La
solitudine, l’alienazione, l’emarginazione e ogni altra odissea
umana ovvero tutti i temi preferiti da Sam Shepard trovano in Motel
Chronicles una
sorta di elevazione al massimo esponente dove la scrittura è
qualcosa che va oltre le parole, perché “dicono che le parole sono
incomprensibili”. Allora è come guardare da una finestra, in una
notte eterna che “ci tiene sotto luce”, per vedere qualcuno in
bilico sul confine della propria. L’immagine è scavata nelle
ombre, nitida e precisa: “Lavò la sua camicia rossa nel lavandino.
Stese sul pavimento un asciugamano del motel. Stese la camicia sopra
l’asciugamano. Mentre lisciava le maniche e le incrociava sul
ventre della camicia pensò alla propria morte”. E’ facile
pensare che quella stanza pagata pochi dollari sia nella stessa
contea di Paris, Texas: “dentro” e “fuori”, i due estremi
significativi della scrittura di Sam Shepard si svolgono per immagini
perché “ogni fotografia è un punto di vista” e guardare le
parole, piuttosto che leggere, aiuta ad avere molti pensieri che si
possono “chiamare alleati”. La scrittura di Sam Shepard è,
soprattutto a questo stadio, quello di Motel
Chronicles classica
e indefinita, indefinita proprio perché classica, classica proprio
perché indefinita. La costruzione delle frasi è fatta un passo dopo
l’altro, una parola dopo l’altra, frammenti e schizzi che vanno
ad associarsi senza uno schema preciso, almeno in apparenza. E’
l’espressione di un’impressione, di un’emozione, dell’immediato
ed è qui che diventa esplicita la sua congenita vicinanza al
linguaggio del rock’n’roll. Le parole sono tagliate e assemblate
a colpi di accetta, come se fossero Polaroid, incisioni profonde e
precise che hanno gli stessi effetti di un riff in una canzone: ti
prende e non ti molla più. Per fissare un punto nella geografia
della vita gli serve una riga, poco meno, poco più: “All’improvviso
fui colto da un panico spaventoso. Ero tra questi due mondi. Il mondo
che mi ero lasciato alle spalle e questo nuovo mondo. Non avevo idea
di dove andare”. I rifugi provvisori e senza difese di una camera
di motel o dell’abitacolo di un automobile sono piccole ed effimere
illusioni anche perché “la gente qui è diventata la gente che fa
finta di essere” e non riguarda soltanto Hollywood e la California.
E’ “fuori”, è “dentro”. E’ nella scrittura di Sam
Shepard ed è nella lettura di chi legge che si chiede (e si
risponde): “Qual è il punto da cui diventa pericoloso spingersi
oltre? E mi resi conto che il momento delle domande arriva quando
pensi di esserti già spinto troppo in là”. Fuori ormai c’è il
deserto, un posto dove la parole non contano più nulla perché
comunque per chi aggiorna le Motel
Chronicles “non
cambia niente. Tanto vale non saperlo se proprio vuoi la verità.
Tanto vale prenderla come viene. Senza scaldarsi tanto. Se mi
dissolvo mi dissolvo. Punto e basta. Tanto vale dissolversi in pace”.
Leggerlo è come sbirciare attraverso una fenditura di luce: “dentro”
e “fuori” a uno film stupido “sì, ma mai come la vita”.
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