È come infilarsi in un labirinto. Non è un libro scritto da Joan Didion: ritrovato soltanto nel 2021, poco dopo la sua scomparsa, il Diario per John è composto per una buona metà dalle valutazioni e dai commenti del suo analista all’interno di un intricato dialogo che comprende lei, lui, il marito, a cui sono dedicate le trascrizioni, e persino le opinioni del medico della figlia Quintana. Il Diario per John è il lato oscuro che L’anno del pensiero magico aveva in qualche modo ha superato: laddove la sofferenza veniva sublimata, qui è un’operazione segreta a cuore aperto, e ancora in corso, le cui finalità restano ambigue. Le discussioni di Joan Didion ruotano attorno a una questione spinosa, e irrisolta, la dipendenza di Quintana. I tentativi della famiglia di aiutarla sono tanti, ma “ogni via porta con sé dei dubbi”. I colloqui si ripetono per tre anni, dal 1999 al 2002, in cerca di un’opportunità per tutti, ma il più delle volte la sensazione è quella strisciante di un conflitto senza soluzione che induce Joan Didion a ripensare anche al proprio tempo: “Era una riflessione generale su a che punto eravamo delle nostre vite, sul desiderio di lavorare di più su qualcosa che valesse la pena e meno sul superfluo”. Essere felici è una decisione e lei ammette che “così sto io adesso” di fronte a tanta angoscia, e a quello che, passo dopo passo, pare un vicolo cieco. Il confronto con il dottor MacKinnon da una parte e con il marito dall’altra è serrato e continuo, anche se non porta a nessuna conclusione concreta. La trascrizione è accurata e minuziosa e si ha l’impressione che la scrittura, almeno nel caso specifico del Diario per John, costituisca uno strumento di autodifesa e un’occasione riservata per considerare “il tirare le somme della propria vita, a cosa era valso vivere, quale eredità si lasciava”. La sofferenza dei genitori è una palude ed è evidente che gli strumenti intellettuali e culturali di Joan Didion, per quanto enormi, non risultino adeguati. La rappresentazione della sua incapacità di affrontare con i termini giusti il subbuglio generato dagli stati di alterazione alcolici di Quintana è esemplare: “Pensavo venisse dalla retorica di frontiera che mi era stata inculcata da piccola. Molla le valigie, scarica il pianoforte, i libri, il baule di palissandro della nonna, o non arriverai a Independence Rock in tempo per raggiungere la Sierra prima che inizi a nevicare”. L’impatto è drastico, emotivo e tragico (compresi un suicidio e un omicidio in famiglia) e la ricerca delle responsabilità la porta a confessare la sua esigenza di avere un controllo, su tutto: “Non c’è dubbio che sia sempre stata esageratamente apprensiva. Le ragioni della mia apprensione possono non essere importanti quanto il semplice fatto che lo sono stata”. Nei tentativi di trovare un appiglio a cui aggrapparsi Joan Didion conferma di avere “una capacità altamente sviluppata di compartimentalizzare”, ma assecondando le logiche incalzanti di MacKinnon deve rassegnarsi a una sorta di resa incondizionata: “Credo di aver messo a fuoco solo ora di non essermi mai preparata, di non essere per qualche motivo riuscita a prepararmi, ad avere questa età, a ritrovarmi dove sono”. Attraverso le paure, le malattie, le incomprensioni e la fatica di intravedere un barlume di serenità, le esigenze di Joan Didion si fanno così più limitate, al punto di confidare nel Diario per John: “Spesso mi veniva da pensare che sarebbe bastato prendersi una settimana libera. Non sentirsi sotto pressione, riordinare la casa, sistemare i fogli al loro posto”. Non è mai stato così, eppure anche in questi appunti confidenziali e privati, Joan Didion si chiede quali congiunzioni sia meglio usare: come se le stesse fuggendo qualcosa e una virgola, o un punto o una parola potessero cambiare qualcosa, ma poi resta soltanto dolore, acuto e illimitato.
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