Jack
Kerouac è un nome che, dal punto di vista letterario, rimanda sempre a lunghe,
infinite e ipersensibili frasi, buttate giù ispirandosi agli ormai famosi
fraseggi di Charlie Parker o Sonny Rollins. L’immagine, nota per i suoi
romanzi, è quella prosaica di uno scrittore che non riesce a staccarsi dalla
pagina e dalle sue parole. Visione ormai un po’ consunta di Jack Kerouac che
non era solo un documentarista esistenziale e autobiografo, ma un autore
completo, capace di destreggiarsi attraverso prosa e poesia e, soprattutto,
all’interno di un bagaglio culturale onnivoro e apparentemente confusionario,
ma cosmopolita e magnetico. Aiuta a vederlo in questa prospettiva Il libro
dei blues, raccolta di
poesia in forma di appunti (o viceversa): non tutto il materiale è inedito
perché parecchie delle liriche derivano da pubblicazioni datate e dai reading
che si possono ascoltare, dal vivo, attraverso The Beat Generation (un bellissimo cofanetto discografico
che raccoglie il meglio della produzione beat e dintorni: oltre a Kerouac, tra
gli altri ci sono Allen Ginsberg, Lenny Bruce e Tom Waits), ma tutte le poesie
valgono per il lavoro che Jack Kerouac ha compiuto sulla forma e sul
linguaggio, diametralmente opposto rispetto a quello utilizzato per i lavori in
prosa. Le liriche raccolte in Il libro dei blues mostrano un Jack Kerouac convinto,
contento, spumeggiante e out of control, a suo agio nella dimensione poetica e
musicale che si adatta su misura alle sue visioni non meno che al suo istinto.
Si tratta di blues nell’accezione più generica del termine perché in realtà Il
libro dei blues è
composto da haiku, frammenti di sogni e di immagini raccolte dall’osservazione
e dalla sensibilità di Jack Kerouac, come spiega lui stesso nella scarna e
illuminante introduzione: “Nel mio sistema, la forma del chorus del blues è
limitata dalla misura delle pagine del notes da taschino su cui li ho scritti,
perciò a volte il senso delle parole può, o no, proseguire da un chorus
all'altro, proprio come il senso della frase musicale nel jazz può, o no,
estendersi armonicamente da un chorus all'altro”. E allora Jack Kerouac si deve
limitare a lasciarsi impressionare da quello che vede e sente, prendendo
appunti su appunti e limando, tagliando, cucendo sfodera versi a tratti
deliranti, a tratti geniali, sempre e comunque ispirati ad una vita senza
vincoli e con un briciolo di pazzia in più a renderla saporita. Sono parecchi i
gioielli sparsi, ma ce n’è uno che vale la pena di riportare per intero, un po’
per esempio e un po’ per rendere onore al suo autore. Si tratta del 40°
Chorus di San Francisco Blues:
“E quando la testa mi comincia a girare, e ridono tutti gli amici, e il denaro
mi casca dalla tasca, e oro dalle mie orecchie, e argento esce volando e
esplodono rubini, salto su & mangio, e canto un’altra canzone, e caccerò
altro vino nella pancia, perché sapete, che ha detto Omar Khayyam, è meglio
stare allegri, con l’uva allegra, che avere musi lunghi, guaendo tutta la
notte, cercando un senso, che non esiste”.
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