martedì 6 maggio 2025

Lou Reed

Fuori dal mainstream, urticante fino alla fine, Lou Reed non è mai stato un interlocutore facile, ritenendo l’intervista una forma di comunicazione non molto distante dalla tortura. Eppure nei confronti diretti, ha saputo manovrare tra domande e risposte concedendosi ampi spazi per rivelare la sua personalità. Un “uomo complesso”, come dice Patti Smith nel suo “coccodrillo”, e non c’è dubbio, ma era anche “curioso, a volte sospettoso, un lettore vorace e un esploratore di suoni. Un oscuro pedale per chitarra era per lui un altro tipo di poesia”. Fin qui ci siamo e seguono gli incontri più ingombranti, quelli con Lester Bangs e William Burroughs. Con tutta la simpatia e la complicità possibili per Lester Bangs il suo tentativo di affrontare Lou Reed sullo stesso piano suona, a posteriori, abbastanza fallimentare. Di certo, quell’approccio, siamo nel 1975, mostra tutti gli anni che ha, e alla fine è anche giusto ricordare che Lester Bangs accettava la realtà che aveva di fronte: “Lou Reed è il mio eroe principalmente perché sta dalla parte. Di tutto ciò che di più strambo potrebbe mai venirmi in mente. Il che, probabilmente, non fa altro che dimostrare la limitatezza della mia immaginazione”. L’appuntamento con William Burroughs, mediato da Victor Bockris nel “bunker” di New York si risolve in uno scambio di battute nel nome della reciproca ammirazione e con gli ossequi a Jack Kerouac e Samuel Beckett. Non bisogna essere per forza accondiscendenti e Lou Reed non lo era, ma David Fricke, che almeno cerca di restare nel seminato, l’intervista ha più senso. Siamo nel momento di New York ed è chiaro che Lou Reed ha smesso di giustificarsi per aver elevato e condiviso i drammi e i bassifondi dell’esistenza. Il colloquio telefonico con Neil Gaiman, per come viene raccolto e descritto, merita di essere segnalato come una svolta nell’ambito del rapporto di Lou Reed con le interviste. Neil Gaiman riflette intorno a Between Thought And Expression, il libro dei testi e il box antologico. e Lou Reed riesce ad accordarsi e ad aprirsi, spiegando con chiarezza le sue intenzioni: “Capita di scrivere canzoni che sono semplice divertimento, il testo non potrebbe sopravvivere senza la musica. Ma per la gran parte delle cose che faccio, l’idea era quella di provare ad applicare uno sguardo da romanziere, e, nella struttura del rock’n’roll, provare ad aggiungere quel tipo di scrittura, così che chi ama farsi coinvolgere a quel livello potesse avere quella scrittura ma anche il rock’n’roll”. E sul finire della telefonata, confessa: “Ho tentato più che potevo di creare situazioni in cui io potessi prosperare. E questo è un dovere che sento: rimanere fedele al talento e far sì che possa esprimersi e prosperare”. Tutto bello e facile con Paul Auster, con cui ha collaborato per Smoke e Blue In The Face. Il dialogo è serrato e amichevole, uno finisce le frasi dell’altro. Paul Auster lo incalza: “Io penso che scrivere ti mantenga giovane. Ogni arte mantiene le persone attive, perché non smette mai. Continui a farlo finché crepi”. Dal canto suo Lou Reed conviene e ribadisce: “E c’è anche da dire che non ti fai dissanguare e prosciugare da un lavoro che non ti lascia esprimere, se quella è la cosa che ti fa respirare!”. Più ostica l’intervista con tale David Marchese: è un battibecco continuo ed è difficile non schierarsi con Lou Reed, che ci mette meno di un secondo a tirare fuori il suo lato scostante e ostile. Però, tra un silenzio e un alterco, riesce a definire le sue aspirazioni: “Hubert Selby. William Burroughs. Allen Ginsberg. Delmore Schwartz. Riuscire a ottenere quello che hanno ottenuto loro, in così poco spazio, con parole così semplici. Pensavo che riuscire a fare quello che erano riusciti a fare questi scrittori traslandolo su batteria e chitarra sarebbe stata la cosa più bella del mondo. Avrei fatto strike. È un pensiero semplice. Non c’è niente di complicato in me. Sono la persona più regolare che ci sia”. Diciamo che, nel complesso, Lou Reed è stato un grande, i suoi intervistatori un po’ meno: Passeggiando sul lato selvaggio è un ritratto parziale, uno spezzone di una storia che ha ancora molto da rivelare, ma a suo modo funzionale perché traccia un profilo in modi differenti, spesso contrastanti. Resta l’ultimo, breve scorcio con Farida Khelfa, dove celebrando “il suono del vento, il suono dell’amore” ammette: “Nel rock’n’roll servono solo tre accordi, ero molto fortunato, era molto facile”. Ci siamo persi qualcosa? Eravamo rimasti che ne bastavano due (con tre siamo già nel jazz).

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