Questa
trilogia di racconti di Jim Harrison che risale al 1994 comincia con un altro
personaggio femminile che sembra nascere sulla scia di Dalva, quella Julip che offre anche il titolo alla raccolta.
Bella, caparbia, pronta a tutto e con una missione impossibile: far uscire
dalla galera il fratello che ha sparato ai suoi tre amanti. Deve essere un tipo
impulsivo, “ma essendo un sentimentale lui aveva sempre cercato di arrivare al
cuore di qualcosa che in genere un cuore non l’aveva”. Evidentemente, per guadagnarsi
il titolo su una copertina di Jim Harrison serve questo e altro. Lo stesso
discorso vale per il ritrovato Brown Dog (già protagonista dell’omonimo
racconto in Società Tramonti)
e per Philip Caulkins, l’anglista in disgrazia di Beige Dolorosa: un trio di caratteri sull’orlo di una
crisi di nervi che si addice alla perfezione al gusto di Jim Harrison. Anche
nel formato short stories, lo distingue l’usuale, notevole maestria nel
raccontare e nell’interpretare la vita come se fosse vera, con un grande amore
per i dettagli e per argomenti poco politically correct (anzi, pochissimo: il
sesso, la caccia, il bere e il fumare, una cucina che non è proprio
macrobiotica, l’individualismo disposto a tutto), un tono sempre ad un passo
dall’ironia ma profondamente realistico e avvolgente. Jim Harrison si conferma
un narratore di gran classe e se i tre racconti di Julip fanno evidentemente più sfoggio del suo
mestiere che dell’ispirazione, nulla toglie alla qualità. Come già in passato,
i racconti sembrano essere soltanto un tradizionale intermezzo, una valvola di
sfogo e probabilmente un esercizio di stile tra un romanzo e l’altro e chi ha
letto Dalva, Un buon giorno per morire o Ritorno alla terra sa che si può attendere con pazienza che
Jim Harrison finisca le sue pratiche e ci serva un’altra storia piena di
strambe ricette, grandi spazi (“Ho la sensazione che non sia previsto che
accadano cose di continuo, alla gente. Io, almeno, non sono portato per questo.
Dovrebbero esserci più spazi aperti, fra un evento e l’altro. Ecco, è il mio
pensiero ben chiaro per oggi” dice Brown Dog) e outsider che vivono in capanne
nei boschi soltanto perché la pioggia sulla lamiera è il rumore più bello del
mondo. Anche perché quella solitudine è uno strumento essenziale per non affogare
nei problemi quotidiani che dipendono in gran parte dalle incomprensioni e
dalle difficoltà di trovare un riscontro nei legami e nelle relazioni. Per
Brown Dog è “come diceva sempre il nonno, non era nella natura della gente
capirsi. Solo arrivare al lavoro in tempo, quella era la cosa essenziale”, e il
più delle volte non basta. L’ingrediente comune a tutti e tre i racconti di Julip, per non dire all’intera narrativa di
Jim Harrison, è l’urgenza della wilderness come modo per riallacciare i
rapporti con se stessi e un’idea di spazio e di tempo. Non è soltanto un
sfondo, con cui Jim Harrison ha un feeling particolare, è l’orizzonte che si
apre ogni volta che muore un sogno. Molto americano, molto umano.
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