La
panchina della desolazione è la risposta, compressa in un
brevissimo romanzo, al soggetto proposto da Henry James con questo
dettato: “Scoprite lo stato d’animo, indovinate la natura
dell’agitazione da cui è posseduta la persona così stranamente
rappresentata”. Il centro dell’attenzione è Herbert Dodd, una
personalità senza pretese, fin troppo concentrato su se stesso al
punto che Kate Cookham, dietro la minaccia di trascinarlo in
tribunale, pretende e ottiene da un sostanzioso risarcimento per la
loro mancata unione. Matrimonio è una parola che non appare tra i
due, e una delle tante che Henry James lascia in sospeso: Herbert
Dodd, modesto libraio, si ritrova a subire il peso di un debito che
non sarà mai in grado di ripagare. Anche dopo aver sposato Nan
Drury, la sua resa lo porterà a riflettere sul “senso ritrovato
della desolata e inutile consapevolezza che aveva accompagnato l’atto
del suo matrimonio”. Con la diafana e fragile Nan Drury sulla
panchina va in scena la debolezza, l’arrendevolezza di un uomo e le
sue contorsioni davanti alle intemperie dell'amore. Le qualità di
Herbert Dodd non sono moltissime, e con tutto il grave fardello che
lo accompagna, vedrà dissolversi la sua famiglia e rimanerrà, solo,
sulla panchina in contemplazione del “mondo del suo presente
squallore”. E’ lì che assiste alla danza di “spettri di
stagioni morte”, fino a quando non riappare Kate Cookham. La forma
ellittica della storia ruota attorno ai due, proprio come se fossero
i fuochi, e se nella prima parte è concentrata sull’inerzia di
Herbert Dodd, nella seconda vede lei protagonista di un colpo di
scena, ma che lui, ancora una volta, interpreta a senso unico visto
che “tutto era stato costruito su quella profanazione, ma, non
sapeva come, stranissimamente, la cosa gli sfuggiva; così che, nel
più bizzarro dei modi concepibili, quando sentì che non doveva
lasciarla andare, fu come alzare la mano per salvare il
passato, l’orrendo, concreto inalterabile passato, esattamente in
quanto lei era stata la causa che quel passato era esistito e che
egli aveva dovuto subirlo”. Herbert Dodd e Kate Cookham sono due
magneti che si attraggono e si respingono nello stesso tempo e l’idea
di un “rapporto sociale” che viene tradito, la frattura che
paradossalmente li lega ancora è uno stretto legame platonico che
si consuma proprio con La panchina della desolazione come
ritrovo, una boa attorno alla quale gira la storia, e il suo
capolinea finale. La tensione è palpabile, e se non si capisce cosa
possa volere lei, si vede dove è arrivato lui, quando, firmando una
sorta di malinconico armistizio con se stesso, dichiara: “Ho
pensato per lunghi anni, credo, tutto quello che ero capace di
pensare. Ho pensato che non so pensare più. Quindi è finita”. E’
quasi un sollievo: la pressione è continua, anche nell’arco di un
centinaio di pagine Henry James articola frasi lunghe, elaborate,
ipnotiche, uno stile che si definisce fin dall’incipit quando
introduce La panchina della desolazione ricordando che “le
parole erano state dette nude e crude; ma una volta dette, sul punto,
anzi, d’essere pronunciate, egli sentì di poter affermare a se
stesso che esse gettavano, quasi la donna avesse girato un
interruttore elettrico, la luce più viva proprio sulle sue ragioni”.
Perfetto.
Nessun commento:
Posta un commento