L’ossessione per il ritmo che si risolve nell’equazione “prendere tempo, trovare il tempo” è una costante irrinunciabile per Sly Stone ed è anche la forza propulsiva del suo memoir. Una danza con la propria storia che comincia corteggiando la memoria: “Ripercorro il mio passato, le parti di tempo che ancora conservo e quelle che sono scivolate via. Riesco ancora a sentire una nota saltare fuori da un piano elettrico nel 1966. Riesco ancora a vedere l’orlo di un vestito sollevarsi nel 1970. Riesco ancora a sentire il calore delle luci sulla mia faccia mentre salgo sul palco nel 1972”. Sly Stone non è politically correct e non cerca nemmeno di edulcorare fatti, vicende e cronache perché qui dentro c’è la musica, la droga, il sesso, la vita vera, danni compresi. Il racconto è spontaneo, naturale e senza filtri o censure: Sly Stone si concede con generosità a raccontare la formazione della Family, il confronto con l’industria discografica, i successi e i fallimenti. Proprio come una delle sue canzoni, si snoda sinuoso e sincopato con un sottile senso dell’umorismo che non viene mai a mancare, anche nei momenti più drammatici (e ce ne sono un bel po’). Si accontenta di riordinare ricordi che non sempre sono precisissimi, ma non è nemmeno nell’intenzione ricalcare una biografia ordinata ed elegante. Il racconto però procede spedito, senza intoppi, “un po’ differente ogni sera, sempre nascosto, dalle ore piccole alle prime luci del mattino” collocando le ricostruzioni di Sly Stone nel contesto storico e sociale: dagli inizi in veste di conduttore radiofonico alle prime formazioni, dagli esordi discografici a Woodstock, dai successi a riconoscimenti tardivi. Sfrontato, a tratti gergale, per scelta e per necessità, come ammette Sly Stone: “Ho fatto una dieta verbale cercando di mettere in ordine determinate informazioni di cui ho bisogno per rimanere il più possibile vicino ai fatti e non essere depistato da qualche fenomeno da baraccone”. Non concede nulla all’ipocrisia e narra gli incontri e i legami con Bobby Womack, Michael Jackson, George Clinton, Bootsy Collins, e, con un certo candore, apre le porte su quello che il più delle volte viene rimosso o sotterrato. Giunto alla maturità degli ottant’anni Sly Stone non ha nulla da nascondere e gli va riconosciuto un bel coraggio nello svelare trucchi e misfatti delle etichette discografiche e dei promoter, ma anche i limiti di una vita in balia di sostanze e appetiti fuori controllo. Come è facile immaginare ne succedono di tutti i colori: arresti, fughe, colpi di pistola, eccessi e disastri, avvocati e tribunali, la lunga mano del fisco che lo insegue, galera e rehab. Bisogna dire che Sly Stone non si è fatto mancare nulla nel suo istintivo affrontare la vita e, per quanto colorite e saltellanti, le sue rievocazioni non sembrano avere secondi fini o ambiguità di sorta. È la musica, l’ancora di salvezza, l’ultima spiaggia di una traversata burrascosa, il limite che Sly Stone affronta con sincerità. È una bella corsa attraverso uno stile che ha rappresentato moltissimo per la cultura afroamericana in generale e per l’hip-hop in particolare. Non è lui a dirlo, ma Greil Marcus in Mystery Train quando spiega che: “Il sound della band era caratterizzato da un’incredibile libertà. Era complesso, perché la libertà è complessa; folle e anarchico, come il desiderio di libertà; cordiale, sensibile, affettuoso e coerente, come la realtà della libertà. Era inoltre una grande celebrazione, una grande affermazione, una musica dall’infinito humour e dall’infinita gioia, come una fantasia di libertà”. È proprio la “rivoluzione ritmica” come la definiva Rickey Vincent in Funk! e qui la sentite trasposta in prima persona, e vi farà ballare anche così.
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