lunedì 5 maggio 2025

Henry Miller

Parigi e New York sono i poli verso cui rimbalza la Primavera nera di Henry Miller: l’idea di una città che si sdoppia nell’altra in un turbinio sfrenato di sogni e poemi, di volti e di orinatoi, di vagabondaggi ed esplorazioni, è una celebrazione che la trasforma in uno specchio e il suo riflesso è una sentenza: “Ciò che non è in mezzo alla strada è falso, derivato, vale a dire: letteratura”. Vicoli e angoli di Parigi sono il primo territorio delle avventure di Henry Miller ed è già consapevole che “puoi conoscere ogni strada di Parigi e non conoscere Parigi, ma quando hai dimenticato dove ti trovi e la pioggia cade lieve, all’improvviso vagando senza meta giungi alla strada per la quale sei passato tante volte nei tuoi sogni e per questa strada stai passando anche ora”. È una geografia particolare, quella che si riproduce nella sua voce senza pudori, in un flusso infinito che si fa ancora più voluttuoso nei  ritratti di New York. Dai porti ai grattacieli fino alle hall degli alberghi, una miriade di personaggi spuntano all’improvviso, ma “i ragazzi che hai adorato quando la prima volta sei sceso in strada restano con te per tutta la vita”. La direzione del tempo è biunivoca: il passaggio del testimone a Brooklyn da Walt Whitman e a Coney Island verso Lawrence Ferlinghetti, ricorda che ci sono progenitori e successori, anche se poi Primavera nera è dominata da una “Scarsa visibilità: previsioni per il Bronx, l’America, il mondo moderno tutto. Scarsa visibilità accompagnata da grossi scrosci di risa. Nessuna nuova stella all’orizzonte. Catastrofi... Solo catastrofi”. Parigi è lontana e Henry Miller è persino profetico quando osserva il suo paese: “Vedo nell’America l’origine dei disastri. Vedo l’America come una nera maledizione sulla faccia della terra. Vedo subentrare una lunga notte e vedo quel fungo che ha avvelenato il mondo inaridirsi alle radici”. È una constatazione  double face che lo tocca nel profondo: “Come uomo del continente americano, non riuscivo a credere che esistesse un posto sulla terra dove un uomo potesse essere se stesso”. La costruzione mentale coincide con la scrittura, come se fosse uno strumento per definire una personalità, o con la pittura (“Il disegno è una semplice scusa per il colore”), nessuna distinzione tra arte, vita e follia e mentre “ogni cosa si sbriciola e rovina, ogni cosa scintilla, oscilla, vacilla, barcolla”, diventa un’occasione per “vivere i propri desideri, darvi fondo nella vita, tale è il grande disegno dell’esistenza”. Henry Miller in Primavera nera si dimostra uno scrittore infinito, nel senso che non si ferma mai: in tutti i volti che si susseguono, una ben stramba umanità, ritrova un po’ di se stesso ed è una ricerca complessa e istintiva, ogni deviazione pare definitiva, ma ogni istante è provvisorio perché, ammette: “Insomma, sono come un uomo che si sveglia da un lungo sonno e scopre di aver sognato”. È un tempo, un momento irripetibile (“Ho tale e tanta fretta di riversare fuori i miei pensieri che li supero di corsa nel buio”) che Henry Miller pare recepire con tutti i sensi, traducendoli con lo strumento improprio della scrittura: Primavera nera apre un varco nella capacità di trasfigurare gli aspetti personali in deviazioni universali e generali tanto che “ogni capitolo del libro che è scritto nell’aria addensa il sangue; la sua musica assorda l’ansia scatenata dell’aria esterna. La notte cade come il rombo di un tuono, mi deposita a terra, sulla strada dei pedoni che alla fine non porta in nessun posto, ma è allegramente circondata da raggi lucenti lungo i quali non si può tornare indietro né sostare”. Questa è l’unicità di Henry Miller, che poi troverà conseguenze e maggiori espressioni in seguito, ma che in Primavera nera ha una sua peculiare istintività e intensità. La scrittura è un processo irreversibile, un moto perpetuo che non lascia scampo, un tour de force che implica un tutto.  Tumultuoso e disinibito, Henry Miller si (e ci) proietta altrove con il suo gesto: “Scrivo dal nulla ogni giorno. Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io, tra costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e plasmare nuovi mondi”. Visionario, a Parigi come a New York.

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