Gay Talese racconti i gatti di New York come se fossero “rain dogs” e potrebbe sembrare l’argomento dell’ennesimo, bizzarro storyteller, invece è uno scrittore capace di dare un senso specifico al suo ruolo e alla sua scrittura, fiction o non fiction che sia perché, come dice lui stesso nella conclusione di Frank Sinatra ha il raffreddore, “ho sempre creduto, e ho sperato di dimostrarlo con i miei sforzi, che bisognerebbe prestare attenzione alla gente comune anche nella letteratura che non è di finzione, e che, senza cambiare i nomi e falsificare i fatti, gli scrittori dovrebbero produrre quella che qui chiamo letteratura della realtà”. Il gusto per il dettaglio, sia che si tratti del il piccolo particolare che rende credibile ogni racconto, sia che si tratti di scelte definitive nell’impostazione della scrittura trasforma il suo modo di vivere il giornalismo che è punto di partenza nonché destinazione finale. Le fondamenta, su cui sarebbe utile riflettere ogni tanto, sono quelle di un’attenzione non comune ai soggetti, agli incontri e ai ritratti che Gay Talese spiega così: “Non ho mai scritto di nessuno per cui non nutrissi un minimo rispetto, e questo rispetto è evidente nello sforzo che esprimo nella scrittura e nell’impegno per cercare di comprendere ed esprimere i punti di vista dei soggetti della storia e delle forze sociali e storiche che hanno contribuito a formare il loro carattere, o la loro mancanza di carattere”. Per descrivere un mancato appuntamento, quello con Frank Sinatra, che non volle rivorgergli la parola, come un incontro epico, e senza inventarsi nulla, ci vuole tutta “l’arte del praticare”, la capacità di attraversare e leggere attraverso New York, “una città di cose che passano inosservate” e una visione che è “ispirata alla curiosità, è sostenuta dall’essenza delle persone e dei posti che mi sono lasciato alle spalle, la gente trascurata, quella che non fa notizia”. La sua narrazione del minimo quotidiano con il massimo dell’arte dello scrivere mette in simbiosi il giornalismo e la narrativa in un modo più unico che raro, anche se Gay Talese non nasconde particolari segreti, anzi si confessa in modo piuttosto genuino: “Venivo da un piccola città, e le mie percezioni erano alquanto provinciali. Provavo un senso di meraviglia per tutto ciò che gli altri trovavano normale. Pensavo valesse la pena di scrivere del consueto, degli avvenimenti quotidiani che facevano parte della routine di un individuo medio”. La dedizione al common man, anche quando si chiama Frank Sinatra o Joe Di Maggio, è il suo elemento primordiale e la spinta, l’ispirazione “l’unica qualità essenziale è la curiosità, e la forza di evadere e di conoscere il mondo e le persone che conducono vite straordinarie o che occupano posti oscuri”. Qualcosa che vale come una vocazione che Gay Talese dispensa con entusiamo perché “ci sono storie dappertutto, sotto i nostri occhi, alla nostra portata”. Basta liberarle dalla realtà: il bello, e il difficile, deve essere proprio quello.
martedì 15 febbraio 2011
Gay Talese
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