Galeotti, fuggitivi, vagabondi, prostitute, sbandati: Le notti di Chicago sono popolate da tutto un milieu di disperati, agonizzanti, derelitti senza meta e senza speranza, braccati, “tagliati fuori”. Gli uomini e le donne di Nelson Algren sono outsider e sono tutti prigionieri, che siano in carcere o no, di sogni, miraggi e illusioni, e di un destino ineluttabile. Il clima è teso e al limite in ogni racconto e i protagonisti sono destinati a vicoli ciechi. La disperazione è una compagnia costante, almeno quanto la violenza, espressione di altri conflitti che esplodono in scontri e combattimenti corpo a corpo. Succede già in La faccia sul pavimento del bar ovvero Troppo sale sui pretzel dove, non senza un certo fatalismo, il protagonista affronta così la realtà quotidiana: “Mentre fumava la prima amara sigaretta del mattino, prendeva la fiera risoluzione di non darla vinta a nessuno, in tutta la giornata, e di non aver pietà per nessuno, come nessuno ne aveva avuta per lui”. I pugni assumono un valore “finché, a ogni nuovo colpo, ciascuno si sentì vendicato del duro colpo che la vita era stata per lui”. La rissa è soltanto l’inizio e anche la boxe è giusto una versione edulcorata per ricordare che c’è un “duro prezzo” da pagare. L’apologia è quella declamata in Pero venceremos, “perché quando la vita è fatta di momenti presi in affitto e di centimetri misurati uno per uno, allora ogni alba porta impressa la sigla di un dollaro e il dollaro di ieri non serve più a riscattare il giorno che passa. Allora ogni ora del giorno dev’essere comprata col sudore della paura e ogni pasto dev’essere consumato a costo di privazioni, come un falso amico che stia seduto dall’altra parte del tavolo e conti ogni forchettata: allora avviene che le cose più semplici diventano infinitamente preziose e nulla, neppure un grano di sale, ti viene dato per niente”. Più di ogni cosa, la necessità impellente è un luogo da chiamare casa, “un posto diverso, un posto felice, luminoso”, come dicono in La casa dei fratelli, ma se anche “c’erano buone probabilità”, dentro le mura il più delle volte si consuma un vuoto. L’alcol, la droga e i fallimenti sono un circolo chiuso e la tossicodipendenza è una fitta coltre di nebbia che i personaggi in in Progetto di partenza raccontano così: “Il tempo felice era trascorso per non più ritornare. Il tempo che non era mai esistito, e gli amici che non c’erano mai stati, tutto se n’era andato con le mattine che erano state così grigie e le notti che erano state così lunghe”. Il buio sembra propagarsi “in eterno” e a Nelson Algren non resta che dare voce ai suoi “rain dogs” così come vengono elencati in Il capitano fa brutti sogni: “E di nuovo arrivano gli uomini, gli spavaldi e i pentiti, gli sconfitti e gli arroganti, i ladruncoli da quattro soldi e i guappi sprezzanti, tutti avanzano, insaccati in sé stessi, in mezzo a uno scroscio di luce, come uomini che camminano in mezzo alla pioggia. I paurosi e gli esitanti, i remissivi e gli sfrontati, i tipi balzani e i pivelli di primo pelo, i vagabondi dal cuor contento e i veterani inaciditi”. Nel complesso, i racconti sono brevi istantanee, forti e precise nella cornice urbana, da Chicago a New. Orleans, dove l’ineluttabilità delle metropoli americane intorno alla metà del ventesimo secolo è riportata senza particolari mediazioni. Sono tutti tutti sull’orlo di un disastro e Nelson Algren, a suo tempo definito il “poeta dei bassifondi”, ci conduce a conoscere Il diavolo in Division Street, che è una ghost story con un suo senso nell’evidenziare la promiscuità e I ragazzi che seguono “tutti i rumori della notte sembravano come rumori che si allontanassero verso l’ignoto, sempre, tutta la notte”. Gli ultimi tentativi di fuga dalla dissoluzione in Da Kingdom City a Cairo e In fede mia comprendono maldestre rapine e passaggi obbligati sui treni merci, come unica alternativa al sottobosco di miseria, ma come direbbe qualcuno non c’è nessun posto dove correre, nessun posto dove andare.
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