La notte del 10 gennaio 1895, l’arcivescovo di
Canterbury, Edward White Benson, nella sua residenza di Croydon, racconta una
ghost story che Henry James si annota con puntualità sui suoi Taccuini. Trama, ambiente,
personaggi sono già delineati in una manciata di righe che conclude così: “E’
tutto vago e incompleto, il quadro, la storia, ma sembra recelare una vena di
strano raccapriccio”. Nella decadente tenuta di Bly, in mezzo alla campagna
inglese, viene mandata una giovane istitutrice incarica di accudire i piccoli
Flora e Miles. La bucolica residenza nasconde i fantasmi della signorina Jessel
e del signor Quint che appaiono enigmatici: sono appena ombre dietro una
finestra o sulla riva di un lago eppure scatenano un vorticoso maelstrom
psicologico. Giro di vite è un micidiale labirinto narrativo, e chissà se
è vera la storia dell’arcivescovo, in cui ogni varco si spalanca su un livello
più profondo. Henry James lo definiva “un’escursione nel caos pur rimanendo,
come Barbablù e Cenerentola, solo un aneddoto, anche se un aneddoto amplificato
e altamente accentuato e tornante su se stesso: come, del resto, tornano su se
stessi Cenerentola e Barbablù”. Il senso di “un ulteriore giro di vite” è
palpabile, pagina dopo pagina, perché sulla residenza di Bly gravano il
sospetto, l’angoscia, il dubbio che qualcosa di orrendo sia successo ai due
bambini e che non sia ancora finito. Il mistero è proprio in quel Giro di
vite
impresso alla trama che Henry James ha tessuto con meticolosa genialità: “Rendi
la visione generale del male da parte del lettore abbastanza intensa, dissi a
me stesso, e questo è già un compito piacevole, e la sua esperienza, la sua
fantasia, la sua simpatia (per i bambini) e il suo orrore (dei loro falsi
amici) gli forniranno a sufficienza tutti i particolari. Fagli pensare il male, faglielo
pensare da sé, e sarai liberato dal peso di deboli specificazioni”. Tenere in
considerazione il lettore, come scriveva Henry James nella prefazione di Giro
di vite,
è già un elemento di rara coerenza a cui fa seguito uno svolgimento in cui lo
stile ricerca, con un’ossessiva attenzione, di “rendere denso come una fitta
pasta il soggetto della mistificazione della mia giovane america, della mia
immaginaria narratrice, e tuttavia mantenerne l’espressione così chiara e fine
che ne risultasse bellezza: nessun aspetto della cosa rivive tanto per me
quanto quello sforzo”. Ogni dettaglio, ogni singolo gesto, ogni particolari dei
racconti che si inanellano l’uno con l’altro, persino “gli oggetti quotidiani
della vita”, come li definisce ancora Henry James, tendono ad evocare l’humus
da cui gli spettri prendono forma, a partire dalle parole e dai silenzi. Sembra
paradossale che la realtà sia il loro habitat ideale e invece ha una sua logica
stringente se ci fida di Virginia Woolf quando scrive che i fantasmi “hanno la
loro origine in noi” ed è l’autorevole indicazione che porta a comprendere quel
senso unico che Giro di vite imbocca dall’incipit fino al finale
agghiacciante, emblematico, perfetto.
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