Diffidate dagli slogan pubblicitari e dalle recensioni a senso unico: Marjorie Stanford e gli altri due vertici dello sghembo triangolo protagonista di Mi chiamavano Speed Queen, non sono i soliti natural born killers. Prima di diventare assassini hanno provato in (quasi) tutti i modi ad inventarsi una vita normale. Solo che hanno sempre viaggiato ad una velocità che non è soltanto bandita: non è nemmeno considerata. Lo confessa candidamente anche Marjorie Stanford, una volta giunta al capolinea: "E' vero; a me il mondo è sempre parso un po' lento. E' una questione di chimica, credo". La reazione giunge nel momento in cui la vita normale si trasforma, per semplice induzione, in vita noiosa ed è qui che comincia a prendere forma qualcosa che nessuno dei tre riuscirà più a controllare. Una passione sfrenata per la automobili, il sesso, la droga, il rock'n'roll e i soldi ("Niente pesa più dei soldi"). Tutto, e troppo presto. Il salto di qualità è rapido e violentissimo: nessuno di loro è un professionista e ogni progetto di furto, rapina o, infine, fuga si risolve in altrettanti massacri. A raccontare come è andata è Marjorie Stanford, nella sua cella di condannata a morte: il suo non è un tentativo di espiazione o una rilettura dei fatti per dichiararsi innocente, o chissà, meno colpevole. E' un modo per garantire un futuro al figlio Gainey perché il destinatario della storia è nientepocodimenoche Stephen King il quale ha sborsato una congrua cifra per garantirsi una storia destinata a diventare romanzo, film, home video, magari pc game. Marjorie Stanford, la fine dietro l'angolo, è esplicita: "Tu potrai inventarti la storia che vorrai. Desidero solo che ascolti quella vera, prima". Qui interviene Stewart O'Nan (Pittsburgh, 1961, tre o quattro romanzi alle spalle, un futuro davanti) limitando le divagazioni, tenendosi in disparte e concentrandosi sul flashback della sua Speed Queen, con una scrittura scarnificata, priva di qualsiasi velleità letteraria e fedele soltanto alla natura e alla vita della sua protagonista. Rispettando l'idea di partenza, quella di avere Stephen King come interlocutore, che in nessun momento del romanzo è un trucco per godere di luce riflessa. Lo si capisce subito quando Marjorie Stanford detta l'unica richiesta, l'ultimo desiderio della condannata a morte: "per amor io, fammi sembrare okay, ti dispiace?". A quel punto il lettore diventa Stephen King: può riscrivere all'infinito la sua storia, può leggerla e abbandonarla in un angolo, può vederla attraverso gli occhi dei personaggi, può sentirsi protagonista, e non capita spesso.
Nessun commento:
Posta un commento