
volta di più, una spiccata sensibilità per i ritratti femminili. Il
quadro dell’adolescenza di Molly, alla spasmodica ricerca di
quella sensazione “che si prova quando ci si sente amati”, si
scontra con l’avviso della madre, Claire: “Quando non sei amata,
è peggio che fare parte di una folla. E’ come se non avessi più
corpo. Diventi astratta: c’è solo la tua voce dentro di te che ti
parla, e ti senti come se non occupassi neppure lo spazio su cui
poggi i piedi, come se fossi senza peso. Sei in un punto sulla terra,
ma i tuoi piedi sono in aria”. Questo, a tutti gli effetti, è
l’avvio al passaggio successivo: Rose è un racconto
straziante, dove, con l’intercalare degli aneddoti nel corpo dei
marines, si sprofonda nella cupa (e violenta) dissoluzione di una
famiglia in cui la protagonista, (la stessa Rose), arriva al punto in
cui non può tornare indietro. Una condizione tipica, tra l’altro,
dei racconti di Raymond Carver, la cui stima per Andre Dubus è nota.
Il lettore è avvisato perché “se diamo tutto ciò che si può
dare”, come cantava ancora Bob Dylan in The Death Of Emmett
Till, è facile varcare la soglia dell’imprevedibilità e
scoprire che, in effetti, anche la realtà “è tutto un mistero”.
Con Andre Dubus succede perché è uno scrittore generoso, che rimane
nell’ombra e lascia avanzare i suoi personaggi, ma non di meno ne
condivide i drammatici destini, come se fosse lì, con loro, cercando
di capire dove può spuntare la luce in fondo a Un’ultima
inutile serata.
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